- Ma la consulenza filosofica, in quanto “filosofia e nient’altro”, per citare Pollastri, (pp. 45-46), si riduce a una pratica esclusivamente logico-argomentativa?
Molti filosofi consulenti sembrano a volte ritenere che anche la sfera emotiva, ad esempio, si possa “risolvere” (o “ridurre”) in termini logico-argomentativi.
Ora, anch’io penso, come Jacques Lacan e Ignacio Matte Blanco, che “l’inconscio” abbia una sua logica o, se non vogliamo evocare l’inconscio, che il nostro agire e il nostro sentire seguano una loro logica “implicita”. Tuttavia, penso che sia riduttivo considerare il lavoro filosofico un lavoro esclusivamente logico-argomentativo.
- Per quale ragione?
Pensiamo al caso del lutto. C’è un bel caso di Neri Pollastri (bello si fa per dire, ovviamente) nel suo libro Consulente filosofico cercasi (cfr. ivi, p. 80). Nel modo in cui Pollastri si accosta a una madre che ha perso un figlio si coglie come Pollastri operi in modo tutt’altro che “anaffettivo” o “asettico”, come viceversa, a volte, nei suoi scritti, egli sembra sostenere che si debba fare. In particolare arriva a scrivere: “Si poteva solo tacere”.
In generale, nell’esperienza mia e di mia moglie, Norma Romano, (che si confronta spesso filosoficamente con parenti di malati di Alzheimer), in casi simili bisogna avere il tatto di lasciare che la persona che soffre si dia il tempo per maturare il senso del proprio dolore (cfr. Platone 2.0, § 4.1.8, p. 337 ).
La mia tesi è che il tempo sia parte del discorso filosofico, come e più dell’argomentazione.
In generale la filosofia antica ci consegna modelli di “vita filosofica” in cui la meditazione, l’esame di coscienza quotidiano, esercizi di attenzione ecc. sono pane quotidiano di un atteggiamento filosofico.
La mia ipotesi, dunque, è che la filosofia non sia riducibile a una pratica esclusivamente logico-argomentativa (l’argomentare è proprio, ad esempio, anche della retorica, come sapevano bene i sofisti greci), ma includa a pieno titolo anche sfere che per molto tempo sono sembrate “appannaggio” esclusivo della psicologia, ma che, piuttosto, sono propria delle pratiche di tipo spirituale, occidentali e orientali.
- A che sfere ti riferisci?
A quella emotiva e a quella alla quale la modalità logico-argomentativa è al servizio: ciò che i Greci intendevano con “intellezione” (noêin), altri hanno esposto come “intuizione” o, appunto, “insight” (l’Einsicht della fenomenologia husserliana).
Per quanto riguarda la sfera emotiva, dal momento che anche da parte dei più strenui difensori del Lògos l’emotivo può essere “letto” in forma logica, a partire dalla considerazione che (come argomentano Nussbaum e altri), in ultima analisi, anche l’emozione è un giudizio, perché non rovesciare la prospettiva? Se posso tradurre l’emozione in ragione, posso altrettanto tradurre la ragione in emozione, o no? Insomma, anche modi “non verbali” di stare al gioco filosofico dovrebbero essere legittimi e, del resto, appaiono ampiamente legittimati da una tradizione filosofica documentata da Pierre Hadot, quando mette in luce come per gli antichi la filosofia era essenzialmente “esercizio spirituale” prima che verbale.
- Ma quest’apertura, a cui è sensibile, mi sembra, l’ultimo Ran Lahav, non ci fa cadere appunto in pratiche di altra natura, in quelle di matrice psicoterapeutica o in quelle francamente spirituali? Chi ha formato il filosofo consulente a proporre pratiche di questo tipo o, comunque, ad accostarsi al proprio interlocutore in una prospettiva di questo genere?
La mia opinione è che non si tratti tanto di improvvisarsi “maestri zen” o yogin o direttori spirituali (meno che mai psicoterapeuti), quanto di meditare sul reale portato dell’esercizio logico-analitico al quale, in quanto filosofi consulenti, siamo formati. Forse, come suggerivano gli scettici greci (ma anche Platone letto in una certa maniera, come fa Max Picard, quando asserisce che ciò che parla davvero nei Dialoghi di Platone è il silenzio, cfr. Platone 2.0, p. 438), la “filosofia”, nella tradizionale veste di “critica logico-razionale”, costituisce un “catartico”, una purga (in effetti essa assolve spesso una funzione negativa, più che positiva, di “liberazione” da pregiudizi, opinioni irriflesse, ipotesi scambiate per principi, per citare il Platone della Repubblica, 510c-d), che “apre” all’intuizione (senza necessariamente determinarla), all’uscita della caverna (per riprendere l’immagine cara all’ultimo Lahav di Oltre la filosofia): insomma aiuta a trovare l’uscita dal labirinto di una mente, che, a volte, elucubra anche troppo su quello che le/ci capita, per permettere di accedere a una “verità”, trasformativa del soggetto che vi perviene (come si esprime e ci suggerisce anche l’ultimo Foucault), che non è dell’ordine del linguaggio (e dell’argomentazione), ma dell’intelligenza o, se vogliamo, del cuore.
Ed ecco, infine, un’intervista molto istruttiva a Giangiorgio Pasqualotto sul rapporto tra pratiche filosofiche d’Oriente e d’Occidente.
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