Una della cose che sconcertano di più coloro che si accostano alla consulenza filosofica come professione, sia dal lato del “cliente”, sia da quello dell’aspirante professionista, è la tesi, ormai classica, che la consulenza filosofica non sarebbe una tecnica di problem solving, non avrebbe, dunque, l’obiettivo di risolvere il problema proposto da chi la richiede.
- Se le cose stessero così, perché richiederla?
Perché – potrei rispondere – la consulenza filosofica fa molto di più che risolvere il tuo problema, inteso come il problema a partire dal quale l’hai richiesta (e che comunque la consulenza, se riesce, dissolve). Essa fa di questo problema il pretesto per aiutarti a conoscere te stesso e, quindi, – implicazione troppo spesso sottaciuta – a migliorare significativamente la qualità della tua vita (in termini classici: aiutarti a distinguere e conseguire il tuo bene, di qualunque cosa si tratti: della tua felicità, di dare un senso alla tua vita, di essere più autentico ecc.).
- In che senso il problema con cui mi presento al consulente filosofico costituirebbe un pretesto?
In estrema sintesi in Platone 2.0 , § 2.2.1, pp. 93-100, caratterizzo il “problema” (di cui evoco il significato greco di ostacolo, “pròblema“) come qualcosa che non si è messo in conto lungo la propria via. Faccio l’esempio di uno studente che sia costretto da diverse circostanze a dedicare un anno in più del previsto ai suoi studi. Questo gli fa problema perché non l’aveva messo in conto. Se, tuttavia, fin dall’inizio il corso di studi avesse avuto quella durata, non si sarebbe trattato affatto di un problema, ma di un dato (alla luce del quale egli avrebbe scelto o meno quel percorso). Dunque il problema “esiste” solo a partire da una certa prospettiva sul mondo (che presenta evidentemente qualche errore) o, come si è espresso una volta, efficacemente, un socio in formazione di Phronesis, “da un’ineliminabile contraddizione tra la realtà e i modelli che ci abitano e l’ interpretano”. A volte propongo questo esempio: perché non viviamo come problema il fatto di non avere quattro gambe e di non riuscire a muoverci a piedi a 60 km/h? Perché diamo per scontato di avere solo due gambe. Ma chi ne ha persa una vive questo come un problema, perché gli altri ne hanno due e pensa che gli manchi qualcosa.
- E allora? Ammesso che un problema presenti queste caratteristiche, come viene “trattato” in una consulenza filosofica?
Posso evocare quanto ho scritto nel saggio (pp. 44-45) nel quale ho confrontato la mia prospettiva e quella del filosofo praticante Stefano Zampieri. Il problema per cui il consultante si è rivolto al consulente costituisce
un primo tassello da cui può dipanarsi la complessiva visione del mondo del consultante, la cui chiarificazione costituisce il primo obiettivo della consulenza, obiettivo diverso, certo, della mera soluzione del problema medesimo, ma tale che, se tale obbiettivo fosse raggiunto, il problema potrebbe, più che risolversi, almeno dissolversi (giustificando il fatto che di “consulenza” si tratti e soddisfacendo anche la domanda esplicita del consultante). [...] Nella mia prospettiva teorica [la domanda che] costituisce il fondamentale innesco di una consulenza filosofica [è]: “Perché (o in che senso) questo determinato evento o questa determinata situazione costituisce per te un problema?”. È una mossa “sorprendente”, ma efficace, sempre nella mia esperienza, (nonché “altamente filosofica” proprio perché mette in questione e suscita meraviglia, cfr. Platone 2.0, § 2.2.1) per interrogare il problema e comprenderne il significato, in quanto problema. Non sempre una separazione, la morte di qualcuno, la perdita di un'occasione è un problema, anche se appare tale; a volte può essere una soluzione. L'evento in questione può essere vissuto come problema solo a partire da una determinata visione del mondo (in cui il matrimonio è “sacro”, questa persona era per me “necessaria”, quell'occasione era “l'occasione della mia vita” ecc.). Una volta che tale complessiva visione viene non solo chiarificata, ma anche messa in questione, per sue interne, non vedute contraddizioni, c'è caso che il problema sia dissolto, non perché si trovi il modo di superarlo (cancellando in qualche modo ciò che l'ha prodotto), ma perché l'evento (o la situazione) che appariva problematica si rivela un falso problema o, perfino, un'insperata opportunità. Si tratta, in altre parole, nella mia prospettiva, all'inizio di una consulenza, più che di invitare il nostro interlocutore a “raccontarsi” [come nella prospettiva di Zampieri e di quei consulenti filosofici che mettono l'accento sulla dimensione autobiografica dell'esercizio filosofico], di interrompere sul nascere tale racconto (con la connessa inclinazione del consultante a “piangersi addosso”, spesso celata in resoconti autobiografici, conditi magari di recriminazioni e distorsioni prospettiche) e di esercitare, piuttosto, fin da subito, un'attività di tipo critico-dialettico, fondamentalmente elenctica, in senso socratico, a partire proprio dalla messa in questione del problema come problema (si potrebbe dire: a partire dalla problematizzazione del problema).
Può essere interessante notare che, non diversamente da altre tecniche più o meno raffinate di problem solving, anche la cosiddetta Programmazione Neuro-Linguistica, nella sua evoluzione, è stata, per così dire, “costretta”, proprio per essere efficace, a sviluppare uno stile sempre più “filosofico” (meno problem-oriented) nel suo trattamento dei problemi di coloro che le si rivolgono. È questo senz’altro un segno della “potenza del filosofare”.
- Perché allora non rivolgersi, se si ha un problema, alla PNL, se si è così “filosoficamente evoluta”?
Sia nell’introduzione a Sofia e psiche, sia quando mi sono confrontato con approcci non nominalmente filosofici all’orientamento (cfr. Platone 2.0, § 7.4.8, dove confronto approcci filosofici e psico-pedagogici), ho spesso sottolineato come non ci si debba lasciar condizionare dalle etichette. Nulla vieta che un counselor, un programmatore neuro-linguistico o un formatore aziendale adotti “inconsapevolmente” o “non tematicamente” un approccio sostanzialmente filosofico. Si tratta solo, magari a posteriori, di riconoscerlo e di dare a Cesare quel che è di Cesare (insomma, se è la filosofia che si cerca, è meglio sperimentare l’originale piuttosto che la copia!).
Resta, poi, una sorta di peccato d’origine nella PNL a partire dalla sua stessa denominazione. Poiché nomina sunt omina e ci si accosta a qualcosa sempre condizionati dalle proprie pre-comprensioni, mi sarebbe ancora difficile rivolgermi a un esperto di PNL per riceverne un “aiuto” filosofico. Mi aspetto, infatti, che l’esperto in questione pretenda in qualche modo di ri-programmarmi (o, almeno, di farmi riprogrammare) il cervello (dico deliberatamente il “cervello” e non la “mente” per dare un senso al termine “neuro” che figura nella denominazione della pratica) attraverso il linguaggio per farmi risolvere i miei problemi. Si direbbe, in altre parole, che la PNL presupponga una determinata “antropologia” (e prenda anche una ben precisa posizione su questioni di “filosofia della mente”) che è tutt’altro che dimostrata o condivisibile.
Vi è d’altra parte, forse, anche un peccato d’origine, diametralmente opposto, nel rifiuto categorico della consulenza filosofica delle origini di proporsi come attività di problem solving. Prendiamo la caratterizzazione della consulenza filosofica sviluppata da Andrea Poma nel suo fondamentale articolo del 2002 (p. 44):
Questa problematizzazione infinitamente aperta e aprentesi, caratteristica della filosofia, si giustifica perché l’oggetto della filosofia è il pensare stesso nel suo procedere, prima che l’oggetto pensato, la fondazione, non il fondamento, la forma come processo formante, non il contenuto.