La questione di chi possa offrire consulenza filosofica fu sollevata da Neri Pollastri, che, in Consulente filosofico cercasi (a p. 21) scrive:
La consulenza filosofica [...] richiede di norma una maturazione personale che attinge anche all'esperienza di vita e perciò non è adatta a persone molto giovani.
In realtà fin da subito tale pronunciamento del “primo” consulente filosofico italiano suscitò comprensibili reazioni, soprattutto nella platea degli allora giovani adepti della consulenza filosofica…
La questione, nella mia prospettiva, va esaminata con attenzione sotto diversi profili.
Senza dubbio il fatto che il filosofo consulente metta in gioco se stesso, la propria vita, suggerisce che egli abbia una certa esperienza della vita stessa.
Tuttavia, questo non implica necessariamente che egli sia anagraficamente avanti cogli anni. Vi sono giovani assai saggi, che, in pochi anni, si sono fatti le ossa e hanno attraversato esperienze davvero significative. Tutti conosciamo anche persone di una certa età che non sono affatto cresciute, che tendono a reiterare gli stessi errori, che non sono maturate. La loro vita è trascorsa tra alterne vicende, ma, si direbbe, senza che esse ne traessero alcuna significativa esperienza.
Inoltre quello che davvero conta, oltre naturalmente aver svolto un percorso formativo adeguato, che comprenda possibilmente anche una laurea in Filosofia, non è tanto la quantità di esperienza, ma la sua qualità. Cartina di tornasole sotto questo profilo è non tanto che una persona abbia un vissuto ricco, quanto che sperimenti una discreta coerenza tra pensiero e vita. Ora questa coerenza non richiede di avere fatto “tanta” esperienza, bensì di avere acquisito un habitus interrogativo, riflessivo.
Semmai, se c’è senz’altro un’esperienza fondamentale nella consulenza filosofica… è quella della stessa consulenza filosofica! Più si pratica, più si acquista la capacità di arrivare rapidamente ai nodi cruciali del dialogo e a scioglierli e meno si rimane condizionati dalla paura di sbagliare o di invadere altri campi.
Non sottovaluterei, poi, le doti creative che, a quanto sembra, tendono a perdere smalto dopo i trent’anni.
Al riguardo posso citare la mia esperienza personale. Dopo aver scritto Platone 2.0, ho deciso di non pubblicare più alcunché nella tradizionale forma libro, ma ho scelto di riversare sul web, attraverso questo sito, la mia “filosofia”, intesa, questa volta, non come attività del filosofare (di cui dò prova come consulente filosofico), bensì come “visione del mondo”, quasi un “sistema”.
Ebbene, mentre mi sono accinto all’impresa (piuttosto inattuale), mi sono accorto che le intuizioni fondamentali che innervano la mia concezione del mondo risalgono proprio ai tempi del liceo o poco oltre. Gli studi universitari, gli approfondimenti successivi e la mia stessa esperienza di vita non hanno cambiato in modo essenziale il mio pensiero per quanto riguarda questioni come l’esistenza e la natura di Dio, il senso del mondo, il senso della vita e così via. La mia “cultura” mi consente soltanto di raffinare questo pensiero, di non cadere in contraddizioni troppo evidenti e di dribblare incongruenze con i dati che ci fornisce p.e. la scienza. Tuttavia questa cultura, nutrita di esperienza, potrebbe perfino portarmi a nascondere a me stesso certi punti oscuri della mia visione del mondo.
Non mi convince neppure fino in fondo l’opinione molto diffusa secondo la quale, se nella vita si attraversano momenti davvero drammatici, disperanti, nei quali sembra di non farcela, e poi se ne esce, ci si risolleva, si acquista una “competenza” particolare che si può anche trasmettere agli altri. A me sembra che, al contrario, chi si è esercitato fin da bambino a meditare può attraversare esperienze anche molto drammatiche e farne tesoro, ma chi non ha evoluto questa attitudine, se non è aiutato, rischia piuttosto di perdersi quando la vita gli tende qualche tranello.
Va segnalato anche un altro dato. Spesso per riuscire a mostrare al proprio interlocutore una prospettiva nuova, diversa, bisogna proprio non aver fatto esperienze simili alle sue. Meno esperienze si sono fatte, sotto questo profilo, più si è “ingenui” nel dialogo con il nostro interlocutore, più si può aiutarlo a dislocare il suo sguardo.
Anzi, proprio recentemente, conducendo un gruppo di pratica filosofica in Friuli, mi è venuta un’ispirazione… Mi è sovvenuto l’evangelico “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18, 3).
In effetti, anche a proposito della nostra differenza con gli psicoterapeuti, che cosa davvero contraddistingue un filosofo consulente? Che “parla come magna” e fa domande dall’ingenuità disarmante. Ad esempio a una persona che è appena stata lasciata: “E perché questo dovrebbe essere un problema?” o a chi chiede un supporto perché non prende più 8 nelle verifiche scolastiche ma scivola verso il 7 o il 6: “E che c’è di male in questo? Perché vorresti continuare a prendere 8?” e simili.
Non usiamo “paroloni” come “fantasma”, “ego”, “inibizione alla meta”, “denegazione”, “dissonanza cognitiva”, ma, accogliendo il linguaggio del nostro interlocutore, gli chiediamo: “Ma tu credi davvero in quello che stai dicendo?”, oppure “Sei certo di riuscire a fare quello che dici?”, o anche “Secondo te gli altri pensano di te quello che pensi tu di te stesso?” e così via.
Insomma, in effetti non dobbiamo tanto accumulare nozioni e vissuti, ma, al contrario, spogliarci di sovrastrutture, anche culturali, “togliere” (per fare il verso alla caricatura che Maurizio Crozza fa del mio conterraneo Mauro Corona), tornare bambini, nel senso preciso della condizione di chi ha il coraggio e la sfrontatezza di dire al proprio interlocutore quello che vede di lui, francamente, per quanto delicatamente, come il bambino che è il solo ad avere il coraggio di dire che il re è nudo.
Non vi è da dimenticare un ultimo aspetto, legato alla dimensione professionale della consulenza filosofica. La mia (ahimé ormai) lunga esperienza mi ha fatto riflettere sul fatto che spesso i consulenti filosofici di una certa età, come sono anch’io, esercitano altre professioni (insegnante, formatore aziendale, impiegato ecc.), diverse dalla consulenza filosofica, dalle quali traggono la maggior parte dei loro guadagni. Ciò fa sì che il loro interesse per la consulenza filosofica sia spesso di carattere “culturale” e che la stessa consulenza filosofica venga esercitata per lo più in forma “occasionale” (per essere chiari: senza aprire una partita IVA). Io stesso esercito l’attività prevalentemente, ormai, nell’ambito del mio sportello scolastico e, considerando i miei impegni soprattutto familiari (mi è stata donata la gioia di avere un bimbo da poco meno di tre anni, gioia unita, tuttavia, alla fatica!), francamente non cerco più consultanti adulti, ma mi limito ad accogliere chi cerca me. Mia moglie, invece, di quindici anni più giovane di me, prima del lieto evento, aveva aperto la sua bella partita IVA, insieme acquistammo un immobile per farci il nostro studio professionale… Insomma, a volte chi è più giovane e ha il coraggio di credere che la consulenza filosofica possa costituire per lui o per lei una professione vera e propria, magari non l’unica, ma comunque un’importante fonte di reddito, scommette sulla consulenza filosofica e prende questa pratica molto più sul serio; come se il consulente filosofico “meta-comunicasse” al suo ospite: “Io, caro consultante, credo di poterti aiutare a comprendere meglio te stesso, perché, come vedi credo in questo mio ruolo, nel quale ho investito sia esistenzialmente, sia finanziariamente”. Sotto questo profilo, dunque, la relativa giovane età, invece di costituire un ostacolo, diventa un “valore aggiunto”: essa dona quell’audacia che si traduce in quella famosa “messa in gioco” esistenziale che, anche sotto il profilo teorico, dovrebbe contraddistinguere il consulente filosofico.