Torniamo ad Achenbach!
di Giorgio Giacometti
Questa pagina costituisce la rielaborazione del modulo formativo che ho svolto come introduzione all’Itinerario Formativo 2018-19 di Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica.
Origine: “in principio era Achenbach”
Per “consulenza filosofica” possiamo intendere molte cose diverse, se partiamo dalla semplice “espressione” e ci limitiamo a decodificarla, scomponendola nei due lemmi di cui è costituita, attingendo ad esempio a un dizionario (sotto questo profilo si potrebbe, ad esempio, considerare “consulenza filosofica” la prestazione di chi, a richiesta, fornisce semplicemente informazioni su questa o quella dottrina filosofica).
Vi è chi, negli anni, su una linea simile, ha tentato di “fondare” o “rifondare” la consulenza filosofica a partire da una analisi “astratta” del doppio termine, come se questa disciplina non avesse una storia.
Luciana Regina, p.e., nel 2006 scriveva:
Occuparsi [di consulenza filosofica] in questa fase, può [...] ancora voler dire proporla, giustificarla, produrla come ipotesi di lavoro (Regina 2006, p. 13).
Stefania Contesini, dal canto suo, ad esempio, ha scritto:
L'aggettivo “filosofica” non rappresenta semplicemente un supplemento rispetto a un fenomeno dato [la consulenza], ma svolge un'azione attiva, concorrendo a risignificarlo nei suoi presupposti, oltre che nelle modalità pratiche del suo realizzarsi (Contesini 2005, p. 106).
L’osservazione è probabilmente corretta (come altre di Contesini che vedremo a breve). Tuttavia, essa contribuisce assai poco a caratterizzare positivamente la consulenza filosofica, proprio perché non fa esplicito riferimento alla storia della disciplina.
Entrambi questi approcci “ingenui” o “creativi” erano, forse, parzialmente giustificati dalla relativa “giovinezza” della consulenza filosofica, almeno per quanto riguarda il contesto italiano, negli anni in cui queste autrici scrivevano (anche se esisteva già una robusta tradizione relativa alla philosophische Praxis all’estero).
Il rischio, tuttavia, di questi e altri simili tentativi di “rifondare” sul piano teoretico il concetto di “consulenza filosofica” ex novo, soprattutto da parte di chi pensasse di riproporli oggi, è quello di “dare la stura” a una sorta di “esplosione” del concetto. Proprio l’aggettivo “filosofica”, su cui ha messo l’accento Contesini, se non si fa riferimento a precisi dati storici, consente di concepire la “consulenza” nei modi più diversi, se è vero che vi sono quasi altrettante nozioni di “filosofia” quanti sono i filosofi (cioè coloro che si dicono e/o sono riconosciuti come tali).
Ma, a maggior ragione se si intende proporre la consulenza filosofica come professione riconoscibile in modo relativamente univoco, tali possibili esiti “anarchici” appaiono indesiderabili.
Poiché, dunque, non è facile ed è probabilmente impossibile pervenire a una nozione di “consulenza filosofica” condivisa sul piano strettamente teoretico, la sola alternativa che ci resta è quella di valorizzare la tradizione della disciplina che storicamente ha assunto (o a cui è stato attribuito) questo nome, per ricavarne indicazioni circa i caratteri distintivi di tale pratica.
Conviene allora attingere alla storia determinata della consulenza filosofica seguendo il filo del discorso di Davide Miccione:
[Rispetto ad altre possibili “primogeniture” della consulenza filosofica, come quelle di Sharkey, Koestenbaum, Hersch] noi riteniamo più sensato vedere in [Gerd] Achenbach il fondatore della consulenza, perché è nella sua opera che sembra mostrarsi una continuità di azione e una consapevolezza della novità del ruolo e, inoltre, perché la sua attività non è rimasta isolata, legandosi, nei più svariati modi a una tradizione a lui successiva (Miccione 2007, p. 4).
Analogamente Neri Pollastri già nel 2003 (prima, dunque, p.e. di Contesini e Regina), scriveva:
Nella sua forma attuale ed intesa come una vera e propria “professione”, la consulenza filosofica nasce solamente in tempi molto recenti. Più precisamente essa vede la luce a Bergisch Gladbach, in Germania, nei pressi di Colonia, nel maggio del 1981 (Pollastri 2003, p. 136).
Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica si è sostanzialmente mantenuta su questo asse.
La questione della traduzione
Una questione particolare concerne il ricorso, in ambito italiano, della denominazione “consulenza filosofica” per indicare l’achenbachiana Philosophische Praxis, espressione che significa tanto “pratica filosofica” quanto “gabinetto” o “studio filosofico”.
Anche qui si può semplicemente prendere atto di un dato storico, qualunque ne possa essere il giudizio, anche critico, dato a posteriori:
[Consulenza filosofica] è il nome più usato nel nostro paese ed è stato assunto dalla principale associazione che raccoglie in Italia i consulenti filosofici attivi: Phronesis (Pollastri 2003, p. 137).
Si può anche tentare di giustificare tale scelta come fa Miccione:
[L’espressione “consulenza filosofica”] cerca di esprimere al meglio da una parte la diversità rispetto agli approcci psicoterapeutici e formalizzati; dall’altra la “normalità” dell’azione consulenziale del filosofo, che si propone, in una società complessa e frammentata, come partner dialogico e competente, così come, per questioni più nettamente definibili e tecniche, la nostra società offre altre forme di consulenza (Miccione 2007, p. 17).
L’insistenza sul termine “consulenza” assume in Pollastri e altri, in particolare, una funzione di differenziazione dal termine “counseling” (sulla stessa linea anche Domizi 2016, cfr. pp. 73-74).
Pollastri (in un articolo apparso nel numero di “Phronesis” del 2011) insiste soprattutto sull’importanza della distinzione tra consulenza filosofica e counseling filosofico. Tale distinzione, in italiano, ripeterebbe analoghe distinzioni come quella, in inglese, tra philosophical consultation e, appunto, counseling, o quella, in tedesco, tra philosophische Praxis e philosophische Beratung, secondo la tabella seguente [nostra]:
philosophische Praxis | philosophische Beratung |
consulenza filosofica | counseling filosofico |
philosophical consultation | philosophical counsel[l]ing |
orientaciòn filosofica | counseling filosofico |
Pollastri riconosce, tuttavia, come questa distinzione tra consulenza e counseling non si sia affermata compiutamente, soprattutto all’estero (basti pensare ai casi Harteloh e, soprattutto, Ran Lahav, che, per intendere più o meno la nostra “consulenza filosofica”, adoperano “counsel[l]ing” – il secondo anche “philosophical practice”, respinto da Pollastri perché giudicato confusivo con le altre “pratiche filosofiche”).
Più critico sulla scelta di “consulenza filosofica” per tradurre “philosophische Praxis” è Zampieri, che preferisce a “consulenza” le espressioni “colloquio” o “dialogo”:
La traduzione di Philosophische Praxis, l’espressione originaria introdotta da Gerd Achenbach, con “consulenza filosofica” resta una traduzione assai discutibile; c’era, è vero, l’esigenza di introdurre accanto al termine “filosofia” qualcosa che ricordasse anche la sua natura di attività professionale vera e propria, ma “consulenza” introduce uno specialismo operativo e strategico che in realtà è estraneo a ciò che intendiamo comunemente (Zampieri 2013, p. 7).
D’altra parte lo stesso Zampieri dimostra di aver accettato suo malgrado il dato storico, avendo intitolato il suo libro del 2013 Manuale della consulenza filosofica.
In precedenza Zampieri aveva associato la consulenza filosofica alla psicologia umanistica (in particolare al counseling rogersiano, cfr. Stefano Zampieri, Una certa somiglianza di famiglia. Consulenza filosofica e psicologia umanistica 2010, pp. 113-139). Se questa associazione (che, tuttavia, nella prospettiva di Pollastri, rischia di essere confusiva, perché ricondurrebbe la consulenza filosofica nell’alveo delle forme di counseling) fosse corretta, giustificherebbe, sotto quest’altro profilo, la scelta della denominazione “consulenza filosofica”.
Va segnalato, poi, che recentemente Zampieri ha messo in discussione che si possa esercitare la filosofia professionalmente (come esigerebbe l’esistenza di una “consulenza filosofica”). Indirettamente, dunque, egli sembra accreditare l’uso della denominazione “consulenza filosofica” proprio per caratterizzare la philosophische Praxis in quanto attività professionale.
Presupposti: la “svolta pratica” rispetto alla filosofia… “accademica”?
Che cosa contraddistingue, dunque, storicamente la consulenza filosofica, intesa come “traduzione autentica” di philosophische Praxis? Per comprenderlo non si può non interrogare l’inventore del nome e della cosa, Gerd Achenbach; con l’avvertenza che questo autore si esprime nei suoi scritti in forma spesso criptica e si rifiuta di fornirci una compiuta “teoria” della consulenza filosofica (per ragioni esse stesse squisitamente teoriche, come vedremo).
Innanzitutto registriamo che la nascita della consulenza filosofica manifesta ciò che successivamente sarebbe stata chiamata la svolta pratica della filosofia. Ma che cosa si deve intendere per “svolta pratica”? Svolta rispetto a che cosa?
Un prima risposta è: “Rispetto alla filosofia accademica o universitaria”.
Achenbach, in particolare, scrive:
La filosofia che “non è” o non “non è ancora” pratica sopravvive in un ghetto accademico, dove ha perduto il rapporto con qualsiasi problema che opprime realmente gli uomini (Achenbach 2004, p. 15).
Ancora:
[Alla filosofia non è stata ancora tolta la vicinanza alla vita] nonostante ogni alienazione accademica da noi stessi e nonostante la sua oggettivazione scientifica (Achenbach 2004, p. 32).
Achenbach sembra dunque presupporre che la filosofia abbia un legame originario con la vita, legame che, tuttavia, si si sarebbe spezzato quando la filosofia, trasformandosi in filosofia accademica, si sarebbe alienata da se stessa, oggettivandosi come un’attività “scientifica” sganciata dal vissuto di chi la pratica.
La polemica di Achenbach con la “filosofia accademica” è molto forte. Si può discutere sulla sua plausibilità, ma si deve riconoscere che tale presa di distanze ha contribuito senz’altro a marcare la specificità della filosofia, come “consulenza filosofica”, dopo la “svolta pratica”. Scrive ancora Achenbach contro la filosofia accademica (richiamandosi al pensiero di altri due autori, Lübbe e Marquard):
Quasi cinquecento filosofi alimentati dallo Stato […] sono impegnati principalmente nel fornire un self-service filosofico, nel quale loro stessi sono gli unici clienti: si mantiene in moto il meccanismo del riciclaggio dello smaltimento della tradizione, per poter in ogni tempo alimentare il sovvenzionato mercato del libro con il vecchio patrimonio nuovamente interpretato; le fertili riserve spirituali vengono filologicamente polverizzate e bruciate e le scorie vengono immagazzinate definitivamente nelle biblioteche […] L’attività scientifico-accademica degli esperti di filosofia seduti in cattedra esercita una sorta di “colta difesa dell’ambiente” […] La filosofia [accademica] è irrinunciabile e utile come “discarica di aporie” e “asilo del problema per i pericolosi problemi fondamentali” (Achenbach 2004, pp. 58-59).
Secondo Achenbach questa sorta di deriva “autoreferenziale” della filosofia accademica scaturisce dalla crisi che la investe da quando essa ha cessato di assolvere una funzione pubblica (nell’assolvere la quale – intendiamoci – nella prospettiva achenbachiana, la filosofia era già alienata da se stessa, cioè dalla vita, ma, almeno, serviva ancora a qualcosa):
Da quando lo Stato, la Chiesa e le scienze non si interessano più al lavoro dei filosofi, l’azienda filosofica produce o in sovrabbondanza o per il solo uso personale (Achenbach 2004, p. 60).
In questa luce Achenbach può chiedersi retoricamente (giustificando il tal modo, storicamente, la “svolta pratica” e l’origine della consulenza filosofica):
Potrebbe essere che la filosofia, visto che come consulente all’ingrosso non è più richiesta, possa essere richiesta in futuro come consulente al dettaglio, e cioè come partner di dialogo degli individui? (Achenbach 2004, p. 61).
La prospettiva di Achenbach presuppone una certa “filosofia della storia della filosofia”. Questa sembra suggerire (ma la cosa non è così lineare e pacifica come sembra e come vedremo) che la filosofia fosse “se stessa” pienamente nel mondo greco-romano (pagano), abbia iniziato il suo processo di alienazione da sé in età medioevale, abbia concluso tale processo in età moderna e possa ora, dopo la “svolta pratica”, “rinascere” come filosofia a tutto tondo, nel modo in cui essa era intesa e vissuta degli antichi.
La filosofia [a partire dal Medioevo in modo più radicale] sale in cattedra e diventa rigorosa, precisa, erudita, elitaria e privata del mondo e il filosofo diventa docente (Achenbach 2004, p. 137). La rigida riservatezza della filosofia attuale, l’insicurezza che rivela non appena il “comune intelletto umano” si rivolge a essa, il timore di perdere la sua serietà nel dialogo con i profani della filosofia, le angosce, che per alcuni filosofi professionisti sono legate all’istituzione della consulenza filosofica, persino questa tarda paura mentale che tiene unite le corporazioni filosofiche, è – mediata attraverso la storia universitaria della filosofia – magari da interpretare come il seguito della chiusura monastica al mondo (Achenbach 2004, p. 139). Ancora in forma degenerata la filosofia dell’Università, che si sforza disperata per la propria legittimazione, è rimasta la luogotenente della filosofia “scacciata dall’Università”. […] La richiesta che viene sottoposta dalla consulenza filosofica a questa “luogotenente” ha intenzione di liberare la filosofia dallo stato interinale di una tale luogotenenza. La rinascita però che ci aspettiamo, o perlomeno speriamo, per essa dalla disposizione alla pratica, potrebbe prendere avvio da ciò che l’attività istituzionalizzata – prima monastica, poi universitaria – ha messo da parte e tendenzialmente eliminato, cioè dal soggetto pensante […] che deve pensare per poter vivere (Achenbach 2004, p. 142).
Si noti che, a riprova di questa eliminazione del “soggetto pensante” nella filosofia universitaria moderna, si può citare questa perla del professor Fulvio Papi (in Capire la filosofia, Ibis, Como-Pavia, 1993, p. 79, cit. in Zampieri 2013, p. 19):
Un buon consiglio per mettersi in condizione di avere una relazione positiva con il capire la filosofia è non mettere sempre la propria esperienza in primo piano. Questo significa abbandonare il pregiudizio che la filosofia sia in linea di continuità con la propria esperienza.
Sulla questione del rapporto tra pratica (o consulenza) filosofica e filosofia accademica (o scientifica) sono interessanti i rilievi critici, nei confronti della posizione achenbachiana, che faceva la compianta Rosario Longo, docente universitaria pur molto sensibile al nascente multiverso delle pratiche filosofiche (riferiti da Miccione 2007, pp. 50-51). La distinzione tra pratica filosofica e filosofia accademica sarebbe procedurale e non sostanziale (come crede Achenbach). La forma teoretica del filosofare sarebbe la medesima (sulla stessa linea anche l’ultimo Pollastri).
Ma nella prospettiva di Achenbach la differenza della consulenza filosofica dalla filosofia accademica non sarebbe solo procedurale, ma riguarderebbe l’essenza stessa (la “forma teoretica”) del filosofare in gioco: per definizione (o “per professione”) il “filosofo” accademico, a differenza del filosofo praticante, anche se “filosofa” in prima persona (cioè non si limita a “ripetere” Platone o Kant, ma sviluppa ad esempio un proprio pensiero), non deve affatto mettersi in gioco personalmente, umanamente, come tale, come filosofo, cercando, ad esempio, di vivere in modo coerente con il proprio pensiero (vedi il punto successivo relativo al ruolo del filosofo). Ciò non gli è affatto richiesto. Tale pretesa potrebbe perfino venire considerata come un’invasione della sua sfera privata.
Presupposti: la “svolta pratica” rispetto alla filosofia come teoria
Ma la “svolta pratica” della filosofia, che si registrerebbe con la nascita della consulenza filosofica (e delle altre pratiche filosofiche), può anche essere intesa nel senso di una presa di distanze della filosofia dal suo aspetto di “teoria” o “dottrina” filosofica, a favore di un’autocomprensione di se stessa come attività, come “pratica” appunto, come “filosofare”.
Potrebbe sembrare un altro modo di ribadire la distanza delle pratiche filosofiche dalla filosofia accademica (la quale, effettivamente, si nutre di teoria), eppure non vi è perfetta sovrapponibilità tra le due “prese di distanza”.
Infatti, da una parte, come osserva p.e. Zampieri nel suo Manuale (cfr. Zampieri 2013, pp. 8 e ss.), la stessa filosofia accademica è una pratica. Soltanto: si tratta di una pratica molto particolare, che comprende p.e. l’organizzazione dei curricula, le fasi di esame, la valutazione degli studenti ecc. La consulenza filosofica, pur essendo una pratica, è lontanissima da questo tipo di pratica.
D’altra parte si può benissimo immaginare una situazione molto meno asimmetrica di quelle tipiche del mondo universitario, nella quale qualcuno espone a qualcun altro qualche determinata dottrina filosofica per l’utilità del proprio interlocutore (perché magari si ritiene che da tale dottrina filosofica l’interlocutore possa trarre utili suggerimenti per la propria vita). Come immaginato in apertura, (se non si facesse così violenza alla storia della denominazione) si potrebbe benissimo chiamare “consulente filosofico” chi somministrasse tali “consigli filosofici” a qualcun altro, traendoli da qualche determinata dottrina. Ma non è questo quello che intende Achenbach per consulenza filosofica (philosophische Praxis)! Si tratta dunque di capire il senso e le ragioni del rifiuto di Achenbach di considerare accettabile, in seno alla consulenza filosofica, l’esposizione di dottrine filosofiche. Scrive Achenbach:
La filosofia non viene “applicata” come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel o con qualche altro. Le letture non sono una medicina che si possa prescrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato per ascoltare una lezione di medicina? Allo stesso modo anche l’ospite nella consulenza filosofica non verrà addottrinato, non gli verranno cioè date in pasto parole intelligenti né gli verranno servite teorie (Achenbach 2004, pp. 13-14). L’ospite, preso sul serio, non viene compreso mediante teorie – cioè schematicamente – né come “caso di una regola” ma piuttosto ciò che lui stesso è, come unico. Non si utilizza per lui una “misura” (nemmeno quella della “salute”) (Achenbach 2004, p. 14). La filosofia è più del tipico sforzo scientifico di creare una teoria […] poiché […] ripensa […] queste teorie [quella prodotte da se stessa storicamente] e […] ne accetta la loro fragilità e la loro violenza (Achenbach 2004, p. 16). Nella consulenza filosofica non si tratta di “un’applicazione” di una filosofia bell’e pronta a casi concreti, ma al contrario al tentativo di pensare i problemi concreti in modo produttivo (Achenbach 2004, p. 16). Un consulente filosofico che, in modo sistematico, obbedendo al comandamento del momento, si votasse una volta a questa, una volta a quella moda di pensiero, diventerebbe ben presto poco credibile (Achenbach 2004, p. 21).
Qual è l’idea di fondo che emerge da questi estratti dagli scritti di Achenbach? L’idea è che, anche se personalmente nutrito di “teorie”, il consulente filosofico, quando dialoga con il proprio “ospite”, non deve esporre tali teorie, ma “fare filosofia” con lui. In tale azione le stesse teorie di cui il consulente si è finora nutrito sono messe in questione. Achenbach fa l’esempio del “trattamento” che potrebbe subire la teoria di Kant nel caso che essa sia invocata per “risolvere i problemi” di qualcuno. La situazione che vive un consultante potrebbe essere tale da mettere in questione la verosimiglianza di nozioni come quella di “imperativo categorico”, che potrebbe rivelarsi troppo astratta o ideale per essere di qualche utilità pratica (cfr. Achenbach 2004, pp. 19-20).
Altrove Achenbach, nello stesso spirito, si scaglia contro quella che chiama la “filosofia della pretesa” (cfr. Achenbach, pp. 34-35), ossia contro quel tipo di pensiero a sfondo metafisico che pretende da noi ciò che noi non possiamo dargli (e ci condanna, dunque, fondamentalmente all’ipocrisia con noi stessi).
In questo senso egli afferma:
[Il pensiero “puro”] non può essere vero senza che noi stessi diventiamo non-veri (Achenbach 2004, p. 38).
In generale – si potrebbe dire – per Achenbach l’esperienza o la vita di ciascuno, dunque tanto del consulente, quanto del consultante, costituisce la “cartina di tornasole”, per così dire, della qualità delle teorie filosofiche che ciascuno, esplicitamente o implicitamente, mette in gioco. Di qui il sospetto di Achenbach verso le “mode di pensiero” che si affermano in ambito accademico, ma che sono spesso anni luce distanti dal modo di pensare della gente (un modo di pensare spesso assai meno raffinato di quello – che ne so – dei poststrutturalisti francesi, ma molto più connesso con la vita delle persone).
Tutto questo significa, come Achenbach sembra suggerire, che non si devono assolutamente introdurre teorie filosofiche durante una consulenza filosofica? O che non si devono leggere passi p.e. di Epitteto o Sartre? Se Achenbach sembrerebbe effettivamente vietarlo (con il paragone col medico, che non somministra ai pazienti letture di medicina, ma farmaci), altri autori (come Lahav e prima di lui, forse esagerando, Marc Sautet, cfr. Miccione 2007, risp. pp. 61-63 e pp. 70-71) hanno “sdoganato” questa possibilità; di cui servirsi comunque con moderazione e attenzione, per evitare che i testi filosofici acquisiscano un’aura sapienziale e possano far valere subdolamente un principio di autorità, bloccando o alterando, per così dire, il “confilosofare” di cui si dovrebbe dare prova.
Il ricorso a questi materiali appare giustificato in Lahav (cfr. Lahav 2004, § Importare materiali filosofici nella seduta, pp. 42 ss.) dal franco riconoscimento dell’inevitabile “condizionamento” che il consulente, quale che sia il suo approccio, anche se non “cita” esplicitamente autori o testi, induce nel consultante, lasciando necessariamente trapelare (p.e. attraverso la scelta delle domande che pone al proprio interlocutore) la propria visione de mondo.
Il ruolo del filosofo
A più riprese Achenbach annota che la questione che la consulenza filosofica pone concerne “chi è il filosofo?”; rispetto alla domanda tipicamente accademica “che cos’è la filosofia?”, che, sorta di specchietto per le allodole “teoretiche”, la nasconderebbe (cfr. Achenbach 2004, p. 23, p. 29 e ss.).
L’essere filosofo per il filosofo è diventato un problema talmente assillante che lo sostituisce “sintomaticamente” con quello della crisi della filosofia (Achenbach 2004, p. 30). La forma concreta della filosofia è il filosofo e questi, in quanto istituzione della filosofia in un singolo caso, è la consulenza filosofica (Achenbach 2004, p. 29).
Tali tesi appaiono quasi opposte a quella di Andrea Poma, docente universitario e primo autorevole presidente di Phronesis. In un fondamentale articolo del 2002 Poma scriveva:
Il consulente [filosofico] è definito [da me] «esperto in filosofia» e non «filosofo» per le seguenti considerazioni. In primo luogo il termine «filosofo» è di difficile ed ambigua determinazione e, di fatto, nella storia della cultura non si è mai individuato un filosofo a partire da una definizione della filosofia, ma, al contrario, si è considerato come «filosofia», in modo assai vago, il pensiero di coloro che venivano considerati filosofi. In secondo luogo, la competenza specifica del consulente filosofico non consiste nella sua capacità di elaborare dottrine filosofiche da offrire al consultante, ma piuttosto nella sua conoscenza di dottrine, metodi e strumenti filosofici, storicamente comprovati, da mettere a disposizione del consultante perché questi ne possa usufruire nella propria elaborazione dei problemi (Poma 2002, p. 38).
La seconda parte di questa citazione è sottoscrivibile da un consulente filosofico “achenbachiano”: senz’altro, infatti, come abbiamo appena visto, non si tratta di elaborare o proporre “dottrine” (quelle che Poma chiama altrove “nozioni materiali”), ma di esercitare la filosofia (mettendo in campo le proprie competenze logico-critiche, procedurali, quelle che Poma chiama “nozioni formali”). Tuttavia, Achenbach chiede più di questo al consulente filosofico. Non basta che egli sia un esperto di filosofia, ma deve essere filosofo; il che, nella prospettiva di Achenbach, significa che deve avere sperimentato e vissuto le ipotesi che propone, il significato delle parole di cui si serve, i concetti che mette in campo.
La difficoltà dei consulenti filosofici a riconoscersi come filosofi non deriverebbe, per Achenbach, come Poma sembra suggerire, dal tratto esoterico e sfuggente della nozione di “filosofo”, ma da un’idea ben precisa, ma troppo elevata (per essere di qualsiasi utilità) di filosofo.
Achenbach ha trattato in particolare della “vergogna” del filosofo a presentarsi professionalmente come tale (a differenza di quello che fa il “commerciante” o lo “psicologo”, cfr. Achenbach 2004, p. 31). Non si tratterebbe, secondo Achenbach, del fatto che manca (ancora) al filosofo una qualificazione civile-professionale, perché molti “filosofi” fanno gli insegnanti (a scuola o all’università) e, dunque, questa qualificazione già ce l’hanno. Il fatto è che “[noi filosofi] pensiamo la filosofia troppo elevata per poterci poi chiamare ‘filosofi’ senza vergogna e, sotto questa prospettiva, pensiamo troppo male di noi stessi” (Achenbach 2004, p. 34). Se, tuttavia, non concepiamo più la filosofia come “filosofia della pretesa” (cioè come filosofia che pretenda di dire la verità, “metafisica” o anche solo “storico-sociale”, sul mondo, cfr. Achenbach 2004, p. 31 e ss.), e ci mettiamo in gioco, umilmente, per quello che siamo, ecco che tale vergogna può venire meno e ci possiamo presentare socialmente (dunque professionalmente) come “filosofi”.
Il solo criterio guida, come già detto, per potersi riconoscere “filosofi” (in senso anti-accademico e quasi-socratico – tra poco chiariremo il senso di questo “quasi” –) è quello di mettersi in gioco personalmente, esaminando continuamente la propria vita e la congruenza della propria “filosofia” con la propria vita (senza paura di imbattersi continuamente in contraddizioni e incongruenze, come è umano che sia):
In un dialogo filosofico non esporrò alcun pensiero che non possa accettare completamente come mio. Chi cerca una consulenza filosofica avrà a che fare non con un amministratore di teorie, ma con un essere umano (Achenbach 2004, p. 23). La questione è se il filosofo […] grazie alle letture sia diventato consapevole e in grado di comprendere […] in quanto solo nel momento in cui egli pensa e percepisce insieme al suo ospite può liberarlo dalla sua solitudine […] riuscendo forse così a spingerlo verso altri criteri di valutazione della vita (Achenbach 2004, p. 14). La filosofia deve essere comprensibile, se deve essere praticata. Ora, io penso che non ci sia alcuna teoria del “rendersi-comprensibile” che permetta un insegnamento tecnico e metodico di questa competenza particolare. Vale piuttosto il fatto che nel momento in cui non solo conosco e so ripetere un problema filosofico, ma lo possiedo io stesso, allora sono comprensibile. Chi al contrario parla di verità o di morte ma non conosce né la verità né la morte come un problema personale, allora sa dire solo “con Heidegger” o chi per esso, ciò che pensa di sapere di filosofico su tale argomento e non si renderà mai comprensibile (Achenbach 2004, pp. 23-24). Il pericolo più grande sarebbe che mi servissi di un pensiero che non potessi poi giustificare con la mia stessa intera esistenza (Achenbach 2004, p. 22).
Di qui la distinzione tra specialista della filosofia (che sembra evocare ante litteram l’esperto di filosofia di cui parla Poma) e filosofo (cfr. Achenbach 2004, p. 28). Di qui anche l’insistenza di Achenbach sul tema della “virtù” del filosofo, sulla necessità per lui di agire (nella misura del possibile) come predica (cfr. Miccione 2007, p. 55).
Renata Domizi (cfr. Domizi 2016, p. 76), tuttavia, interpreta in modo un po’ meno esigente (e più praticabile) l’assunto achenbachiano “la consulenza filosofica è il filosofo”:
Per Achenbach l’assunto [“la consulenza filosofica è il filosofo”] si realizza secondo la sua affermazione complementare: la consulenza filosofica è un dialogo libero. Achenbach è una delle persone più colte e intellettualmente brillanti che io conosca: suppongo (non ho mai fatto una consulenza da lui) che ciò sia sufficiente per avere con lui, anche nel contesto di una consulenza, dialoghi illuminanti su questioni che premono. È indubbio che sappia pensare in modo molto più profondo e articolato della persona media, e grazie alla sua familiarità con moltissime idee filosofiche (e non solo) sa arricchire le riflessioni su un tema di prospettive nuove e stimolanti. Infine, sa ascoltare e accompagnare il pensiero dell’altro. Io credo che dalla prospettiva di Achenbach questo sia sufficiente per fare un consulente filosofico (non è che sia poco!).
Ripresa degli antichi?
Diversi consulenti filosofici si considerano in qualche modo eredi degli antichi filosofi greci e romani e intendono l’attività filosofica come una rinascita della filosofia antica come esercizio “spirituale” sulla scia di Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (cfr. anche Umberto Galimberti, Se un filosofo ti prende in cura, “La Repubblica”, 15 dicembre 2004), p.e. Monica Cavallé (cfr. Miccione 2007, pp. 92-93) o anche l’autore di queste righe (cfr. il mio libro intitolato significativamente Platone 2.0. La rinascita della filosofia come palestra di vita).
Anche Achenbach sembra collocarsi talora su questa via:
“La filosofia torna a riflettere sul suo oggetto più antico: la vita” Sì… (Achenbach 2004, p. 15). La salute non determina il senso della vita, per poi non parlare del vecchio, ma grazioso discorso sulla “vita buona” (Achenbach 2004, p. 17).
Frequente in Achenbach anche il richiamo a Socrate (cfr. p.e. Achenbach 2004, p. 38; p. 71).
Ma Achenbach registra anche un’importante differenza del moderno consulente filosofico da Socrate:
A partire da Socrate siamo abituati a esaminare gli altri, ma nella consulenza filosofica questa relazione si capovolge: non è il filosofo che funesta, ma viene funestato lui stesso. Se un tempo gli altri passavano attraverso il purgatorio dell’interrogazione critica che il filosofo sapeva fomentare, è adesso il suo turno e si mostrerà al contrario, se il pensiero filosofico combatte con le fiamme e si consuma o dà prova di sé e resiste. Questa prova del fuoco è il test che rischia la filosofia nel momento in cui diviene pratica ecc. (Achenbach 2004, p. 72).
Intendo (dal contesto) che qui Achenbach alluda al fatto che il moderno “laureato in filosofia” non ha avuto alcuna formazione paragonabile a quella di un antico filosofo; non ha avuto maestri (termine abusato in ambiente accademico), ma solo professori, per quanto brillanti; non si è formato meditando sulla sua vita, ma sui libri. Dunque la strada che egli deve percorrere prima di “funestare gli altri” è lunga. La cosa di cui egli deve soprattutto dare prova è quella di saper “funestare se stesso”, mettersi alla prova. Solo così può rendersi credibile agli altri.
In questa luce possiamo trovare numerosi “filosofi” da cui prendere ispirazione assai più vicini a noi per sensibilità di Socrate o Diogene:
Procedo per un’altra strada: una strada che parte dal Socrate, che viene di nuovo in luce nella filosofia romantica, che viene imboccata da Kierkegaard e da Nietzsche, e che poi nel nostro secolo viene seguita per esempio da Benjamin, da Georg Simmel […] Io mi riallaccio cioè – in nome di una pratica non violenta – a una filosofia che è divenuta schietta, che resiste alla seduzione dell’ambizione sistematica del grande pensatore e che si concentra sul concreto, per rimanere enfaticamente vicina alle più piccole e minime (Achenbach 2004, p. 19).
Si tratta di quelli che altrove Achenbach chiamaa “gli emarginati scientifici” tra i quali molti “moralisti moderni” (cfr. Achenbach 2004, pp. 140-41).
Viceversa Achenbach è ben lungi dall’idealizzare i filosofi antichi. In un passo, ad esempio, scrive:
Due documenti [del] dispotismo [della filosofia] d’un tempo sarebbero da ricordare (Achenbach 2004, p. 52): “La filosofia forma e costituisce l’anima, ordina la vita, guida il nostro agire, mostra che cosa dobbiamo fare e lasciar fare e tiene il timone se ci troviamo in acque pericolose. Senza di essa non c’è vita senza angoscia e disordine. Ogni ora arrivano mille cose che ci chiedono il consiglio, che solo essa sa dare” (Seneca). “Considera gli insegnamenti filosofici come delle leggi, e considera peccato trasgredirle […] Hai ricevuto insegnamenti filosofici che dovevi seguire e li hai seguiti. Aspetti ancora un altro maestro a cui vuoi comunicare il tuo miglioramento” (Epitteto).
Non diversamente anche Ran Lahav (cfr. Lahav 2004, p. 162) mette in guardia dal tentativo di “riesumare” un approccio dogmatico all’esistenza come quello proprio ad esempio degli antichi stoici ed epicurei (già bersaglio polemico in antico da parte degli scettici).
Non bisogna poi dimenticare l’enfasi di Achenbach sull’individualismo (moderno) contro l’universalismo (antico) e il ruolo centrale del filosofo, di cui abbiamo già parlato, inteso non come “paradigma” all’interno di una scuola (come poteva essere Diogene per i cinici), ma come “singolo”, per dirla con Kierkegaard.
A sgombrare ogni equivoco, se ce ne fosse ancora bisogno, soccorre la seguente considerazione di Achenbach. Secondo lui sarebbe un’incomprensione della consulenza filosofica supporre
che nel suo caso si abbia a che fare con un “ricordo” sentimentale e nostalgico o addirittura con un ritorno alle, giustamente abbandonate, terre originarie e native della filosofia. Piuttosto si mostrerà che la consulenza filosofica, una volta giunta alla materna “scienza prima” in una posizione più adulta, spianerà alla filosofia percorsi ancora non battuti (Achenbach 2004, p. 135).
Achenbach, insomma, in più occasioni, si sofferma sulla radicale novità costituita da quella che dopo di lui è invalso chiamare “svolta pratica” della filosofia. Si tratta di qualcosa di nuovo che, pur richiamandosi all’antica forma della filosofia (come pratica di vita), non intende affatto riesumarla qua talis (ma, potremmo dire, mutatis mutandis – e su questa clausola posso senz’altro concordare, aggiungendola immaginariamente al sottotitolo del mio libro, La rinascita della filosofia come palestra di vita -), volendo piuttosto fare tesoro anche di tutte le conquiste culturali del pensiero medioevale e moderno. Tutta la filosofia passata, non solo quella greco-romana, (il pensiero pensato per dirla con Giovanni Gentile) va in qualche modo digerita e assimilata dal filosofo consulente o praticante “postmoderno” che – si direbbe – Achenbach ha in mente: costui (per ricominciare a pensare in proprio) deve per così dire reimparare a meravigliarsi del mondo senza lasciarsi risucchiare dalla tradizione, neppure quella “nobile” che risale a Socrate e agli antichi.
Forse la prospettiva più equilibrata sul rapporto tra consulenza filosofica e la filosofia antica è quella esposta da Achenbach nel passo seguente:
Questo suo essere “all’inizio” [da parte del filosofo che si fa consulente] è allo stesso tempo la variante pratica dell’antichissimo pathos teoretico di tutta la filosofia (Achenbach 2004, p. 72).
La pariteticità tra dialoganti
Il fatto che il consulente filosofico sia innanzitutto un essere umano che si mette in gioco e sperimenta prima su di sé quel “pensare a come si vive” che, poi, propone al proprio ospite rende conto anche dell’insistenza di Achenbach sulla “pariteticità di fondo” tra consulente e consultante (che, altrimenti, potrebbe sembrare una pariteticità piuttosto ipocrita, dal momento che è comunque il primo ad essere pagato dal secondo e che è sui problemi del secondo che il dialogo si focalizza; dando luogo a una relazione asimmetrica, che, sotto questo profilo, non sembra dissimile da quella delle tipiche professioni dell’aiuto, dalle quali, invece, Achenbach, come vedremo, prende le distanze).
Al riguardo della fondamentale pariteticità tra consulente e consultante Achenbach scrive:
Questa rivendicazione di sé e della propria evoluzione personale [da parte del filosofo] elimina […] per principio il dislivello terapeutico (Achenbach 2004, pp. 22-23). Ciò che lega [il filosofo] alla filosofia è ciò che da essa si aspetta la persona che si rivolge a lui. Non è la filosofia a essere un mistero per costoro; sono loro stessi il mistero. Questo unisce entrambi, il consulente filosofico e il suo “ospite” (Achenbach 2004, p. 37).
Quest’ultimo passo, altrimenti un po’ criptico, potrebbe essere inteso in questo modo, alla luce del precedente e di quanto osservato poc’anzi: filosofo e (non)filosofo sono entrambi legati (d)alla filosofia o, come direi io, (d)al Lògos. La parità di fondo tra loro è determinata dal fatto che ciò che davvero conduce il gioco (e cerca di far luce sul mistero rappresentato per ciascuno da se stesso) è la ragione comune, le cui conclusioni, per entrambi gli interlocutori, sono messe alla prova della loro vita.
Orientamento all’individuale e alla vita
Nella prospettiva “postmoderna” di Achenbach, infatti, come il filosofo deve mettere in gioco se stesso in quanto singolo, verificando la congruenza tra il proprio pensiero e la propria vita, altrettanto è invitato a fare il suo interlocutore, che, con l’aiuto del filosofo, cerca né più né meno che di percorrere la propria irripetibile e irriducibile strada:
Non si tratta […] di portare l’ospite […] su binari filosoficamente prestabiliti, ma si tratta di aiutarlo a cercare la propria strada (Achenbach 2004, p. 13). Il filosofo è lo specialista del non-speciale […] con accento particolare, dell’individuale e dell’unico (Achenbach 2004, p. 14). La questione diviene se [il consultante] vive in modo conforme a se stesso, […] se egli è divenuto ciò che è (Achenbach 2004, p. 14). Nella consulenza filosofica si tratta […] di decifrare la fisionomia della ragione particolare come forma realizzata e individuale: come “vitale”, per dirla in modo acuto (Achenbach 2004, p. 20). Nessun uomo può credere al posto di un altro o essere convinto al posto di un altro (Schelling cit. in Achenbach 2004, a p. 73). “La filosofia torna a riflettere sul suo oggetto più antico: la vita” Sì… (Achenbach 2004, p. 15). Non è il pensiero che prema sulla vita […], ma è la vita che preme sul pensiero (Achenbach 2004, p. 37),
Anche Ran Lahav insiste spesso sull’intreccio tra filosofia e vita dal lato del consultante:
Questa nuova filosofia non deve essere sulla vita, ma con la vita: non deve occuparsi della vita dall’esterno, ma deve essere intrecciata con la vita. Solo allora la filosofia accademica e la consulenza filosofica si incontreranno (Lahav 2004, p. 161).
L’esito di questa ricerca su di sé (contraddistinta, in Achenbach, da una continua “vivificazione” e “deflemmatizzazione” del pensiero del proprio ospite, si direbbe: da continue aperture di nuovi orizzonti) assume, non sorprendentemente, in Achenbach più l’aspetto di una narrazione autobiografica che quello dell’esposizione di una teoria sul mondo:
Ogni consulenza filosofica […] è l’inizio di una storia filosofica individuale di esperienza, di comprensione e di cambiamenti di sé, il cui corso è determinato non da mete prestabilite, ma da uno “stato di verità”, raggiunto di volta in volta nel discorso (Achenbach 20044, p. 22). Nella filosofia arriva il momento del racconto. [La consulenza filosofica] potrebbe essere considerata una conquista filosofica rispettabile se un individuo nella consulenza filosofica dovesse arrivare a modellare il corso della sua vita nella forma di una biografia razionale (Achenbach 2004, p. 24; cfr. anche Achenbach 2004, p. 71).
Non si deve, tuttavia, pensare che questa focalizzazione sull’individuo e sulla sua vita perda di vista la dimensione storica e il contesto culturale e politico in cui siamo immersi, tutt’altro. Mentre, come abbiamo visto, se si prendesse le mosse da questa o quella “moda di pensiero”, diffusa in ambito accademico, spacciandola come espressione dello “spirito del tempo”, si rischierebbe, in consulenza filosofica, di rimanere in superficie o, peggio, di cadere in un linguaggio criptico, impraticabile per i nostri consultanti, viceversa, se si prende le mosse da quello che emerge concretamente dai dialoghi con i nostri interlocutori in carne e ossa, ci si riesce a fare un’idea assai più verosimile della cultura, in senso antropologico, dominante nella nostra epoca. E questo perché, come scrive Achenbach, mettendosi nella testa di un proprio ipotetico ospite,
mi accorgo che non posso assolutamente raccontare la mia storia razionalmente, senza raccontare nello stesso tempo anche la storia della mia epoca (Achenbach 2004, p. 25).
La questione del metodo
Un punto critico della prospettiva di Achenbach che ha reso e rende ancora difficile “poggiare” su di essa un’epistemologia della consulenza filosofica è il rifiuto costante di Achenbach di ingabbiare la consulenza filosofica all’interno di un metodo (rifiuto che si salda con l’indisponibilità di Achenbach a narrare casi di consulenza filosofica, sempre al fine di evitare che, assumendoli come paradigmi, se ne possano ricavare indicazioni metodologiche universalizzabili).
Questo approccio è legato all’idea che “la consulenza filosofica sia il filosofo” e che ciascun consulente filosofico si debba assumere la responsabilità di filosofare come meglio crede (alla sola condizione, si direbbe, che egli sia in grado di giustificare come filosofica la sua azione).
Achenbach, in particolare, scrive:
La filosofia non lavora con i metodi, ma sui metodi (Achenbach 2004, p. 13). Il corso del dialogo filosofico si sottrae a ogni definizione generale (Achenbach 2004, p. 22). Alla base [della consulenza filosofica] non si trova alcun concetto (Achenbach 2004, p. 70). Ciò che tutt’al più si potrebbe definire “metodo” sarebbe il risultato dialettico del processo di riflessione, che essa non può però strutturare fin dall’inizio (Achenbach 2004, p. 73).
In questa prospettiva Achenbach perviene all’interessante nozione di meta-teoria praticante nel contesto della trattazione di un “principio della consulenza filosofica”, consistente nell’affermazione che la consulenza filosofica nasce dall’interesse del (singolo) filosofo a fare filosofia (senza pretendere di imporre alcunché ad altri e neppure pretendere che questo stesso interesse sia condiviso). Bene, continua Achenbach, tale
principio della consulenza filosofica […] cresce solo sul terreno di una libertà senza confini. La filosofia che sa rispettare questo principio [dell'interesse soggettivo al filosofare] conosce allo stesso modo il motivo per cui piuttosto mette in questione se stessa, invece che evangelizzare gli altri senza scrupolo. Per questo la cultura filosofica è la nemica veemente di tutte le convinzioni sicure di sé, dei principi incorporati, […] della normatività imposta, cioè dell'universalità dichiarata. [Questo primo principio della consulenza filosofica, inoltre,] la obbliga […] a una tolleranza piena di comprensione; niente è più sgradevole di quella forma di rigidità intollerante che di norma fa il suo ingresso come risultato della certezza inviolabile, che non permette alcun dubbio su ciò che è giusto e vero. [Ne segue che] la consulenza filosofica non dispone in senso positivo di alcuna teoria che sia solo applicabile. [A differenza degli approcci psicologici e terapeutici in cui opera la “divisione tra teoria e meta-teoria”] non viene prima concepita e poi riflessa, ma è una meta-teoria praticante, si costruisce cioè solo come processo riflettente e pratico (Achenbach 2004, pp. 82-83)
A me sembra che l’idea achenbachiana che la consulenza filosofica sia una meta-teoria praticante (l’idea, cioè, di una radicale riflessività autocritica della consulenza filosofica) sia traducibile in e sia resa più chiara da quella che Stefania Contesini chiama la “caratteristica distintiva della consulenza filosofica”:
La caratteristica distintiva della consulenza filosofica consiste [...] nella possibilità di applicare il proprio esercizio critico sui suoi stessi principi. Basti pensare al fatto che i contenuti attorno a cui più frequentemente si dialoga rimandano ai concetti di libertà, responsabilità, comunicazione, tempo, comprensione, i quali [...] costituiscono anche gli assunti a partire da cui la relazione si legittima. Non vi sono a priori garantiti. Gli stessi paradigmi di fondo rimangono domande aperte, sono materia oltre che presupposto del filosofare. In questo processo consulente e cliente condividono lo stesso compito riflessivo, il quale oltre ad appuntarsi sulla “visione del mondo” di entrambi, coinvolge gli stessi principi costitutivi della consulenza. Ogni consulenza filosofica mette dunque sempre in gioco se stessa come possibilità di darsi. Essa si costituisce come quella pratica che si interroga continuamente su di sé e che si dà, al tempo stesso, con un unico movimento, come pratica e come teoria della pratica. Ciò ne fa qualcosa di diverso [ecco una preziosa specificità!] rispetto alle altre forme di counseling, dal momento che qui si gioca il carattere distintivo della filosofia rispetto alle scienze umane. La filosofia è quel sapere che non può non chiedersi che cosa sta facendo, non può usare un metodo senza dare conto del metodo stesso (Contesini 2005, p. 114).
Tale “caratteristica distintiva” della consulenza filosofica, che essa condivide con il filosofare in generale, rende impossibile una teoria compiuta su di essa (che pure sarebbe professionalmente desiderabile). Anche Neri Pollastri un tempo sembrava su questa linea:
Se [...] la consulenza filosofica è vera e propria filosofia, una teoria su di essa non può configurarsi che come una “teoria” della filosofia stessa, ovvero qualcosa di probabilmente impossibile e comunque a sua volta mai neppure tentata nella storia del pensiero. Come potremmo – senza cadere in depauperanti schematismi o, al contrario, in trattati infiniti e disorientanti – racchiudere in un’unitarietà teoretica onnicomprensiva le molteplici e diversissime forme in cui, negli oltre due millenni e mezzo di storia umana, i pensatori hanno coniugato l’agire filosofico? E come potremmo definire compiutamente e univocamente il “metodo” del loro pensare? (Pollastri 2004, p.19).
Come è noto, altri autori hanno approfondito la questione metodologica ed epistemologica, “violando” o “attenuando” il divieto achenbachiano (lo stesso Pollastri negli ultimi anni ha elaborato una vera propria teoria del “processo” che avrebbe luogo durante una consulenza filosofica).
Lahav è stato il primo, negli anni Novanta, a questo scopo, a offrire esempi di casi (cfr. Lahav 2004, pp. 26-30; pp. 48-53; pp. 68-77; pp. 142-152; pp. 176-182).
Tuttavia alcune indicazioni metodologiche “minimali” vengono fornite anche da Achenbach:
Bisogna partecipare e pensare assieme, pensare oltre, portare movimento all’interno dell’intrico problematico, districare analiticamente, unire sinteticamente, meravigliare e provocare, portare l’attenzione su altre valutazioni […] “Filosofare significa deflemmatizzare e vivificare” [come diceva Novalis] (Achenbach 2004, pp. 18-19).
Achenbach sottolinea poi l’importanza di servirsi della lingua quotidiana (cfr. Achenbach 2004, p. 24).
Leggiamo anche un elenco di quello che de facto accade in una consulenza filosofica e che Achenbach identifica col “filosofare” (Achenbach 2004, p. 69) (si direbbe in una chiave “fenomenologica”):
- un comprendere che mette allo scoperto, ma non scopre - un percepire che guarda dentro le cose senza l’intenzione di vedere attraverso di esse - un chiarire più che uno spiegare - un’apertura priva di giudizi che discute il falso “senza approvazione né biasimo” - uno scetticismo verso i soliti procedimenti e, allo stesso tempo, il desiderio di una comprensione che sfugge alla “teoria” - un senso per la contraddizione, non al fine di eliminarla subito o di conciliarla, ma al fine di vedere se non possa essere resa fruttuosa - lo sforzo di unire gli opposti e di sviluppare un’armonia da ciò che è disordine - una concentrazione rilassata, una ponderazione tranquilla, un parlare senza premeditazione, un riflettere senza intenzioni nascoste - l’invito al monologo a diventare dialogo […] Il pensare filosofico: - non “sa”, però alle volte comprende di più - […] argomenta discorsivamente e non in modo strategico […] - significa ampliare […] contro ogni seduzione alla riduzione
Curiosamente Achenbach, pur alludendo a Socrate, non parla mai di un approccio “maieutico”, evocato, tuttavia, opportunamente, da Miccione 2007, p. 27 (pare poi che il primo ad alludervi esplicitamente sia stato Steffan Graefe, cfr. Miccione 2007, p. 58: forse il mancato riferimento in Achenbach alla maieutica dipende dalla sua insistenza sulla pariteticità tra consulente e consultante, che, infatti, Graefe respinge).
Un altro elemento “metodologico” presente in Achenbach, come abbiamo già visto, è il rifiuto del ricorso alla teoria (della dottrina) a favore della filosofia come filosofare (contro p.e. Sautet e, in parte, Schuster, cfr. Miccione 2007, p. 61 e p. 64). Sotto questo profilo su questa linea, come già accennato, si colloca anche Poma quando distingue le nozioni materiali (da maneggiare con cura, per evitare di fare valere un surrettizio principio di autorità) da quelle formali (il “metodo” filosofico) da adottare tranquillamente (cfr. Poma 2002, pp. 41-43).
Va detto che sulla questione della “mancanza di metodo” (come su quella, di cui parleremo subito, dei “bisogni” e della finalità della consulenza) si è registrata in Phronesis un’evoluzione. Sull’onda anche di queste indicazioni metodologiche implicite nello stesso Achenbach ci si è progressivamente convinti che vi siano limiti alla libertà metodologica, connessi, se non altro, all’esigenza, tipica di ogni professione che si rispetti, di evitare la confondibilità con altre professioni. Ciò ha consentito nel 2012 di concordare una “perimetrazione” della consulenza filosofica “targata Phronesis”, che contiene di fatto anche diverse “prescrizioni” metodologiche ed epistemologiche (anche al fine di distinguere la consulenza filosofica da altre pratiche filosofiche); prescrizioni “figlie”, in ogni caso, di molte delle indicazioni metodologiche implicite già in Achenbach, in parte rese più esplicite in Lahav e in altri autori successivi appartenenti alla medesima “tradizione” e qui brevemente evocate.
Quali bisogni soddisfa una consulenza filosofica?
Un’altra questione delicata concerne i bisogni che la consulenza filosofica dovrebbe soddisfare. L’ipotesi è che, se la consulenza filosofica vuole presentarsi come professione, essa debba rispondere a qualche tipo di domanda che giustifichi lo scambio “commerciale” tra professionista e cliente.
Eppure Achenbach sembra escludere che la consulenza filosofica soddisfi il (o un) bisogno del consultante. Ma è proprio così? Che cosa scrive Achenbach?
Nel momento in cui la filosofia si rifiuta di soddisfare il bisogno che le viene direttamente incontro, nel momento in cui essa piuttosto comincia a riflettere su questo stesso preteso bisogno per renderlo oggetto dei suoi interessi e per diminuirgli così la sua validità temporanea e limitata, la filosofia si trova in una relazione chiaramente differente verso il bisogno che la richiede, rispetto a quella tipica delle solite professioni. [...] Invece di servire senza riserve i bisogni con i quali viene in contatto [...] è giustappunto la loro critica approfondita (Achenbach 2004, p. 81). La consulenza filosofica è una delusione mirata, un’irritazione dell’aspettativa, e in questo modo un impulso al processo di pensiero (Achenbach 2004, p. 85).
A leggere con attenzione, tuttavia, Achenbach non nega affatto un ruolo al bisogno, anzi; soltanto, si tratta di un bisogno diverso da quello inizialmente creduto:
[In consulenza filosofica] incontriamo un bisogno ancora sconosciuto a se stesso, ma allo stesso tempo efficace (Achenbach 2004, p. 76) (cfr. anche ivi, p. 67: “esigenza sconosciuta a se stessa” con il riferimento addirittura al “soma”).
Il “potenziale” consultante – questo sembra suggerire Achenbach – non è subito in grado di “dire” a se stesso in che cosa consista il proprio bisogno. Egli si presenta spesso in consulenza semplicemente perché vive una “situazione problematica” (per usare l’espressione di John Dewey che qui sembra pertinente). Tra le situazioni problematiche che fanno avvertire un bisogno “confuso” di consulenza Achenbach ricorda:
le delusioni, le esperienze non previste e inaspettate, le collisioni con altri individui, gli scherzi del destino, l’esperienza del fallimento, un bilancio di vita fastidiosamente negativo o semplicemente insipido (Achenbach 2004, p. 13).
Ancora:
Si può trattare di crisi di coppia, che scatenano l’inquietudine sconfinata nella certezze di vita apparentemente solide, tentativi di autorealizzazione naufragati, esperienze prive di senso di cui si discute ovunque, un’integrazione di attività eterogenee che non è riuscita come si voleva, […] pretese che ci impongono inaccessibili imperativi interiori così come aspettative esogene […], situazioni nelle quali incappiamo attraverso decisioni dubbiose o attraverso una forma di dogmatismo privato, nelle quali poi la strada della nostra vita sembra terminare in un vicolo cieco (Achenbach 2004, p. 18). Rischi individuali nella vita, conflitti, o crisi stagnanti, esperienze di sopraffazione, decisioni rimandate, perdita di sicurezza nel comportamento o pesanti ostacoli nello sviluppo soggettivo, ma anche dubbi della coscienza e carenza di comprensione oppure l’esigenza di riflettere, e magari di risolvere, le ‘perdite di senso’ nei colloqui con un partner competente e comprensivo (Achenbach 2004, p. 76).
Achenbach arriva talora ad abbozzare perfino una sorta di “sintomatologia” del “bisogno filosofico” (cfr. Achenbach 2004, pp. 66-67).
È necessario o no filosofare?
Ma qual è il bisogno di fondo, “sconosciuto a se stesso”, che indurrebbe qualcuno a chiedere l’aiuto di un consulente filosofico? La scommessa di Achenbach (e nostra con lui) è che si tratti fondamentalmente di un bisogno di comprensione:
[La consulenza filosofica] è un’istituzione per le persone – affetta da preoccupazioni o da problemi – che “non se la cavano” nella vita o che pensano di essere in qualche modo rimaste “impigliate”; persone che sono assillate da domande, a cui non riescono a rispondere e di cui non riescono a liberarsi; persone che sì si affermano nella loro quotidianità, ma che nello stesso tempo non si sentono sufficientemente chiamate in causa, perché hanno l’impressione che la loro vita effettiva non corrisponda alle loro possibilità […] individui per i quali non è sufficiente solamente vivere o semplicemente arrangiarsi, ma che piuttosto cercano di rendersi conto della propria vita, sui contorni della quale […] sperano di fare chiarezza […] cercano di capire e di essere capiti (Achenbach 2004, p. 11-12). Il bisogno che l’individuo sviluppa è la pretesa di essere visto e capito, considerato e accettato come se stesso, come quello che è, e non come colui che ha questo o quello (Achenbach 2004, p. 65.)
Questo bisogno di comprensione si rivela in ultima analisi un vero e proprio bisogno di filosofia:
L’uomo è un essere complesso e non può limitarsi a vivere ed esistere. Volente o nolente egli deve prendere posizione sulla propria vita. […] L’uomo è un essere costituzionalmente filosofante (Achenbach 2004, p. 66). Tutti abbiamo una filosofia, siamo coscienti o meno di questo fatto, e la nostra filosofia non importa molto. Ma l’influenza della filosofia sulle nostre azioni e sulle nostre vite è spesso catastrofica. Questo rende necessario cercare di migliorare la nostra filosofia con la critica. Questa è l’unica scusa perché la filosofia continui a esistere che sono in grado di offrire (Popper citato in Achenbach 2004, a p. 13). Ognuno ha una sua filosofia, ma nella maggior parte dei casi questa non ha valore. […] Ognuno filosofeggia – normalmente senza esserne consapevole – in quanto non solo pensa e riflette, ma prende posizione sul proprio pensare e sui propri pensieri. Quasi chiunque giunge nella propria vita a situazioni, nelle quali si dimostra necessario “un secondo pensare” […] E proprio impigliato in queste complicazioni, spesso il pensiero per l’individuo si fa critico. […] Il pensare comincia a “girare in tondo” oppure […] “rimane bloccato in un punto”. Ora [qui si gioca] il classico approccio […] della consulenza filosofica (Achenbach 2004, p. 18; cfr. anche ivi, p. 66).
Il problema dell’aiuto
Un’altra questione che ha lungo “tormentato” Phronesis è quella del rapporto tra la consulenza filosofica e le cosiddette professioni dell’aiuto (come il counseling e le psicoterapie). Per lungo tempo si è inteso che la consulenza filosofica non prestasse alcun genere di aiuto a chi ne facesse richiesta. Tuttavia, a una più attenta lettura, tale interpretazione scaturisce da un equivoco. Ciò che Achenbach fondamentalmente esige è che la consulenza filosofica sia nettamente distinta dalle “normali” professioni d’aiuto. Ma Achenbach ammette tranquillamente la consulenza filosofica aiuti. Scrive ad esempio:
Si deve cercare in che modo il consulente filosofico aiuti il suo ospite ecc. (Achenbach 2004, p. 13).
Achenbach si chiede semplicemente, da bravo filosofo, che cosa sia l’aiuto di cui ha bisogno un essere umano, in quanto tale, e si domanda, con un filo di retorica e una strizzatina d’occhio alla migliore psicoanalisi (!), se forse non
lo si possa aiutare di più con una “malattia”, cioè con la presenza ammonitoria di sintomi insistenti, [piuttosto che nel farlo sentire a tutti costi] sano (Achenbach 2004, p. 86).
Egli, coerentemente con questa ipotesi, insiste col suggerire che problemi, dubbi e preoccupazioni spesso sono più d’aiuto che la loro cancellazione, concludendo con la “celebre” frase:
Solo la stupidità militante sa quando l’uomo è aiutato (Achenbach 2004, p. 86).
Dunque la critica di Achenbach non è all’ipotesi che la consulenza filosofica possa aiutare, bensì alla pretesa di altre pratiche di saperlo farle. La stessa domanda retorica che egli a un certo punto si pone nega e afferma in pari tempo che la consulenza filosofica “aiuti”:
Nel caso singolo potrebbe essere vero aiuto proprio quello di non aiutare? (Achenbach 2004, p. 87).
Una tale domanda retorica suggerisce come la consulenza filosofica possa costituire il solo vero aiuto proprio perché non pretende di sapere a priori come aiutare e dunque non lo fa in una predeterminata direzione (solo così si può sciogliere il paradosso di tale domanda retorica se non si vuole che sfoci in una mera contraddizione).
Quale lo scopo di una consulenza filosofica?
In stretta relazione con la questione del bisogno che la consulenza filosofica è chiamata a soddisfare è la questione del fine di una consulenza filosofica, poiché, in ultima analisi, si presume che tale fine consista appunto nella soddisfazione del vero bisogno dei consultanti. Sotto questo profilo, come abbiamo già letto, Achenbach afferma:
[I consultanti] cercano di capire e di essere capiti (Achenbach 2004, p. 11-12).
Inoltre la consulenza filosofica dovrebbe aiutare l’ospite a dare senso e valore alla sua vita…
L’atteggiamento filosofico nei confronti della vita […] dona un valore al nostro esistere, un significato alla nostra presenza e un senso al nostro presente Achenbach 2004, (p. 12).
… facendo di questa vita una vita esaminata, pensata:
La questione adesso non è più se io vivo ciò che penso, ma se penso ciò che vivo (Achenbach 2004, p. 37)
La consulenza filosofica dovrebbe restituire all’ospite, inoltre, uno
spirito della formazione [Bildung, da distinguersi dalla mera trasmissione di contenuti in-formativi] e [perfino] della capacità di amare, che liberi allo stesso tempo dalla monotonia solitaria e povera di esperienze della vita quotidiana, che risvegli e desti di nuovo un’attenta e ansiosa curiosità, […] che apra nuove prospettive o speranze rimaste finora bloccate e che, in questo modo, porti alla luce ciò che rimane nascosto, muova ciò che è rigido e spossato (Achenbach 2004, p. 68).
Questi “fini” restano comunque piuttosto generici, in considerazione del fatto che ogni consulenza filosofica è diversa dall’altra, sviluppa la propria epistemologia e “concorda” i propri obiettivi in corso d’opera. In ogni caso, come attesta Schlomit Schuster, per Achenbach è dirimente il fatto di recare qualche tipo di beneficio ai consultanti, nel senso che se non riuscisse in tale impresa la consulenza filosofica dovrebbe dirsi fallita:
Achenbach valuta la qualità del dialogo filosofico dalla capacità di recare beneficio; è il criterio per distinguere tra consulenti competenti e incompetenti (Schuster 2006, p. 51).
Come osserva Miccione, dopo Achenbach i consulenti filosofici che in qualche modo si ispirano a lui vanno dal considerare la consulenza filosofica francamente “soluzione di problemi” (recuperando o non avendo mai abbandonato un approccio strategico) al considerarla “ricerca della saggezza” (cfr. Miccione 2007, p. 26, bella l’immagine che adopera Miccione: si tratta di distinguere tra il consulente come medico, che risolve problemi, e come allenatore, che prepara alla vita).
Anche la saggezza può, tuttavia, essere intesa in modo diversi:
- come Lebenskönnerschaft (capacità di sapere vivere), nell’Achenbach di Saper vivere. Per una vita piena di significato e di valore;
- come trans-sofia, nell’ultimo Lahav di Oltre la filosofia. Alla ricerca della saggezza;
- come trascendenza in Raabe (cfr. Raabe 2006, spec. pp. 164-190);
- come insurrezione del poietico in Barrientos Rastrojo (cfr. Miccione 2007, p. 91);
- come sabidurìa, in Monica Cavallé (cfr. Miccione 2007, pp. 92-93).
In Witzany si tratta p.e. di responsabilizzare l’ospite rispetto ai temi dell’ambiente e simili (cfr. Miccione 2007, p. 59).
Alcuni insistono sull’importanza di favorire l’autonomia del consultante (come Schuster e Raabe, cfr. Miccione 2007, risp. p. 64 e p. 88; cfr. anche Zampieri 2013, p. 87), altri (come Lahav), in nome di un “agnosticismo dottrinale”, negano che questa possa essere un obiettivo a priori (cfr. Miccione 2007, p. 69).
Non si è forse messo abbastanza in luce una certa differenza tra Achenbach e Lahav, i due massimi “esponenti” della consulenza filosofica, costante riferimento in Phronesis, riguardo agli obiettivi della medesima. Si tratta per entrambi di comprensione, tuttavia…
Come veduto, Achenbach auspica che il consultante tracci una “autobiografia razionale”. Si direbbe una sorta di esito “narrativo” della consulenza filosofica.
Lahav parla invece di “visione del mondo”, di “filosofia personale”, di “comprensione vissuta” del consultante (cfr. Miccione 2007, p. 66) [come Ruschmann di “filosofia della vita” cfr. Miccione 2007, p. 80].
Nel primo approccio non si esclude l’emergere di contraddizioni, anzi le si provoca. Nel secondo sembra più rilevante pervenire a una messa a coerenza del proprio vissuto (aspetto ancora più accentuato nel “sistematico” Ruschmann, cfr. Miccione 2007, p. 81).
Lahav ammette poi un problematico scarto tra la comprensione (o consapevolezza) e il cambiamento del consultante (cfr. Lahav 2004, pp. 184-85), che, per quanto auspicabile, non sarebbe “automatico”, ma richiederebbe qualche ulteriore passaggio.
Storici tentativi di definizione
Possiamo tentare ora di raccogliere quanto finora seminato proponendo alcune classiche definizioni di “consulenza filosofica”, nella consapevolezza, che ormai dovrebbe essere acquisita, dei limiti di ogni tentativo di afferrare concettualmente una pratica così complessa, aperta, plurale e autocritica, pur se storicamente radicata in una ben precisa tradizione disciplinare:
La consulenza filosofica è un libero dialogo. […] Essa non si occupa di sistemi filosofici, non costruisce alcuna filosofia, non somministra nessuna opinione filosofica, ma mette il pensiero in movimento: filosofa (Achenbach 2004, p. 69). [La “Philosophisce Praxis” è] l’esercizio professionale del consiglio [?] filosofico di vita che ha luogo nello studio del consulente filosofico (Marquard in Miccione 2007, p. 4) [La consulenza filosofica è] l’offerta di una relazione paritetica di aiuto destinata sia a soggetti individuali in cerca di orientamento esistenziale sia a gruppi o istituzioni con esigenze di formazione del personale (in senso etico o deontologico o politico, ma sempre in chiave critica) (Cavadi 2003, p. 17). La consulenza filosofica: un’attività professionale nella quale il filosofo, esclusivamente in quanto filosofo, si mette a disposizione delle donne e degli uomini che, individualmente o in gruppi ristrettissimi, sentano l’esigenza di affrontare con rigore, attenzione, spirito di ricerca e confronto dialogico, problemi e questioni poste a essi dalla loro vita (Pollastri 2004, p. 33). Scopo del processo di consulenza è di aiutare il consultante a modificare il proprio processo di coscienza e di riflessione – nella sua struttura complessiva come modello mentale o “teorie soggettive”, fino ai percorsi concreti nel contesto interattivo dei propri processi esperienziali (= sensazione o umore) – in modo da far sì che egli faccia un passo avanti nella direzione di un adeguato comprendere se stesso e il mondo (Ruschmann 2004, p. 34). La consulenza filosofica è la prestazione professionale di una consulenza da parte di un consulente esperto in filosofia a un consultante che liberamente e spontaneamente gliene fa richiesta (Poma 2002, p. 37).
Poma aggiunge:
Ciò che viene offerto nella consulenza filosofica è un’attività consultiva, vale a dire il supporto di consigli, suggerimenti e orientamenti che aiutino il consultante a trovare strade per lui soddisfacenti per affrontare ed elaborare in modo positivo i problemi che egli stesso pone.
Questa rappresentazione della consulenza filosofica si discosta non poco dalla rappresentazione di matrice achenbachiana di una consulenza filosofica che si limita a interrogare e provocare l’ospite senza suggerirgli o consigliargli alcunché (con l’eccezione di Marquard, vedi sopra). Tuttavia tale immagine, proposta da Poma, rende conto, sotto il profilo storico (Poma ha partecipato autorevolmente alla fondazione di Phronesis), di quanto leggiamo tuttora nello Statuto di Phronesis:
Consulenza filosofica: attività che si propone di fornire a chi lo richieda (individui, gruppi, organizzazioni), sulla base di un approccio filosofico, supporto, aiuto e orientamento nell’ambito dei processi intellettuali, esistenziali, decisionali o relazionali, senza avere finalità terapeutiche.
Su una linea più decisamente achenbachiana (e pollastriana) si colloca invece la già evocata perimetrazione della consulenza filosofica a cura di Phronesis (cfr. «Phronesis», XI, n. 19-20, 2013, pp. 14 e ss.).
Consulenza filosofica e psicoterapie
Delineati i caratteri principali della consulenza filosofica, intesa come la disciplina che ha preso avvio col gesto inaugurale di Gerd Achenbach, resta da precisare il rapporto tra tale disciplina e quelle con le quali si potrebbe essere tentati di confonderla. L’approfondimento di tale rapporto, infatti, può ulteriormente aiutarci a cogliere la natura della consulenza filosofica, precisandone meglio i contorni (e i confini).
Lasciando da parte la delicata questione del rapporto tra la consulenza filosofica e le altre pratiche filosofiche, ci concentriamo ora sul rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapie, da un lato, e tra consulenza filosofica e counseling pastorale (o direzione spirituale), dall’altro lato.
Storicamente l’achenbachiana philosophische Praxis nasce in contrapposizione (si direbbe frontale) alle psicoterapie e anche alla psicoanalisi (soprattutto nella sua versione “standardizzata”). Tale opposizione si è via via attenuata nel tempo (Phronesis ha curato eventi e pubblicazioni in cui si è messa in dialogo con il mondo della psicoterapia), ma ha certamente assolto una fondamentale funzione iniziale di differenziazione e legittimazione per la consulenza filosofica.
Achenbach scrive ad esempio con chiarezza:
[La consulenza filosofica] è diventata un’alternativa alle psicoterapie (Achenbach 2004, p. 10).
Quali le ragioni di questa presa di distanze? Achenbach allude a una serie di motivazioni:
Lo sguardo psico-logico è allenato a cogliere lo speciale e il particolare, soprattutto lo psicogeno. […] Lo psicologo e lo psicoterapeuta sono […] specialisti. […] Paradossalmente il filosofo è lo specialista del non-speciale (Achenbach 2004, p. 14). Una comprensione filosofica sopravviv[e] di nascosto dall’intero della psicologia, cioè l’idea volgare che fa coincidere il possesso di una solida “visione del mondo” o di qualche altro sapere con la filosofia. […] Le terapie attuali – senza rendersene conto – manifestano un palese epicureismo. […] La salute e il benessere occupano il primo posto. Ma la salute non determina il senso della vita, per poi non parlare del vecchio, ma grazioso discorso sulla “vita buona” (Achenbach 2004, p. 17). Le terapie psicotecniche […] annientano l’altro come “soggetto”. Solo parti e frammenti, anomalie e difetti si lasciano “sottoporre a terapia” e “trattare. Ossia: ogni trattamento ha bisogno di un oggetto quasi-materiale, o non ha niente su cui poter porre la mano […] [rende] l’individuo un paziente, il paziente un bisognoso e il bisognoso un oggetto di prestazioni di aiuto estranee. […] Contro questa logica di tutte le terapie si sviluppa una resistenza, che allo stesso tempo va compresa come la ricerca di un’altra prassi (Achenbach 2004, p. 65). Nel momento in cui cerco una terapia mi colloco in un rapporto che è funzionalmente ripartito in modo disuguale (Achenbach 2004, p. 17). Sono gli standard e i concetti terapeutici che producono la richiesta [di psicologia]: l’aiuto di cui si ha bisogno lo giudica chi aiuta (Achenbach 2004, p. 16).
In estrema sintesi i limiti delle psicoterapie, nella prospettiva di Achenbach, sono i seguenti: ciascuna scuola di psicoterapia presuppone un determinato modello di psiche (p.e. come ripartita nelle istanze Io, Es e Super-Io per restare all’ambito psicoanalitico) e si fa dunque una determinata idea del soggetto che ne è portatore; questi, dunque, viene “oggettivizzato”, viene trattato come caso particolare di un tipo astratto e non preso sul serio come soggetto, come persone unica e irripetibile; generalmente, l’obiettivo delle psicoterapie è favorire il benessere del paziente, non, ad esempio, la sua adesione a valori esaminati sotto il profilo etico o politico (che magari possono comportare anche il sacrificio del proprio benessere); sotto questo profilo esse presuppongono, acriticamente, senza dichiararlo una “filosofia” (intesa come dottrina filosofica, visione del mondo) vagamente epicurea (si noti che, anche se, come in Binswanger e altri, la “filosofia” di fondo fosse p.e. quella di Heidegger o Husserl, l’approccio psicoterapeutico non sarebbe meno “dogmatico”); per tutte queste ragioni lo psicoterapeuta (“soggetto supposto sapere” in termini lacaniani) si colloca su un piano sovraordinato rispetto al proprio paziente; infine, Achenbach ventila perfino l’ipotesi che il bisogno di aiuto psicoterapeutico sia in qualche modo “creato” dall’esistenza stesse delle psicoterapie (sulla stessa linea Frank Furedi, il quale suppone che siamo tutti in qualche modo vittima e preda del dominante paradigma terapeutico, che fa sì che al più piccolo disagio o disturbo corriamo da qualche esperto che ce ne liberi con ogni mezzo, verbale o farmacologico).
La polemica di Achenbach si indirizza anche specificamente contro il metodo del sospetto, tipico degli approcci psicoanalitici, “che [scrive Achenbach] altrove viene definito come ‘critica dell’ideologia’”:
Nella consulenza filosofica mi interessa [invece] innanzitutto e decisamente prendere ciò che viene esposto come “la cosa stessa” […]: presa così, la “cosa stessa” si mostra contraddittoria e comincia a muoversi e a svilupparsi ulteriormente. La “cosa” diventa “dialettica”. Ma questo solo nel momento in cui rinuncio a interrogare colui che racconta o a incalzarlo con domande del tipo: cosa vuole dire con questo? A quale scopo lo dice? Perché? – fin tanto cioè che non voglio “scoprirlo”, andando oltre quello che dice, ma interessandomi a ciò che dice. Questa non è smania di interpretazione, che vuole andare dietro le cose, ma – detto enfaticamente – l’eros ermeneutico che “entra” nella cosa e che le comunica l’impulso per la propria esplicazione. Al contrario, al volontà di chiarificazione, che prende il pensiero come un sintomo e un fenomeno psichico sovrastrutturale, lo materializza e impedisce così il suo movimento autonomo (Achenbach 2004, pp. 21-22).
Rilevanti criteri di differenziazione tra consulenza filosofica e psicoterapie (criteri di chiara matrice achenbachaiana) sono esposti nell’introduzione al volume collettaneo Sofia e psiche del 2010 (della collana “Phronesis” di Liguori):
Neri Pollastri, fondatore di Phronesis e primo in Italia a esercitare la consulenza filosofica come professione, ribadita la non terapeuticità della prospettiva pratico-filosofica, vi rimarca il fatto che il consulente filosofico, a differenza dell’analista, 1) ha una precisa intenzionalità filosofica (intende fare filosofia e nient’altro), 2) non parte dal presupposto che il proprio interlocutore sia abitato da un inconscio in senso psicoanalitico, 3) non si serve tematicamente di strumenti come il transfert, 4) non si preoccupa di spiegare le cause del vissuto del proprio interlocutore, ma piuttosto cerca di comprenderne il senso, 5) si sforza, insieme al proprio interlocutore, di far luce sul mondo che circonda entrambi e non soltanto, intimisticamente, sul cosiddetto “sé” di chi gli sta di fronte, 6) istituisce, pertanto, un setting fondamentalmente intersoggettivo e anaffettivo, aperto sul lògos universale piuttosto che centrato sulla relazione stessa di consulenza e sui suoi attori. Tutto ciò – va sottolineato – non esclude affatto che il lavoro del consulente filosofico, così nettamente caratterizzato, possa avere effetti emotivi, terapeutici, trasformativi, emancipatori. Ma questi, per una feconda eterogenesi dei fini, appaiono tanto più probabili, quanto meno, paradossalmente, sono consapevolmente ricercati. Ai sei criteri di demarcazione proposti da Pollastri se ne potrebbe aggiungere un settimo, se possibile ancora più fondamentale. Esso è sottolineato particolarmente, oltre che dai contributi al volume proposti da chi scrive queste righe, anche dallo stimolante saggio di Paolo Cervari (il nono del volume). Dopo aver messo in questione presupposti con cui la consulenza filosofica tende ad autorappresentarsi – grazie a un confronto serrato con la psicoterapia strategica à la Watzlawick – Cervari “salva” soprattutto (ma non è poco), come essenziale criterio di demarcazione della pratica filosofia, la sua mancata “chiusura epistemologica”: ossia il fatto che l’esercizio filosofico è sempre anche “meta-teoria praticante”, per usare le parole di Gerd Achenbach, il filosofo che, avendo aperto, nel 1981, in Germania, un gabinetto di consulenza filosofica (Philosophische Praxis), è considerato universalmente l’iniziatore del movimento contemporaneo delle pratiche filosofiche. L’esercizio filosofico, in altre parole, in quanto filosofico, è un esercizio radicale: esso interroga sempre anche se stesso nel suo svolgersi, potendo perfino mettere in discussione, durante una seduta di pratica, – qualora, ovviamente, il dialogo tra consulente e consultante porti in questa direzione – i suoi stessi presupposti epistemologici. Quale altra pratica potrebbe attingere tanta radicalità senza cambiare pelle e mutarsi immediatamente, appunto, in una pratica filosofica? Quale approccio che non fosse filosofico potrebbe rompere la propria medesima cornice disciplinare conservando, in pari tempo, proprio in tale rottura, tutto il proprio rigore?
D’altra parte Achenbach sembra apprezzare e fare propria l’intenzione demistificatrice e critica della psicoanalisi delle origini, così come l’attenzione tipica di certi approcci psicoterapeutici (come la psicosomatica) al “linguaggio del corpo”:
La consulenza filosofica rinnova e radicalizza quella pretesa di chiarimento, che una volta era stata sollevata dalla psicologia – soprattutto dalla prima psicoanalisi – e che poi tramontò nella routine dell’applicazione (Achenbach 2004, p. 16). Può essere estremamente razionale che alcuni individui sviluppino ulcere. Forse tali “commenti somatici” si lasciano ricostruire come “ragione” che non viene proprio sostenuta da chi, fatalmente, commette degli errori. Ciò potrebbe essere l’indizio che lo spirito per una volta va a scuola dal corpo… (Achenbach 2004, p. 20).
Più in generale si possono intendere molti comportamenti, rubricabili psicoanaliticamente come “effetti dell’inconscio”, come, piuttosto, espressione implicita di una visione del mondo (quella che Ran Lahav chiama “comprensione vissuta” di una persona), facendoli così rientrare in una considerazione di tipo filosofico (tipicamente quella che mette in luce la contraddizione performativa tra ciò che uno dice o pensa e ciò che uno sente o fa: questo aspetto è approfondito nel cap. 4 del mio libro Platone 2.0).
Lo stesso Achenbach, del resto, si vale spesso, forse ironicamente, di termini di matrice psicoanalitica – p.e. “rimozione”, “tabù”, “inibizione”, “sintomo”, “sintomatologia” ecc. – nella sua analisi p.e. della condizione in cui versa oggi la filosofia:
Nel momento in cui si ricava dalla domanda sulla filosofia la domanda sul filosofo [si] va a toccare ciò che è rimosso (Achenbach 2004, p. 29).
Seguono questo passo la distinzione tra “rimosso” e “tabù”, quindi un’osservazione sulla “dialettica del sintomo” (Achenbach 2004, p. 30), sull’inibizione (cfr. Achenbach 2004, p. 31), sempre in riferimento alla domanda sul filosofo. Insomma, richiamando un criterio distintivo già evocato, in ultima analisi ciò che fa la differenza (tra consulenza filosofica e psicoterapie) non è l’uso o mancato uso di questo o quel termine, ma – si direbbe – l’intenzionalità (filosofica o meno) sottesa a tale impiego.
Sul rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapia chiarificatrici le similitudini proposte da Ran Lahav:
La consulenza filosofica è analoga alla critica d’arte e in opposizione alla psicologia degli artisti; analoga al commento delle partite a scacchi e in opposizione alla psicologia dei maestri di scacchi; analoga all’etica filosofica e in opposizione alla psicologia delle decisioni etiche (Lahav 2004, p. 18).
Lahav ritiene, peraltro, che gli psicologi, che hanno esaminato dilemmi personali,
si sono avvalsi di tutti i metodi disponibili, inclusi quelli filosofici. Fino alla nascita del movimento della consulenza filosofica nello scorso decennio, non c’era nessuno a contestare loro il superamento del confine (Lahav 2004, p. 19).
Insomma diverse scuole di psicoterapia, come sostenuto nel citato volume Sofia e psiche da diversi autori, sembrano aver esercitato una (legittima) funzione di supplenza (riempiendo un vuoto) in attesa che la filosofia (“alienata nel ghetto accademico”) ritornasse a farsi pratica.
D’altra parte non sembra che vi siano ragioni particolari per respingere l’acquisizione, da parte del consulente filosofico, di competenze psicologiche, debitamente esaminate e sottoposte al vaglio critico ed epistemologico della filosofia (cfr. Ruschmann in Miccione 2007, pp. 77-82).
Da ricordare, infine, sul tema del rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapie anche la posizione piuttosto tranchant della già citata Renata Domizi, allieva di Achenbach:
Proporre e riproporre il confronto tra consulenza filosofica e psicoterapie, anche in ambito di formazione, è un modo fruttuoso di riflettere sulla propria identità di consulenti filosofici. Sono convinta che la consulenza filosofica, in quanto filosofica, sia tendenzialmente diversa dall’approccio psicoterapeutico, e spesso c’è qualcosa di inutilmente pedante nel sottolineare le eccezioni e le specificità all’interno della psicoterapia per oscurare questa diversità. In un contesto psicoterapeutico si vuole – normalmente e tendenzialmente – aiutare la persona a stare meglio, mentre in un contesto filosofico – normalmente e tendenzialmente – si cerca di migliorare (approfondire, chiarire…) il pensiero su una certa questione. Ovvio che poi uno può citare come controesempi la terapia razionale o cognitiva e la filosofia ellenistica, ma oscurare la tendenziale diversità con controesempi specifici non mi sembra un buon modo di pensare: non lo è dal punto di vista logico, perché si dà troppo peso a istanze singole, e non lo è dal punto di vista pragmatico-professionale, perché non si mette in luce cosa faccia il consulente filosofico di diverso da uno psicoterapeuta. Dopodiché, se uno pensa che dicendo questo (“il dialogo filosofico, a differenza delle psicoterapie, non ha come fine quello di far star meglio il cliente”) perderà clienti, può pure cercare di integrare il lavoro filosofico con quello psicoterapeutico (anche se io non sono sicura che questa integrazione funzioni), previa acquisizione delle competenze necessarie per farlo. A questo punto, però, non dovrebbe chiamarsi solo “consulente filosofico”, perché questo produce confusione. Un dialogo filosofico si differenzia tendenzialmente da uno di tipo psicoterapeutico […], e questa differenza – seppure di tendenza e non traducibile in confini netti – è di importanza fondamentale (Domizi 2016, p. 79).
Sulla questione del rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapie, in particolare sulla questione se il consulente filosofico debba vantare competenze psicoterapeutiche, (sollecitato dal gruppo dei soci in formazione di Phronesis ai quali ho presentato la consulenza filosofica nei termini della presente pagina) ho ulteriormente riflettuto su quest’ulteriore pagina di questo sito.
Consulenza filosofica e counseling pastorale
La consulenza filosofica potrebbe rischiare di confondersi anche con pratiche proprie di contesti di tipo religioso come la direzione spirituale o, ancor di più, per restare in ambito cattolico, con una “new entry” di questo universo: il cosiddetto counseling (o colloquio) pastorale. Tale rischio potrebbe essere ancora più accentuato in quelle prospettive, come quelle di Zampieri (Zampieri 2010) e dell’ultimo Ran Lahav (o anche del sottoscritto), secondo le quali il colloquio di consulenza filosofica dovrebbe essere considerato un momento di una più ampia aspirazione a una vita filosofica che dovrebbe idealmente estendersi a ogni aspetto della propria quotidianità (secondo il modello, più o meno rinnovato, di ciò che con Hadot e Foucault possiamo chiamare la “spiritualità” degli antichi).
Anche nel caso del “consiglio spirituale”, come nel caso di una psicoterapia, si può rilevare, rimanendo sulla scia di Achenbach, che la principale differenza con la consulenza filosofica è data dalla circostanza che il consigliere spirituale, a differenza de consulente filosofico, ha dalla sua, come è ovvio, (e può legittimamente far valere) una dottrina ben determinata, dai contorni letteralmente dogmatici:
Il consiglio spirituale ecclesiastico offriva ai problemi degli individui soluzioni generali, risposte “preconfezionate” […] Il servizio pastorale non significava solamente prendersi cura dell’anima, ma anche determinare quali sono le preoccupazioni dell’anima (Achenbach 2004, pp. 15-16, cfr. anche ivi, p. 80).
Anche Chiara Zanella, nel volume Sofia e Agape della collana “Phronesis” della Liguori da lei curato, riconosce una serie di significative differenze tra i due ambiti:
Il [dialogo filosofico] deve essere libero, non vincolato da una visione antropologica prefissata né da un credo indiscutibile [come avviene nel consiglio pastorale], perché la filosofia non dispone – per definizione – della verità, semmai la cerca (Zanella 2012, p. 78). Il [ruolo consigliere spirituale] è un ruolo di guida (asimmetrico), ovvero quello di chi conosce la strada e conosce la meta finale (Zanella 2012, p. 90).
Zanella mette in luce, tuttavia, anche numerose similitudini:
[Consulenza filosofica e counseling pastorale] hanno come presupposto fondamentale una relazione caratterizzata dall’autenticità personale da parte dell’operatore (Zanella 2012, p. 93). La responsabilità del filosofo e del credente si esplica […] nella testimonianza, non solo nella bontà della loro visione del mondo (Zanella 2012, p. 1039). Entrambi [consulenza filosofica e counseling o colloquio pastorale] partono da un atteggiamento di accoglienza non giudicane (Zanella 2012, p. 92). Un […] punto di contatto potrebbe essere rappresentato dalla benevolenza con cui entrambi i mondi […] guardano all’interlocutore (Zanella 2012, p. 104). Un altro aspetto condiviso […] è il proposito di attivare le risorse individuali dell’ospite (Zanella 2012, p. 93). L’esercizio spirituale [del cristiano] non è molto diverso da quello del filosofo che vuole vivere una vita filosofica e per questo si impegna ad esaminare ogni giorno come sia opportuno agire in vista di una vita degna (Zanella 2012, p. 76). Sia la CP [consulenza pastorale] che la CF [consulenza filosofica] riconducono la persona al piano della realtà (Zanella 2012, p. 93). Un altro aspetto di grande vicinanza tra i due mondi è che la persona viene concepita come unica e irripetibile (Zanella 2012, p. 93). [Per entrambe] la coscienza non può essere sforzata (Zanella 2012, p. 104). Infine entrambe si radicano su una dimensione non solipsistica: l’uomo viene pensato dalla CF all’interno di una relazione politica di reciprocità coi suoi simili, mentre nella CP alla dimensione comunitaria si aggiunge la spinta verticale alla trascendenza di Dio (Zanella 2012, p. 93). Sia la pratica filosofica che la fede religiosa domandano un passaggio al piano attuativo; tuttavia [riecco una differenza] in questo movimento la CF – cui è sconosciuto il concetto di peccato – opera senza obbligazioni morali eteronome al fine di far nascere consapevolezza di sé (Zanella 2012, p. 103).
Bibliografia di riferimento
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