Quale l’esito di una consulenza filosofica? Alcune ipotesi “classiche”

Nella mia ricostruzione della fondazione su base storica della consulenza filosofica ho affermato quanto segue:

Non si è forse messo abbastanza in luce una certa differenza tra Achenbach e Lahav, i due massimi “esponenti” della consulenza filosofica, costante riferimento in Phronesis, riguardo agli obiettivi della medesima. Si tratta per entrambi di comprensione, tuttavia…

[...] Achenbach auspica che il consultante tracci una “autobiografia razionale”. Si direbbe una sorta di esito “narrativo” della consulenza filosofica.

Lahav parla invece di “visione del mondo”, di “filosofia personale”, di “comprensione vissuta” del consultante (cfr. Miccione 2007, p. 66) [come Ruschmann di “filosofia della vita” cfr. Miccione 2007, p. 80].

Nel primo approccio non si esclude l’emergere di contraddizioni, anzi le si provoca. Nel secondo sembra più rilevante pervenire a una messa a coerenza del proprio vissuto (aspetto ancora più accentuato nel “sistematico” Ruschmann, cfr. Miccione 2007, p. 81).

Vorrei precisare subito: la mia ipotesi sul diverso esito di una consulenza filosofica in Achenbach e Lahav (rispettivamente “narrativo” e “argomentativo”, per così dire) è del tutto discutibile e deriva semplicemente sia dalla lettura dei loro libri, sia dalla mia conoscenza diretta di entrambi, soprattutto del secondo (anche se la concezione di Lahav sulla funzione della consulenza filosofica che è qui in discussione risale a prima della sua famosa svolta degli anni Novanta, quando ancora non lo conoscevo di persona).

La verifica della mia ipotesi è resa difficile dal linguaggio criptico di Achenbach e dal fatto che non conosco nessuno che abbia fatto una consulenza con lui.

Uscendo da questi due autori, resta vero che, in generale, vi è una “corrente”, nel mondo delle pratiche filosofiche e della consulenza, che insiste sul valore della dimensione narrativa, autobiografica (tanto in ingresso, quanto, per così dire, in uscita, rispetto alla determinata pratica filosofica).

Cfr. ad esempio Màdera e Tarca ne La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Zampieri (nel suo Manuale) e altri.

La mia esperienza mi suggerisce (cfr. la sez. 6.8 di Platone 2.0) che la narrazione abbia un ruolo fondamentale, ma non conclusivo. In estrema sintesi la narrazione consente di disporre su un asse temporale atteggiamenti che, se fossero simultanei, sarebbero autocontraddittori (ad esempio amo e non amo – più – questa persona, credo e non credo – più – in Dio ecc.). Finché ci si mantiene nella logica di uno “sviluppo” nel tempo della propria “personalità” si rischia di perdere di vista il “sale” delle proprie contraddizioni (sulle quali probabilmente Achenbach ci invita a insistere, per vederci da più prospettive). Anche l’ultimo Lahav, mi sembra, ci invita più che a mettere a coerenza la “caverna” in cui siamo prigionieri (la nostra visione del mondo) a uscire nell'”aperto” (per citare Rilke) di una verità che trascende la non contraddizione

P.S. L’ìdea che la narrazione “sciolga” in una sequenza di “fotogrammi” ciò che altrimenti si presenterebbe come contraddittorio (p.e. “amo e non amo questa persona”) mi è suggerita dal bel libro che suggerisco a chi ha interessi di bioetica: Paolo Cattorini, in Bioetica clinica e consulenza filosofica, ricorre spesso al cinema (donde l’idea della sequenza) per introdurre delicate questioni di bioetica (p.e. la celebre sequenza del film Schindler’s list in cui le “caritatevoli” infermiere di un ospedale, prima che vi facciano irruzione le S.S., “uccidono” col veleno i pazienti ebrei, per evitare loro una morte ben più dolorosa). Nel suo libro Cattorini mostra le forti analogie tra l’approccio di certi bioeticisti clinici (come lui) e i consulenti filosofici: ci si accosta al dramma di chi deve prendere delicate decisioni sulla propria vita o su quella dei propri cari con la sensibilità di chi non ha “valori non negoziabili” da imporre, ma solo la capacità di aiutare il proprio interlocutore a prendere una decisione in autonomia. Mi sembra un campo nel quale la filosofia, nella sua veste pratica, dialogica, appare insostituibile, rispetto ad alternative “parziali” come sarebbero da un lato l’ascolto psicologico (cieco rispetto a questioni in cui sono in gioco valori) o dall’altro lato l’ascolto “spirituale” (troppo certo dei valori da salvaguardare).

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di Giorgio Giacometti