Percorsi di stimolazione cognitiva per l’invecchiamento in salute
Udine, MARTEDÌ dal 4/06/2019 al 30/07/2019 – ore 16.00-18.00
Centro StimolaMente – Via S.Rocco 10/B
Il percorso di quest’anno (che vede partecipazione di una quindicina di iscritti) privilegia stimoli che alludono, più che a teorie o dottrine, a narrazioni, con le quali far risuonare la nostra esperienza autobiografica; nella consapevolezza che altro è vivere, altro è riflettere su quello che si vive; certi, tuttavia, che chi vive a fondo la propria esperienza di vita anche necessariamente già vi riflette, ne fa tesoro. Controprova? Evita di ricadere negli stessi errori.
Il “filosofico”, dunque, in questo percorso non costituisce (con qualche eccezione) l’oggetto della meditazione, quanto piuttosto il metodo con il quale interroghiamo “storie”, nostre e altrui, vere o immaginate.
1° incontro, 4 giugno
Meditazioni sull’episodio della volpe
dal Piccolo Principe di Saint-Exupery
Che cosa ci rende unici agli occhi di qualcuno? Niente di “trascendentale”, non differenze eclatanti. No. Piuttosto: l’essere riusciti ad “addomesticarlo“, come la rosa ha fatto con il piccolo principe e il piccolo principe tenta di fare con la volpe (che glielo ha suggerito).
Ma che significa “addomesticare”? Non è, forse, un condizionare, un togliere la libertà, come nella celebre favola esopica del cane e del lupo? O si intende, piuttosto, un “creare legami”? E che cosa si richiede a tal fine?
Tempo! Non ci si può affezionare gli uni agli altri “di corsa”. Oggi tutti corrono e pensano, ciononostante, di conoscere. Ma la stessa conoscenza (che è il fine della stessa filosofia) richiede pazienza, altrimenti resta superficiale, ingannevole.
Nel caso dei legami affettivi sono importanti anche i riti, la ripetizione o, per meglio dire, un giusto equilibrio tra sorpresa e routine (termine troppo spesso ingiustamente denigrato).
Se non ci piace pensare di addomesticare gli altri, anzi, di esserne addomesticati, forse potremmo parlare di “cura”, nel senso di prendersi cura di qualcuno (anche se non bisogna romanticamente immaginare che la cura sia del tutto spontanea: proprio come nell’addomesticamento essa richiede esercizio, sforzo e rinuncia).
2° incontro, 11 giugno
Meditazioni sulla canzone
La cura di Franco Battiato
Se ciò che ci rende unici (“un essere speciale”) è il fatto di meritare la cura di chi ci vuole bene, ci possiamo, allora, interrogare su che cosa comporti prendersi cura di qualcuno.
Se prendiamo alla lettera, ad esempio, il testo della canzone di Battiato, dovremmo “guarire” la persona (o l’animale) che ci è caro “da tutte le malattie”, “salvarla da tutte le malinconie”, “sollevarla da ogni dolore”, superando “le correnti gravitazionali” ecc. Si può promettere qualcosa del genere?
Dopo lunga meditazione ci si orienta su tre principali ipotesi:
- Sì, tutto questo è possibile, se intendiamo la cosa in senso spirituale, non materiale; metaforico, non letterale.
- No, non si tratta di promettere questo a qualcuno, ma di esprimere a se stessi il desiderio, l’intenzione di prendersi cura dell’altro .
- In nessun modo, sarebbe solo un illudere se stessi e l’altro.
In generale ci si può chiedere se e come si possa prendersi cura di un altro se prima non ci si è presi cura di se stessi.
Del resto per filosofia, in origine, si intendeva un forma di “cura di sé”.
Cfr. anche il Vangelo di Luca, 6, 39:
Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?
3° incontro, 18 giugno
Meditazioni su un’immagine
Che cosa rappresenta quest’immagine? Le ipotesi non si contano… Tuttavia, emergono due principali linee interpretative:
- Una giovane maestra, incapace di gestire una classe di vivacissimi alunni intenti a lanciare aeroplanini di carta, si rifugia in una meditazione yoga.
- Una giovane (forse una studentessa), stanca di subire il potere degli insegnanti, si siede sopra la cattedra e, con l’energia della sua mente, fa volare per protesta intorno a sé gli aeroplanini (esercitando quelle nella teoria dello yoga si chiamano siddhi o poteri paranormali).
Un’altra questione è la seguente. La donna vive o semplicemente sogna il mondo che la circonda? Sperimentiamo come un’immagine, non meno di un racconto o di una canzone, si presti a diverse interpretazioni a seconda del vissuto dell’interprete.
4° incontro, 25 giugno
Una storia zen
A proposito dei benefici della meditazione leggiamo questa storia zen.
Il discepolo, dopo tanto peregrinare, arriva a un’illuminazione (satori) sulla natura dello zen che egli esprime con alcune parole. Il maestro gli appioppa un ceffone: il discepolo non avrebbe capito alcunché. Eppure lui stesso, il maestro, esprime la natura dello zen con le stesse identiche parole del discepolo.
Come dobbiamo intendere questo paradosso (un vero e proprio koan)?
- Forse il maestro voleva far capire al discepolo che non era necessario cercare la verità dello zen in giro per il mondo? Che essa era a portata di mano? Perché allora il discepolo si sarebbe illuminato alla fine della storia?
- Forse le stesse parole possono significare cose molto diverse a seconda dell’esperienza di chi le pronuncia o le ascolta (come la millenaria storia delle diverse interpretazioni dei testi sacri, ad esempio, testimonia).
Quante volte anche noi ci fraintendiamo tra noi, soprattutto quando comunichiamo gli uni agli altri via social network o via email, ma non solo. La diversità di esperienza e di contesto possono essere fonti di infiniti e talora dolorosi equivoci. Come evitarlo?
5° incontro, 2 luglio
Un racconto senza parole
Restiamo su questioni di “interpretazione”. Ascoltiamo questa musica. Che cosa ci suggerisce?
La natura si risveglia. Un eroe è portato in trionfo. Una storia d’amore raggiunge il culmine, poi si estenua…
Wagner, dunque, l’inventore dei leitmotive, con questa musica “da film” (in realtà sono le moderne colonne sonore cinematografiche che derivano da Wagner), il preludio del Lohengrin, è riuscito, senza parole, a comunicare proprio quello che voleva: il dramma di un eroe, Lohengrin, cavaliere del Santo Graal, legato da un magico rapporto con la natura, rappresentata da un bianco cigno, che convola a nozze con Elsa (il leitmotiv dello sposalizio è universalmente noto e viene suonato in quasi tutti i matrimoni), ma poi la deve abbandonare, per effetto di un incantesimo, perché lei gli chiede di infrangere quel segreto che lui non le può svelare…
Come può una musica senza parole essere così eloquente, mentre molti testi scritti si rivelano così ambigui?
In passato abbiamo sperimentato come alcune righe del Mein Kampf di Hitler, fuori contesto, risultassero del tutto convincenti, mentre altre righe, tratte dai Pensieri dell’imperatore filosofo Marco Aurelio, ci suonassero del tutto inaccettabili…
6° incontro, 9 luglio
Meditiamo su celebre sketch televisivo
Vi ricordate il celebre sketch del Sarchiapone [andare al minuto 1.02.20 di questo video Rai] con l’indimenticabile Walter Chiari?
Walter Chiari, per non fare “brutta figura” (espressione tipicamente italiana, utilizzata pari pari anche in altre lingue per indicare il timore che a volte ci prende della vergogna), per tutta la durata dello sketch, millanta di saperla lunga sul sarchiapone, che, alla fine, si rivela un animale inesistente.
Quante volte per darci delle arie simuliamo di conoscere quello che ignoriamo (i libri di un certo autore, la musica di un certo compositore ecc.). Si può anche fare l’esperimento: citare come noto un autore (o un libro, un film ecc.) del tutto inventato e verificare, all’interno di una compagnia di “intellettuali”, quanti fingono di esserne a conoscenza. Perché ci vergogniamo tanto di fare brutta figura?
Parrebbe che, soprattutto nelle culture mediterranee, il timore della vergogna superi di gran lunga il senso di colpa. Quanti corrotti e corruttori al tempo di Tangentopoli finirono per suicidarsi una volta scoperti, mentre non si sentivano affatto in colpa mentre commettevano i loro reati?
Più in generale, è legittimo talvolta mentire od omettere? Si direbbe di no.
Ma è davvero giusto dire tutta la verità a un malato terminale o a un bambino che crede ancora a Babbo Natale? Forse è lecita, talora, una pia fraus, una bugia buona, quando non si vuole turbare o ferire l’altro.
Si direbbe, in ultima analisi, che la decisione dipenda dalla comprensione della prospettiva del nostro interlocutore, del suo stato d’animo.
Ma chi può assumersi una tale responsabilità? Chi può presumere di conoscere veramente un altro?
In campo sanitario, ad esempio, la tendenza, nata nei Paesi anglosassoni, prima giuridica, quindi etica e deontologica, va nella direzione della verità: il diritto soggettivo del paziente di conoscere la sua diagnosi prevale sul suo eventuale o presunto interesse, di ordine psicologico, a ignorarla.
Siamo costretti a una presa di posizione in “bianco e nero” (dire o non dire la verità) anche dalla moderna concezione illuministica, secondo la quale gli individui maggiorenni sono tutti egualmente titolari degli stessi diritti. Tale concezione non guarda a sottili differenze psicologiche (per cui un ragazzo di 16 anni potrebbe talvolta essere più maturo di un adulto di 60!), ma ci costringe a tagliare certe questioni con l’accetta (basti pensare ai delicati casi della pedofilia vs omosessualità, per cui personaggi come Montanelli o Pasolini possono venire condannnati o esaltati per la loro “libertà” sessuale a seconda delle prospettive).
Ma davvero il fatto di “raccontarsela” o di “raccontarla” in modo “creativo” è giustificabile solo per soddisfare i bisogni del nostro interlocutore di turno? Non abbiamo anche noi, talora, il legittimo interesse ad abbellire certi aspetti del nostro profilo, ad esempio in un curriculum, non foss’altro perché tutti gli altri lo fanno e, se non lo facessimo, finiremmo ingiustamente penalizzati?
7° incontro, 16 luglio
Meditiamo su alcuni suggerimenti di Epitteto
Ecco alcuni suggerimenti tratti dal Manuale di Epitteto, il filosofo stoico del I sec. d.C.
Durante il nostro percorso è emerso a più riprese il ruolo che, nei nostri comportamenti, assumono gli altri (quando, per esempio, si tratta di decidere se sia lecito e meno mentire loro). Ma qual è, in ultima analisi, il nostro dovere nei confronti degli altri? Come dobbiamo comportarci nei loro confronti? Non dimentichiamo che filosofi contemporanei, come Jean-Paul Sartre, hanno scritto, ad esempio: “L’inferno sono gli altri” (fonte per noi spesso più di turbamento, rancore, recriminazione che di gioia).
Epitteto suggerisce di non farsi condizionare dalle nostre emozioni (di rabbia, rancore ecc.), per non dare agli altri (ai “malvagi”) potere nei nostri confronti, ma di agire sempre secondo giustizia.
Già, ma che cos’è giusto fare? Epitteto, per esempio, dice che un figlio dovrebbe accettare di essere picchiato dal padre, anche se non è d’accordo con lui. Probabilmente avrebbe suggerito anche alla moglie di subire le violenze “legittime” del marito. Chiaramente questi consigli, presi alla lettera, ci appaiono “datati”. La cultura giuridica greco-romana era ben diversa dalla nostra. Oggi una donna picchiata dal marito farebbe bene fin da subito a denunciarlo. Ne avrebbe diritto. Paradossalmente si dimostra più amore verso gli altri, talvolta, quando non si sta al loro gioco, ma li si “corregge amorevolmente”, come suggerisce anche il Vangelo.
Ma davvero dovremmo lasciare da parte i nostri sentimenti? Dovremmo essere sempre “superiori” a chi ci offende, rispondendo all’odio con l’amore? Non è facile non opporre violenza a violenza, rabbia a rabbia. Secondo alcuni una certa indignazione può essere utile per “educare” chi ci ha ferito a non commettere di nuovo lo stesso errore. Storicamente alcuni (come i platonici, ma anche il cristiano Giovanni Crisostomo) distinguono la “giusta ira”, da incoraggiare, dall’ira intesa come turbamento nocivo dell’anima; mentre altri, come gli stoici, condannano ogni emozione suggerendo di agire sempre e soltanto “secondo ragione”.
8° incontro, 4 giugno
Riflessioni conclusive
Un percorso di pratica filosofica è riuscito quando ciascuno, compreso il conduttore, impara qualcosa. Ma che significare imparare qualcosa? Significa portare a casa qualcosa di nuovo che prima si ignorava. Tipicamente: mettere in discussione certe consolidate credenze, spesso luoghi comuni non adeguatamente meditati, e riuscire a guardare alle cose in modi nuovi.
È accaduto qualcosa del genere?
Sì, a tutti.
Ad esempio chi pensava che non si dovesse mai mentire e bisognasse sempre dire la verità ha visto incrinata questa convinzione, come non avrebbe sospettato. Numerose si sono rivelate le circostanze nelle quali è parso legittimo mentire (a fin di bene).
Chi non avrebbe mai pensato a usare il verbo “addomesticare” per descrivere un legame affettivo tra persone, con tutte le implicazioni suggerite da quel verbo, si è accorto che, in effetti, per molti aspetti, quando ci si prende cura di qualcuno perché lo si considera speciale, ciò presuppone un certo “addomesticamento” reciproco.
Più in generale ci si è resi conto di qualcosa di sorprendente: a volte una musica risulta più trasparente e meno equivoca di tanti discorsi, che, per essere costituiti da parole invece che da suoni, non sono affatto poco ambigui, tutt’altro.
Si è imparato ad accogliere le tesi degli altri anche quando non ci sembrava di condividerle in un primo momento. Interrogandoci reciprocamente sul significato delle nostre parole si è spesso trovato di essere d’accordo sull’essenziale. Soltanto: nel guardare alle stesse cose si adottavano prospettive diverse, ma non reciprocamente contraddittorie.
Vi sono, per esempio, tanto ragioni per dire la verità a un malato sulla sua diagnosi, quanto ragioni per nascondergliela. Dipende dalla circostanze. Inoltre vi sono tanti diversi modi per dire le cose.
Così vi sono ragioni per arrabbiarsi quando si viene offesi, come vi sono ragioni per cercare di mantenere la calma e perdonare chi ci offende. Spesso gli stessi autori argomentano che è necessaria l’una o l’altra cosa a seconda delle circostanze (in particolare a seconda del beneficio che possono ricavare sia l’offeso sia l’offensore).
Ma dove possiamo esercitarci a perseguire il nostro bene al di là dei luoghi comuni? Dove possiamo praticare la filosofia come forma di vita? Non basta, infatti, incontrarsi settimanalmente per approfondire questo o quel problema. Non sempre sapere che cosa sarebbe bene fare induce a farlo. Rendersi conto, ad esempio, che non è saggio arrabbiarsi con chi ci offende non ci impedisce di provare sentimenti di rabbia o di rancore.
La virtù, come qualsiasi abilità, richiede di essere educata, comporta esercizio. Ci esercitiamo a parlare meglio in inglese, a giocare meglio a calcio, a lavorare meglio a maglia ecc., ma dove possiamo esercitarci a vivere meglio e, quindi, essere più felici? Dove possiamo esercitarci a fare quello che noi stessi sappiamo che sarebbe bene fare, ma spesso non abbiamo la sufficiente “forza di volontà” per farlo?
Dobbiamo constatare che mancano vere e proprie “palestre del pensiero”, come, forse, anticamente erano certe chiese, certe scuole, certe organizzazioni di partito (per tacere di certe “sette”)… Questo vuoto viene oggi riempito da “guru” più meno improvvisati o interessati, capaci talora di riempire la sale, ma quanto davvero capaci di suscitare in noi “maieuticamente” il nostro bene? Si, perché, come è stato giustamente osservato, il vero maestro (fosse pure “quello che ci capita”, come dicono i buddhisti tibetani) è chi riesce a fare “partorire” la nostra anima, ci fa diventare quello che (potenzialmente) siamo, lascia, insomma, a noi la palla della “crescita spirituale”.