Per inquadrare il senso del rinascimento filosofico è opportuno inserirlo nel più ampio contesto del “momento magico” che l’Italia vive tra la metà del Quattrocento (1454: pace di Lodi e – l’anno innanzi – caduta di Costantinopoli) e la prima metà del Cinquecento (1527: sacco di Roma, ad opera dei Lanzichenecchi protestanti).
Nelle libere città italiane (comuni), divenute ormai capitali di principati territoriali (Firenze, Milano, Venezia, Roma, Napoli), si avverte sempre più vivo il bisogno di attingere alla cultura antica (greco-romana) per affrontare meglio le questioni politiche, etiche, geografiche, cosmologiche del tempo, per le quali la tradizione “scolastica”, diffusa nelle università di origine medioevale, caratterizzata dal predominio della teologia sulle altre facoltà, non appare più sufficiente e appare anzi limitativa, anche per il principio di autorità (dogmatismo) che vi domina. Nascono, quindi, le libere accademie (di arti, lettere, scienze), come l’Accademia Platonica di Firenze (sorta di nuova Atene), animata da Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola e nutrita del contributo di dotti fuggiti da Costantinopoli, come Bessarione, Giorgio Gemisto Pletone (a cui si oppone Giorgio Trapezunzio), che vi apportano, oltre alla loro cultura neoplatonica, la conoscenza viva della lingua di Platone e Aristotele. In un certo senso, quindi, tornano in auge, sia pure ricoperte di una “sottile” patina di cristianesimo, quelle antiche filosofie (non solo platonismo e aristotelismo, ma anche stoicismo, scetticismo e, perfino, epicureismo) che furono bandite dall’impero romano nel 529. a. C. ad opera di Giustiniano.
Possiamo fruire al riguardo di questa sintesi video.
Per quanto riguarda il rapporto tra filosofia e religione, bisogna considerare che i dotti del Rinascimento non avvertono alcuna contraddizione nel proclamarsi cristiani e “platonici”. Pletone, Ficino, Pico e molti altri pensano che ciò che a noi appare una forma di “neoplatonismo” (espressa anche nell’arte del tempo, cfr. Raffaello, Botticelli, Michelangelo ecc.), sia la riscoperta di una tradizione spirituale antichissima, risalente a Ermes Trismegisto (Mercurio tre volte grandissimo, corrispondente al dio egizio Thot – quello che secondo il Fedro di Platone avrebbe inventato la scrittura e le scienze, a dispetto delle critiche del faraone Thamus e dello stesso Platone -), giunta fino a loro attraverso Zoroastro (Zarathustra, profeta iranico vissuto nel VII sec. a. C.), Mosé, Pitagora, Platone, Cristo stesso, Mohammad ecc. Pertanto la loro prospettiva (sincretistica, dal punto di vista dottrinale) è quella di una convergenza tra tutte le religioni (comprese quelle non abramitiche, cioè che non riconoscono come patriarca Abramo, come l’induismo) tra loro e con la filosofia.
Questa convergenza di tutte le tradizioni, esposta magistralmente nel De pace fidei del 1453 (l’anno emblematico della caduta di Costantinopoli) di Niccolò Cusano, è resa concepibile da una ripresa in grande stile dell’interpretazione allegorica delle Scritture, già ben nota al platonico cristiano Origene. Secondo tale approccio i testi sacri delle diverse religioni, così come le grandi opere filosofiche paragonabili a testi sacri (come gli scritti di Platone o di Ermete Trismegisto), non potendo esprimersi che per similitudini, data l’ineffabilità e inconoscibilità della verità che hanno di mira (cfr. il De docta ignorantia del 1440, sempre di Cusano), vanno intesi come intessuti di immagini e simboli, non presi alla lettera; il che impedisce loro di contraddirsi.
A titolo di esempio si può evocare la chiusa del IX cap. del De pace fidei, nel quale Cusano immagina che lo stesso Verbo di Dio concili nel modo seguente le prospettive di musulmani, ebrei e cristiani:
Quindi l'Arabo [il musulmano, affermando che Dio è uno, ma non trino] non nega che Dio sia [1.] il pensiero e che dal pensiero derivi [2.] il Verbo, o la sapienza, e che da questi [3.] lo spirito, o l'amore; e questa è appunto quella trinità che abbiamo illustrato [...] e che è ammessa anche dagli Arabi, benché la maggior parte di loro non se ne renda conto. Così anche voi, Giudei, potete trovare presso i vostri profeti l'idea che i cieli sono creati dalla parola di Dio e dal suo Spirito. Nel mondo in cui Giudei e Arabi negano la trinità [cioè come se si trattasse di tre dèi], essa deve essere certamente negata da tutti, ma nel modo in cui la sua verità è stata da noi spiegata, essa deve essere accettata da tutti.
Questa visione cristiana sincretistica, anche se probabilmente meno antica di quello che questi dotti credono, risale certamente al tardo impero romano, quando furono scritti i testi del Corpo ermetico, gli Oracoli caldaici, oltre agli scritti neoplatonici. In questo periodo a più riprese si tentò di affermare una religione “naturale” (senza rivelazioni privilegiate) basata sul culto del Sole (come simbolo del Principio, secondo il mito della caverna di Platone e le antiche vedute religiose monoteistiche del faraone Eknaton), sostenuta ad esempio dall’imperatore Eliogabalo e, poi, in piena età cristiana, da Giuliano l’Apostata (IV sec.), che tentò così, invano, di arginare la diffusione del cristianesimo. Tale “culto del Sole” ritorna durante il Rinascimento nell’utopia politica di Tommaso Campanella (la Città del Sole) e indirettamente nella stessa rivoluzione astronomica eliocentrica di Copernico, Bruno e Galileo.
Il Rinascimento può, in questa prospettiva, essere considerato un ritorno al Principio (ineffabile) in almeno due sensi: filosofico o spirituale, come ascesa all’Uno in senso neoplatonico; storico, come ritorno agli antichi (ai pagani, per cui si parla di un segreto “neopaganesimo” rinascimentale), i Greci (e, quindi, ai Romani), in quanto espressione di una rivelazione originaria che si tratterebbe di rievocare.
N.B. Si può ben immaginare il “circolo virtuoso” che si instaura quando i dotti umanisti cominciano a riesumare i testi antichi: da un lato questi testi vengono ricercati perché sono consonanti con la nuova visione del mondo che emerge nel Rinascimento; dall’altro lato, via via che questi scritti vengono riscoperti, le loro indicazioni mettono sempre più in crisi la rigida visione del cristianesimo medioevale, mostrando prospettive sempre più diverse e articolate, mettendo definitivamente in ombra in principio di autorità e costringendo i lettori, “maieuticamente”, a sviluppare il senso critico e la capacità di discriminazione, illuminata dall’esperienza personale.
In entrambi i sensi (filosofico e storico) il ritorno al principio e agli antichi implica “spoliazione” dalle “cose aggiunte”, si tratti di percezioni, opinioni e ipotesi ingannevoli o infondate o di pregiudizi storici e dogmi religiosi (quelli risalenti, ad esempio, ai “secoli bui” del Medioevo cristiano), assunti acriticamente, per mera autorità.
Un analogo “ritorno alla fonte” è espresso, nello stesso periodo, dalla Riforma protestante (la fonte è la Bibbia e le “scorie” sono rappresentante dalle interpretazioni successive della Chiesa). Ma la differenza rispetto all’approccio del Rinascimento (e che sarà quello della scienza moderna) è che, presso i protestanti, viene fatta valere come autorità la Bibbia stessa (tendenzialmente interpretata letteralmente, in seguito adottando l’approccio storico-critico) invece che la Natura.
Come sappiamo, data l’ambiguità della scrittura e l’ineffabilità del Principio, solo se in qualche modo riuscissimo a ricongiungerci con esso (cioè, in un certo senso, con noi stessi), potremmo davvero conoscerlo (secondo la prospettiva della filosofia classica, ricapitolata e compiutamente espressa dal neoplatonismo). Tale possibilità di “deificazione”, concessa all’anima dell’uomo, senza bisogno della mediazione della Chiesa, o della grazia di Dio (come invece sosteneva Agostino contro l’eresia pelagiana), fa dell’uomo, nell’espressione di Marsilio Ficilio, una copula mundi, la congiunzione di Cielo e Terra, di Spirito e Materia.
Questa centralità dell’uomo costituisce davvero il cuore del fondamentale fenomeno culturale, tipicamente italiano, da cui, tra le altre cose, ha ricevuto nuovo impulso la scienza (è nata la scienza moderna), che va, appunto, sotto il nome di umanesimo e rinascimento (tra i secc. XV e XVI).
La “scoperta” fondamentale del Rinascimento può, forse, essere espressa come il riconoscimento che il Principio, essendo ovunque e in nessun luogo (come Dio secondo Cusano), è anche in ciascuno di noi, è ciascuno di noi e ciascuno di noi è il Principio. “Conoscere se stessi” è “conoscere il Principio” e viceversa.
Come Dio è al di là di ogni possibile definizione (come Cusano riconosce nel modo che questo video poeticamente evoca), così anche l’uomo è privo di una sua determinata essenza, al punto che, in questo simile a un dio, è e diviene ciò che decide di essere (homo faber fortunae suae). Entrambi, Dio e uomo, condividono, infatti, una libertà che è negata perfino agli angeli (“condannati” a un’eterna bontà). Rotti gli schemi rigidi e definitori del Medioevo (di matrice aristotelica), chiuso in un “mondo finito”, il Rinascimento (fondamentalmente neoplatonico), alla luce dei paradossi dell’infinito, rende concepibili tutto e il contrario di tutto: il misticismo e la ricerca del piacere terreno, la ricerca interiore e le nuove scoperte geografiche.
Sotto questo profilo la differenza tra Medioevo e Rinascimento, almeno dal punto di vista filosofico, non consiste tanto, come spesso si sostiene, nel fatto che il Medioevo sarebbe “religioso” e il Rinascimento più incline a valorizzare la dimensione terrena, naturalistica, materiale ecc., quanto nel fatto che nel Medioevo tutti gli aspetti della vita e la stessa natura dell’uomo sono rigidamente determinati e inquadrati in una concezione statica del cosmo, mentre nel Rinascimento l’uomo si scopre libero di scegliere il proprio destino, in modo dinamico, in un universo senza confini (sotto questo profilo, dunque, può anche scegliere di inclinare verso la natura piuttosto che verso Dio, ma non è certo obbligato a farlo, come dimostra l’inclinazione mistica del neoplatonismo di Ficino e Pico).
Questa “deificazione” dell’uomo prepara la tipica “arroganza” antropo-centrica (che fa dell’uomo – del soggetto, piuttosto che dell’oggetto della conoscenza – il centro di tutto) dell’età moderna, caratterizzata dall’affermazione del dominio dell’uomo sulla natura (e dell’Occidente sul resto del mondo) e dalla progressiva esclusione di Dio e del divino. Ma, mentre nell’età moderna, in particolare, come vedremo, nel caso della scienza della natura, si privilegia, appunto, il lato pragmatico, strumentale e manipolativo dell’intelligenza, nel Rinascimento questo lato strumentale (espresso per esempio dal pensiero di Machiavelli) non esclude quello contemplativo e mistico (espresso da Cusano, Pico e Ficino); l’umano non esclude il divino.
In Ficino (cfr. questa sintesi video), in particolare, appare pienamente neoplatonica la dottrina dell’anima, copula mundi, come entità immortale che può afferrare le cose divine, ma, in pari tempo, riveste la materia, congiungendosi con il corpo. Anche l’idea che l’amore conduca a Dio attraverso la bellezza, pur essendo anch’essa di matrice neoplatonica, è particolarmente accentuata durante il rinascimento alla luce anche delle dottrine stilnovistiche e del fiorire dell’arte figurativa.
In GIovanni Pico della Mirandola è sicuramente matrice platonica la dottrina secondo la quale Dio avrebbe creato il mondo sulla base di archetipi (idee platoniche), conferendo a ciascuna creatura una specifica natura sulla base di questi modelli. A tale idea Pico aggiunge la caratteristica intuizione, espressa nel celebre discorso sulla De dignitate hominis (vero e proprio manifesto dell’umanesimo rinascimentale), che l’uomo sia di natura indefinita e possa, pertanto, scegliere liberamente che cosa essere.
In effetti, la dottrina del libero arbitrio (ignota ai Greci per i quali, ad es. per Socrate, non possiamo non fare ciò che, di volta in volta, ci appare bene) viene sviluppata soprattutto dalla filosofia cristiana antica e medievale, a partire dall’ipotesi che l’uomo, a causa della corruzione che gli deriva dal peccato originale, sebbene sappia ciò che è bene, tende a volere e fare il male. Tuttavia, in Pico, il libero arbitrio diventa “onnipotente”, nel senso che, come già sosteneva l’ “eretico” Pelagio, combattuto da Agostino, noi potremmo divenire ciò che vogliamo (santi o “bruti”) quasi senza l’aiuto della grazia divina.
In generale nel rinascimento si insiste sulla centralità dell’Uomo, dottrina che potrebbe venire anche intesa come il risultato dell’intersezione tra la concezione ebraico-cristiana secondo la quale (cfr. il Genesi biblico) l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio (dunque è infinitamente superiore agli altri animali, a differenza di quanto pensavano i Greci) e la concezione classica greca (soprattutto orfica e neoplatonica), secondo la quale l’anima dell’uomo è una scintilla divina, ossia l’uomo non è che Dio (il Principio) dimentico di se stesso (dottrina inaccettabile per ebraismo e cristianesimo ortodossi, per i quali l’uomo, in quanto creatura, è infinitamente inferiore a Dio).
Oltre al neoplatonismo nel Rinascimento risorgono anche altri approcci filosofici, quali più, quali meno compatibili con la dominante religione cristiana del tempo.
Per quanto ciò possa stupire, Lorenzo Valla, l’autore del famoso scritto (De falsa et ementita Donatione Constantini) in cui denuncia la falsità della donazione di Costantino, documento su cui la Chiesa fondava il proprio potere temporale, è insieme un fervente cristiano e un neo-epicureo. Secondo Valla, infatti, come per Epicuro, lo scopo della vita è il piacere, anche quando ci si orienta a Dio: l’amore di Dio non ha per fine Dio stesso, ma la “beatitudine” che ne consegue, la quale, poiché deve essere percepita attraverso il corpo, non sarebbe tale se non desse piacere. Questa prospettiva, ovviamente, implica l’abbandono dei presupposti materialistici dell’epicureismo (atomismo, mortalità dell’anima) e l’adesione sincera alla visione cristiana (Valla allude esplicitamente a una beatitudine da conseguire “nei cieli”).
Il francese Montaigne, dal canto suo, come Cusano e Socrate, “sa di non sapere”, “resuscitando” in tal modo, tuttavia, non tanto una fede più pura, quanto una prospettiva neo-scettica. Sul piano etico, tuttavia, Montagne “resuscita” la dottrina stoica (che si trova, come sappiamo, ad esempio in Epitteto) secondo la quale siamo responsabili solo di quello che dipende da noi, mentre il resto dipende dalla fortuna. La vita è, dunque, un esperimento continuo (di qui l’invenzione del genere letterario del saggio autobiografico), senza che sia possibile “certificare” in modo assoluto questa o quella dottrina (il che sembra poco in linea con il dogmatismo religioso, ma Montaigne non sembra preoccuparsene, proclamandosi un buon cristiano).
Leonardo da Vinci, nei suoi scritti filosofici, sembra evocare prospettive pre-socratiche (naturalistiche), quando, ad esempio, mette in luce la corrispondenza tra gli elementi del microcosmo (del corpo umano; di cui studia l’anatomia anche per le sue ricerche come pittore) e gli elementi del macrocosmo (specialmente della Terra).
Lo stesso sembra fare Bernardino Telesio con la sua dottrina dell’origine di ogni cosa dal caldo e dal freddo, esposta nel De rerum natura iuxta propria principia (1565-86).
Infine, Pietro Pomponazzi, detto Peretto Mantovano, resuscita il “vero” Aristotele, “filologicamente” liberato dalle incrostazioni della teologia medioevale: la natura si spiega da sola, ricorrendo alla dottrina dell’atto e della potenza e alle cause aristoteliche, senza bisogno di ricorrere all’intervento di Dio (che non è ragionevole supporre che ami il mondo e privilegi l’uomo rispetto agli altri viventi); il mondo è eterno, senza bisogno di supporre che sia stato creato; l’anima dell’uomo, come forma del corpo, si dissolve alla morte di questo (l’intelligenza sopravvive – è vero – ma, secondo l’interpretazione di Aristotele data dagli Arabi nel Medioevo, si tratta di un’intelligenza eterna, unica, coincidente con Dio e non con i singoli individui umani). Poiché queste “ragionevoli” dottrine aristoteliche confliggono con i dogmi della fede cristiana, Pomponazzi aderisce alla dottrina della “doppia verità” di Sigieri di Brabante (le verità di ragione e quelle di fede differiscono): anche se, messo alle strette, egli ammette di preferire, come cristiano, la verità di fede a quella di ragione (soluzione resa possibile dalla precisazione che le verità di ragione, attinte da Aristotele, sono solo più “verosimili” di quelle di fede, ma neppure esse sono assolutamente certe).
Il Rinascimento è caratterizzato anche da una tendenza, già annunciata embrionalmente nell’evoluzione della scienza in età ellenistica (a cominciare da Aristotele), oggi ormai ampiamente affermata: la tendenza alla progressiva autonomizzazione dei saperi, per cui chi si occupa di scienza della natura è autorizzato a ignorare la teologia o chi si occupa di scienza politica può ignorare non solo la fisica, ma anche l’etica.
In particolare Niccolò Machiavelli, rinnovando inconsapevolmente certe dottrine della tarda sofistica, riprese dagli storici Polibio, Livio e Tacito (ben noti a Machiavelli), nel celebre Principe (1513) insiste sulle qualità (anche immorali o a-morali) che deve avere un valido principe: forza e astuzia; capacità, se necessario, di ricorrere a frode e violenza; attitudine a farsi più temere che amare; il tutto all’insegna del principio: “il fine giustifica i mezzi”, dove il fine è la conservazione dello Stato.
Siamo ormai abituati a vedere nel Rinascimento la convergenza di atteggiamenti contrari: mistica e interesse per la natura, paganesimo e cristianesimo ecc. Sotto questo profilo convivono da un lato la sintesi platonizzante di Cusano, che sarà ripresa da Giordano Bruno, alla luce di un’idea di infinito in cui tutto è ricompreso, e, dall’altro lato, questa progressiva autonomizzazione delle scienze: niente di strano, se si pensa che, se tutto è in tutto, anche lo studio specialistico di un dettaglio della natura o della storia contiene in sé, in germe, ogni altra scienza, anche se in forma implicita.
Un’altra questione riguarda il rapporto con l’antichità. A poco a poco comincia a maturare un’idea che sarà fatta propria nei secoli successivi da chi risolverà la querelle des ancients e des modernes (disputa tra gli antichi e i moderni) a tutto vantaggio dei moderni: gli antichi ci hanno aiutato a uscire dalle nebbie del Medioevo, ma “noi” moderni saremmo “nani sulle spalle di giganti”, per riprendere un’immagine già adoperata dai mistici di Chartres nel XIII sec: gli antichi sarebbero stati, cioè, più “grandi” di noi quanto a intelligenza e profondità, ma noi, proprio grazie a loro, riusciremmo a guardare più lontano di loro.
Non va, infine, dimenticato che il Rinascimento è stato anche una fucina di “utopie” (cfr. questa puntata di Zettel su Rai Filosofia), ossia della costruzione di “città ideali”, a cominciare dall’Utopia di Thomas More per continuare con la Città del Sole di Tommaso Campanella, tutti “miti” civili che hanno nella Repubblica di Platone la loro radice e il loro paradigma fondativo.
Su Telesio e Campanella ecco una breve videolezione:
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