Il Rinascimento non è contraddistinto solo da un ritorno al principio (inteso sia come riscoperta dei classici, sia, soprattutto, come riscoperta del loro peculiare modo di rapportarsi all’arché, liberi da dogmi e altri condizionamenti culturali) di ispirazione neoplatonica, ma anche dalla rinascita di prospettive decisamente lontane da quella cristiana, difficilmente conciliabili con essa, come quelle degli antichi filosofi relativisti e materialisti.
Anche se forse inconsapevolmente in Niccolò Machiavelli, ad esempio, in particolare nel suo celebre Principe (1513), testo considerato per secoli “maledetto”, scritto all’indomani della restaurazione dei Medici a Firenze (dopo la lunga parentesi della repubblica, 1494-1512, seguita alla discesa di Carlo VIII in Italia), mentre tramontava la libertà italiana (sotto i colpi di Francesi, Spagnoli e “imperiali”), si avvertono gli echi di certe dottrine sofistiche, che facevano dell’utile piuttosto che del bene lo scopo della vita (e, in particolare, in sofisti come Protagora, ma anche Callicle e Trasimaco, lo scopo della vita politica).
Leggiamo qui e là nel Principe.
E' cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare di acquistare; e sempre, quando li uomini lo fanno che possano [quando possono farlo], saranno laudati, o non biasimati; ma quando non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è l'errore et il biasimo. Se Francia adunque posseva con le forze sua assaltare Napoli, doveva farlo; se non poteva, non doveva dividerlo [= divisarlo, deciderlo]. [Niccolò Machiavelli, Il Principe, Milano 1960, cap. III, § 11, pp. 23-24]
Già da questo passo si comprende l’importanza assegnata da Machiavelli (per la quale egli è divenuto celebre) al rapporto tra mezzi e fini. I fini (pensiamo non solo a fini come la vittoria in guerra, ma anche al trionfo dei più nobili ideali) non hanno valore se non si è in grado di mettere assieme i mezzi per conseguirli. Si tratta di quello che, riferito alla politica, si chiama comunemente realismo politico (o Realpolitik, nella versione adottata dalla Germania occidentale nel dopoguerra nei confronti dell’Est comunista).
Debbe dunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda. Et è di tanta virtù, che non solamente mantiene quelli che sono nati principi, ma molte volte fa li uomini di privata fortuna salire a quel grado; e per avverso si vede che, quando e’ principi hanno pensato più alle delicatezze che alle arme, hanno perso lo stato loro. E la prima cagione che ti fa perdere quello, è negligere questa arte; e la cagione che te lo fa acquistare, è lo essere professo di questa arte. [Ivi, cap. XIC, § 1, p. 62]
Qui Machiavelli non vuole tanto esaltare la guerra per amore della guerra (come faranno nel Novecento alcuni intellettuali sedotti esteticamente dalla guerra), quanto fondare la politica sull’esercizio della forza, praticato o anche solo minacciato. Sarà poi Thomas Hobbes, nel Seicento, a fondare la politica (il potere) sulla minaccia di morte. In generale possiamo considerare il “potere” come la capacità di indurre le persone a fare quello che non vogliono. E quale potere maggiore di quello che si fonda sulla minaccia di morte?
A tale dottrina, che, come detto, avrà largo seguito in età moderna, si possono, tuttavia, opporre alcune considerazioni. Anche il potere più “violento” (pensiamo al potere di un tiranno o di un dittatore, come Hitler) per potersi esercitare richiede anche nei “complici” di chi lo esercita (come, in generale, in tutti coloro che gli obbediscono) forme di fedeltà nei confronti del capo, in ultima analisi la credenza nel fatto che chi sembra avere il potere effettivamente ce l’abbia.
Pensiamo ad es. al celebre episodio dell’umiliazione di Canossa: nel 1077 l’imperatore Enrico IV fu costretto a chiedere perdono a papa Gregorio VII (che non disponeva di alcuna forza militare paragonabile a quella dell’imperatore) per ottenere il ritiro della scomunica che il papa gli aveva comminato e che aveva avuto per effetto la disobbedienza dei maggiori vassalli all’imperatore. Il potere di Enrico IV si basava non sulle armi ma sulla credenza (venuta meno con la scomunica) da parte dei suoi stessi uomini che il sovrano fosse degno del suo titolo.
Possiamo anche evocare una celebre vignetta con la quale la Democrazia Cristiana, nelle importanti elezioni del 1948, voleva dissuadere gli Italiani dal votare comunista, sebbene Stalin disponesse certamente di un esercito e il Papa (o Dio) invece no (cosa sulla quale, a quanto pare, Stalin stesso ironizzava).
Perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, minano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quindi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla, [Ivi, XXV, § 1]
Questo è il celebre passo in cui Machiavelli contrappone la “virtù” del principe (in senso antico: intesa come “capacità”, senza connotazioni morali) alla “fortuna”, intesa come caso. Lo sfondo di questa dottrina non è certamente l’idea cristiana (ma anche stoica e platonica) di Provvidenza, ma si direbbe, piuttosto, una concezione affine a quella degli antichi atomisti, come gli epicurei, secondo i quali il caso è determinante nelle vicende umane.
La natura de' popoli è varia; et è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa fare credere loro per forza. [Ivi, VI, § 2, p. 32]
Qui Machiavelli ribadisce la sua fiducia nella “forza”, ma la collega alla “persuasione”. Dunque la forza non è efficace tanto in quanto sia esercitata, ma solo in quanto sia minacciata, in modo da suscitare in chi la subisce la credenza nel valore di ciò che afferma chi la detiene.
Si ha notare che li uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere; perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono; sì che l'offesa che si fa all'uomo debbe essere in modo che non tema la vendetta. [Ivi, IX, § 1, p. 45]
Anche questo precetto è tutt’altro che “cristiano”. L’idea è che, se hai un nemico, o scendi a patti con lui (convenienti per entrambi) o lo distruggi. Le vie di mezzo sarebbero nocive. Il nemico, ferito, è più furioso e pericoloso di prima. Come negare la “saggezza” di questa considerazione? Certo, non bisogna “credere” nella non violenza, nei diritti dell’uomo ecc.
Il lione non si defende da' lacci, la golpe non si defende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. [Ivi, XVIII, § 3, p. 72]
Insomma il principe deve essere sia forte come un leone, sia astuto come una volpe. Ad esempio, chiarisce Machiavelli, egli, in quanto “volpe”, può non mantenere una promessa quando sono venute meno le sue ragioni o anche quando mantenerla causerebbe un danno maggiore che non mantenerla. E precisa:
E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi [cattivi] e non la osserverebbero a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro. [Ibidem, p. 73]
Si noti, in quest’ultimo passo, il rovesciamento della regola aurea, che risale a Pitagora e arriva fino a Immanuel Kant (fine XVIII sec.), secondo la quale, nella versione del Vangelo, non bisogna fare agli altri quello che non si vorrebbero che fosse fatto a te. Machiavelli suggerisce, invece, di anticipare il male che sicuramente gli altri vorranno farci infliggendolo loro per primi (sorta di teoria della “guerra preventiva” che ritroviamo anch’essa in Thomas Hobbes, sulla base dell’ipotesi che homo homini lupus e che sussista, in natura, un bellum omnium contra omnes, che legittima a priori ogni crudeltà).
Importanza decisiva, come per i sofisti, è assegnata da Machiavelli non a ciò che si è, ma al modo in cui si appare, come leggiamo in un altro passo:
A uno principe, dunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò dire questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero [integro moralmente], relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandano, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. Debbe adunque avere uno principe grande cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinioni di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda. [Ivi, XVIII, §§ 5-6. p. 73]
E tutto questo perché, come sappiamo, per Machiavelli il fine giustifica il mezzi. L’espressione non si trova alla lettera nel Principe o altrove, ma l’idea viene spesso affermata, come nel passo seguente:
Nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perche' el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo. [Ivi, XVIII, §6. p. 74 ]
Ma qual è il fine che, secondo Machiavelli, dovrebbe giustificare il ricorso a tutti i mezzi chi abbiamo finora evocato (simulazione, esercizio senza scrupoli di violenza e frode ecc.)? La libertà dell’Italia dai “barbari” (come li chiamava anche papa Giulio II, artefice, in quegli anni, della lega santa degli stati italiani contro la Francia), cioè dagli stranieri.
Si tratta forse del primo consapevole invito alla “redenzione” o riscatto dell’Italia dallo straniero.
Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che l’Italia, dopo tanto tempo, vegga un suo redentore. Né posso esprimere con quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbano? quali populi li negherebbano la obedienzia? quale invidia se li opporebbe? quale Italiano li negherebbe ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. [Ivi, XZVI, § 4. p. 105].