Apparentemente la proposta stoica, quale è esposta, p.e., da Epitteto è simile a quella epicurea. Per essere felici occorre essere “autosufficienti”, basare la propria vita solo su ciò che dipende da noi, senza preoccuparsi di ciò che ci può provenire da altri o da altro.
Tuttavia nella prospettiva stoica il quadro si allarga. Cambiando la cosmologia, cambia anche il senso dell’etica. Gli stoici, come Aristotele, infatti, non pensano che il mondo sia fatto a caso, ma che, concepito come un organismo guidato da una “ragione” cosmica, il Lògos di eraclitea memoria (che sarebbe stato “rilanciato” anche in ambito ebraico e cristiano), obbedisca a un preciso disegno (a un fine). In quest’orizzonte è “logico” che anche l’individuo debba darsi fini coerenti con i fini che l’universo stesso si dà e gli dà. Il fine di ogni cosa non siamo più noi (ciascuno di noi), dunque, ma è il bene universale (come per Socrate e Platone, che, tuttavia, lo limitavano alla “città” che abitavano, mentre gli stoici lo estendono al mondo intero). Il nostro dovere consiste nel fare ciò che realizza tale bene cosmico, mettendo a frutto i nostri talenti (piuttosto che rifugiandoci, come suggerirebbero gli epicurei, nella ricerca ossessiva del piacere, sia pure nella forma dell’assenza di dolore). L’esercizio della virtù non è, come per gli epicurei, un mezzo per conseguire l’imperturbabilità, ma un vero e proprio fine che, realizzando il nostro dovere, ci rendere felici e consegue il nostro bene (come se fossimo gli organi di quel più vasto organismo che è il cosmo).
L’etica di Epitteto e degli stoici in generale si basa, insomma, sul presupposto (fisica) del fatto che siamo parti di un tutto (il cosmo) razionale e provvidente. Ma su che cosa si basa tale ipotesi? L’osservazione mostra che esiste un ordine con una precisa finalità (l’alternanza provvidenziale delle stagioni, la disposizione degli organi del corpo animale, il ciclo delle acque ecc.), difficilmente compatibile con i presupposti dell’atomismo epicureo. Ciascun essere ha dunque la propria funzione, come l’organo di un organismo più grande. Gli animali la trovano per mezzo dell’istinto. L’uomo la trova grazie alla ragione, che non è altro che una scintilla nel corpo umano della ragione del cosmo stesso (Dio o la Provvidenza). Si noti che gli stoici, nonostante questo riferimento, restano materialisti perché pensano che la ragione stessa sia materiale, come gli epicurei credono che l’anima sia corporea.
La ragione permette al saggio di conoscere il proprio dovere senza lasciarsi ingannare dai sensi e dai desideri. Vero è che a volte l’istinto, quale si esprime in emozioni e desideri, suggerisce anche all’essere umano la cosa migliore da fare. Ma poiché non è sempre così, secondo gli stoici la cosa migliore da fare è affidarsi alla sola ragione, facoltà esclusivamente umana (oltre che divina). In tal modo il saggio può conseguire lo scopo dell’uomo che non è se non l’esercizio della sua virtù (intesa come la capacità di fare il proprio dovere che, a sua volta, coincide con quello per cui siamo nati, con la nostra funzione nell’ordine cosmico). Si tratta di preoccuparsi solo di ciò che dipende da noi (Epitteto), disinteressandosi di ciò che non dipende da noi. Se non ci si illude riguardo a ciò che non dipende da noi, non se ne potrà mai essere delusi. Il solo male può provenire da noi stessi. Se lo evitiamo, saremo felici, anche tra i più atroci tormenti (come Zenone nel toro di Falaride).
Da notare che gli stoici ricavano anche dalla loro fisica od ontologia (cioè dalla loro concezione della natura e dell’essere), in quanto contraddistinta da un’inflessibile necessità (in termini di relazioni “cogenti” causa-effetto) e, anche, da una concezione in ultima analisi individualistica e corporeistica del mondo (secondo la quale i singoli corpi viventi agiscono e patiscono reciprocamente sulla base dei loro fini individuali), oltre che un’etica, una caratteristica logica (anzi la prima logica a cui viene dato questo nome, dal momento che la logica p.e. di Aristotele, cronologicamente antecedente, non aveva ancora acquisito questa denominazione). Si tratta del “guscio” del cosmo (vedi immagine iniziale). Vi si esprime, infatti, come dice il termine stesso, non altro che l’eterno Lògos che lo guida e lo sorregge.