Come abbiamo visto, secondo Aristotele (come per Epicuro e molti filosofia antichi) il fine della vita e, dunque, il principio cardine dell’etica è la felicità.
Come essere felici? Gli epicurei e gli stoici rispondono sulla base della loro più generale psicologia, antropologia, cosmologia e ontologia.
Anche Aristotele risponde al quesito che egli stesso si pone, ma in modo più articolato di altri.
Egli osserva che ciò che ci distingue dagli (altri) animali sono le facoltà intellettuali (intelligenza, ragione ecc.). Dunque, – conclude – esercitando tali facoltà e trasformando il loro uso in vere e proprie “virtù” (cioè “disposizioni abituali non innate”, “seconda natura” frutto di esercizio), dovremmo poter realizzare la nostra “missione” sulla Terra, per così dire, la nostra “natura”, ciò per cui siamo nati, e, in questo modo, conseguire anche la più alta felicità.
Per poter conseguire la felicità attraverso l’esercizio puro della ragione (diànoia) l’uomo, secondo Aristotele, deve tuttavia assicurarsi di non subire i “contraccolpi”, per così dire, delle proprie passioni e dei loro effetti sugli altri, dal momento che l’uomo è definibile non solo come animale razionale, ma anche come animale politico.
Come molti filosofi greci Aristotele pensa che il bene dipenda dalla “misura” delle cose, in particolare dalla misura delle proprie passioni (metrio-patia, ossia “misurazione – metro – delle proprie passioni”). Questa dottrina è condivisa da Platone, mentre stoici, scettici ed epicurei puntano piuttosto all’apatia, alla totale soppressione delle passioni, fonte di turbamento.
La misura consiste nel trovare in giusto mezzo tra eccesso e difetto. Per esempio nessuno considererebbe coraggioso chi si gettasse tra le fiamme trovando la morte per salvare un topolino (sarebbe un “incosciente”), ma neppure chi fuggisse davanti allo stesso topolino, magari durante una missione di guerra (sarebbe un “vile”).
L’abitudine a coltivare il giusto mezzo tra estremi, grazie alla saggezza (virtù dianoetica), è una virtù etica (diversa a a seconda degli estremi in questione).
P. S. Platone e Aristotele distinguono il giusto mezzo “matematico“, eticamente irrilevante, dal giusto mezzo “razionale“. Se bere zero bottiglie di vino al giorno può essere anche poco, mentre bere 10 bottiglie è decisamente troppo, non si può certo considerare “razionale” la misura (“matematica”) di 5 bottiglie al giorno. Giusto mezzo razionale potrebbe essere un bicchiere al giorno (o poco più o poco meno a seconda della propria costituzione… MAI prima di mettersi al volante!). La cosa interessante è che il giusto mezzo “razionale”, nonostante la denominazione, non è “calcolabile”, ma va trovato con quello che oggi si chiamerebbe il “buon senso”.
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