- Hai sostenuto che la filosofia in senso proprio e pieno sarebbe solo quella classica. Ma perché la filosofia successiva non sarebbe tale in senso pieno?
La cosiddetta “filosofia” medioevale e moderna, in quanto raffinata espressione delle cosiddette humanae litterae, dai commentari tardo-antichi alle opere dei classici, attraverso le summae scolastiche, fino ai trattati moderni, si caratterizza soprattutto per la forma scritta, con la quale è stata esposta, discussa e tramandata. Sei d’accordo?
- Sì, e con questo?
Tale forma costituisce una sorta di immagine riflessa, secolare, dell’inarrivabile modello rappresentato per essa dalle Sacre Scritture.
- Sarà. E allora?
Vogliamo dirla tutta? Nulla di tutto quello che è stato prodotto in forma scritta merita il nome di filosofia in senso proprio o pieno.
- Oh bella. E perché?
Se la filosofia autentica è quella che ti consente di metterti in gioco e ha forti implicazioni “esistenziali”, come possiamo verificare che un libro, fosse pure “di filosofia”, riesca a tanto?
- Perchè no? Nel leggere Kant o San Tommaso qualcuno non potrebbe sentirsi chiamato a rendere ragione del modo in cui vive?
Può succcedere, certo, ma anche no. Il testo non si rivolge a te personalmente, non esercita su di te l’arte maieutica, ossia quella che consiste nel farti “partorire” la verità a partire dalla tua visione del mondo. Sotto questo profilo, i testi “filosofici” sono del tutto equivalenti, oltre che ad altri testi letterari o poetici, alle opere d’arte figurative.
- Forse, però, l’esperienza filo-sofica l’ha fatta anche l’autore di un libro di filosofia (ad esempio Kant). Altrimenti come sarebbe riuscito a scriverlo?
Ma anche questa resta un’ipotesi incontrollabile. Per quel che ne sappiamo l’autore potrebbe essere (stato) un “erudito” (o, più modernamente, un “professore”) che riferisce pensieri di altri. Quella, insomma, che non è documentata in età post-classica è una specifica tradizione filosofica (non, dunque, letteraria, artistica, musicale o, genericamente, “culturale”), attraverso la quale si siano potute suscitare controllabili “esperienze di verità”, per via maieutica, di maestro in discepolo, dialogicamente. Nel caso di Kant o San Tommaso, l'”esperienza di verità”, se si produce, riguarda soltanto colui o colei che la compie, o in quanto autore o lettore/fruitore di questo o quel testo od opera d’arte, ma non dipende da qualcosa come una tradizione.
- Come sarebbe «Non dipende da qualcosa come una tradizione»? Non si parla di appunto “tradizione filosofica” per quanto riguarda l’insieme dei “classici” della filosofia, da Platone a Heidegger e oltre?
Se per “tradizione filosofica” intendi la documentazione per iscritto di (presunti) processi di pensiero e se definiamo il pensiero, ancora con Platone, come «dialogo dell’anima con se stessa» (Platone, Teeteto, 189e; Sofista, 263e), un pensiero, capace di svilupparsi coerentemente in azioni e di venire perciò testimoniato dallo stile di vita del pensatore, i testi della cosiddetta “tradizione” filosofica possono essere considerati poco più che tracce di filosofia; utili forse per fare ciò che all’università si sa fare meglio, storia della filosofia, ma non filosofia.
Non bisogna confondere la tradizione filosofica classica con la letteratura che, in ogni tempo, ha trattato argomenti filosofici o, nei casi migliori, come in quello dei Dialoghi platonici, ha imitato la forma orale dell’esercizio filosofico. Tale letteratura differisce da qualcosa di vivo anche per un’altra ragione: essa non è affatto qualcosa che si sviluppa nel tempo (nella “Storia”) in modo più o meno logico o sensato (come è, viceversa, il caso della visione del mondo di una “persona” in carne e ossa), nonostante quello che ne possano avere sostenuto i vari “filosofi della storia” à la Hegel. Da tale approccio “storicistico”, che ipostatizza ideologicamente il divenire storico, non è stato esente neppure Heidegger e non lo è nessuno di coloro che, quando parlano, usano espressioni della serie: «Oggi, dopo questo e quest’altro “ismo”, dopo la fine della metafisica ecc., non si può più parlare di questo e quello in questo modo “vecchio” o “superato”, ma bisogna ormai riconoscere che ecc.».
Ogni vera tradizione è una trasmissione di esperienze che avviene direttamente, per via orale e, soprattutto, attraverso l’esempio. Nel caso della filosofia la tradizione autentica può essere soltanto quella di un’esperienza di verità (il traditum), documentata dalla vita dei maestri e trasmessa ai discepoli attraverso il dialogo e altri esercizi maieutici equivalenti, all’interno di una determinata “scuola” filosofica. In altre parole, si ha (autentica) tradizione filosofica se e quando filosofica è la pratica stessa attraverso la quale l’esperienza di verità, non solo viene vissuta dal singolo, ma anche e soprattutto passa di “persona” in “persona”.
- Ma questo genere di “tradizione” è attestato solo per il mondo antico, se non erro…
Esatto! Ecco perché è così difficile allontanarci dal mondo antico! Forse una tradizione simile si registra in Oriente (tra gli hindu, i buddhisti o i taoisti). Forse, sotto altro nome, qualcosa del genere si verifica all’interno delle chiese o di altre comunità “spirituali” dell’Occidente (penso ai seguaci dell’antroposofia di Steiner o a certe comunità new age…). Certamente, nulla di tutto questo si verifica nelle nostre università. E da secoli!
- Allora nelle nostre università non si farebbe filosofia?
Non essenzialmente, Accidentalmente forse, come ovunque (al parco, nel rifugio alpino…). E non necessariamente nei dipartimenti di filosofia.
- Allora Kant o Heidegger non sarebbero filosofi?
Alcuni di costoro saranno stati, verosimilmente, non solo eruditi, ma anche filosofi a tutto tondo; avranno, cioè, messo in pratica, nella loro vita, ciò che hanno pensato e scritto, testimoniando di ciò di cui scrivevano…Chi può dirlo? Quello che è certo è che, se sono stati filosofi in questo senso pieno, ciò non può essere dipeso dall’aver ricevuto una formazione in tal senso all’interno di una vera e propria “scuola” filosofica. Tale, infatti, non può essere considerata l’università, poiché l’università, istituzionalmente, non ha mai avuto, da quanto è sorta, né, del resto, mai preteso di avere, la medesima funzione di un’antica scuola di filosofia.
- Su questo non posso essere d’accordo! Se un docente o uno studente universitario studia filosofia, magari in modo appassionato («studere», in latino, non significa forse «amare», «appassionarsi», «avere zelo per qualcosa»?), sicuramente ne trarrà nutrimento spirituale, anche se lo strumento prevalente, ma non esclusivo, per il suo studio è dato da libri scritti, piuttosto che da dialoghi orali. La stessa scelta del corso di laurea, che promette ben poco dal punto di vista economico, non è, salvo eccezioni, indice di un vivo interesse per questa disciplina?
Non metto in dubbio la buona fede e la buona volontà di molti. Ma la questione è epistemologica o, se vogliamo, ontologica, prima che etica o politica. Riguarda, cioè, l’essenza della filosofia e il suo modo di esperire.
- Vale a dire?
Nelle nostre accademie mancano due ingredienti fondamentali di ciò che, grazie a Platone, abbiamo riconosciuto come propri dell’autentica filosofia.
- A che cosa ti riferisci?
Uno l’abbiamo appena isolato. Un ingrediente è il dialogo in senso proprio e filosofico, come attività maieutica che consenta la trasmissione di “esperienze di verità” di maestro in discepolo. All’università (o a scuola) se ne possono registrare frammenti (soprattutto nei seminari universitari e nei laboratori scolastici), ma la logica di fondo resta strategica, non filosofica: si ragiona in termini di obiettivi da raggiungere, ancora prevalentemente nozionistici (da verificare in sede di “esame”); se vengono coltivate le cosiddette “competenze”, lo si fa guardando alla loro spendibilità sul mercato; non, se non accidentalmente, al loro valore come “capacità” da investire nella ricerca della verità, a tutto tondo (una verità esistenziale, cioè, non meramente formale), come esigerebbe un approccio genuinamente filosofico. Tutti fini legittimi, intendiamoci, all’interno di una moderna organizzazione del sapere come strumento economico, ma poco o punto filosofici.
- E il secondo ingrediente che mancherebbe alla filosofia moderna?
È legato al primo. La virtù. Se manca un autentico dialogo, manca un’autentica ricerca di verità, felicità e bene. Se manca questa, è difficile che una persona sviluppi un’adeguata maturazione intellettuale e morale, come si richiederebbe per esercitare al meglio la filosofia (in una feconda circolarità tra theorìa e pràxis). I massimi filosofi della modernità si sono potuti comportare in modo del tutto incoerente con le proprie concezioni, senza per questo che, almeno nella communis opinio, ne fosse diminuita l’importanza come “pensatori”.
- Mi puoi fare qualche esempio?
Certo. Prendi il caso di Francesco Bacone. l’iniziatore, per molti aspetti, della via moderna alla filosofia. Guardasigilli del Regno d’Inghilterra sotto Giacomo I (agli inizi del Seicento), Bacone, a cui è attribuita la celebre massima (che evoca illustri precedenti sofistici): sapere è potere, fu condannato per corruzione!
Più precisamente Bacone ha scritto: «Le vie che portano alla scienza e alla potenza umana [sono] strettamente legate e quasi identiche» (cfr. Francesco Bacone, La grande instaurazione, Novum Organum (1620), II, 3, tr. it. in Scritti filosofici, Utet, Torino 1975, p. 641).
Oppure prendi il caso di Rousseau che, nella seconda metà del Settecento, scrisse l’Émile, un classico della pedagogia di ogni tempo, e abbandonò i propri figli in orfanotrofio. O il caso dei comportamenti poco edificanti di “filosofi” accademici del primo Ottocento, tra cui Schelling, Hegel o perfino Schopenhauer.
- Perché? Che cosa combinarono costoro?
Negli scambi epistolari di Schelling e Hegel tra loro e con altri emerge talora il reciproco livore, in particolare quello di Schelling che accusava Hegel quasi di plagio, di «mangiare del suo pane» (cfr. Aus Schellings Leben. In Briefen, Lipsia, 1870, vol. III, p. 165). Un livore ancora maggiore tanto verso Schelling, quanto, soprattutto, verso Hegel (un «calibano» della filosofia) lo mostra, paradossalmente, Schopenhauer, uno dei più significativi sostenitori moderni di un ritorno a un’antica (e orientale) idea di filo-sofia come ricerca della saggezza (cfr. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1844), II voll, tr. it. Laterza, Bari 1986, Proemio alla seconda edizione, vol I, p. 15). Più recentemente, come saprai, è sorta una querelle sull’adesione al nazismo di Martin Heidegger, considerato da molti il massimo “filosofo” del Novecento (cfr. Victor Farias, Heidegger e il nazismo (1987), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1988).
- Non stai cadendo nel moralismo? Un bravo “filosofo” accademico non potrebbe limitarsi a pensare bene? Perché dovrebbe anche agire bene?
Puoi permetterti di escludere quest’esigenza, perché sei figlio, come noi tutti, di un’epoca in cui si scinde il sapere dall’agire, la verità dal bene. Ma la filosofia, in Socrate, dunque originariamente, si interroga incessantemente proprio sulla coerenza tra pensiero e vita. Ora, come sappiamo, è documentato che solo nel mondo antico si è tentato sistematicamente di esercitare la filosofia nel senso pieno che intendiamo ora.
- E questo, secondo te, non avverrebbe nelle nostre università?
Direi proprio di no. E anche ciò se accadesse, sarebbe, come detto, accidentale, casuale. Non vi è nessun obbligo formale specifico, neppure per un docente di etica, di agire secondo quello che egli pensa e che insegna. Obblighi del genere sarebbero percepiti, per certi aspetti giustamente, come indebite violazioni della sfera privata.
Sotto questo profilo il moderno “filosofo” accademico, come direbbe Epitteto (cfr. Manuale, 46, 49, 51 e 52), è piuttosto un grammatico (cioè qualcuno in grado di spiegare un testo filosofico) che un filosofo, ossia qualcuno non solo in grado di imparare determinati principi, ma di tradurli nel vivere quotidiano.
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