Se Platone ha ragione la conoscenza filosofica dipenderebbe da atti intuitivi di intellezione (non di dimostrazione) che sarebbero compiuti dalla mente, in quanto intelletto o intelligenza (noûs), non soltanto ragione (diànoia, lògos).
Per comprendere la differenza tra esercizio della ragione ed esercizio dell’intelligenza (o dell’intuizione intellettuale) si può fare l’esempio della proporzione: 2:3=6:x. Il valore dell’incognita (9) può essere ricavato razionalmente (o dianoeticamente), calcolandolo (moltiplico i due termini medi e li divido per l’estremo) – ratio (ragione) in latino significa anche calcolo – oppure, noeticamente, intuitivamente, cogliendo immediatamente la proporzione e, quindi, il termine mancante.
Se, in ultima analisi, ogni “cosa” (ogni “idea”) sfugge a definizioni che non si rivelino aporetiche (insoddisfacenti) e richiede di essere colta con un atto di intelligenza, ciò vale, a maggior ragione, per il principio di tutte le cose (l’arché).
In generale tutti gli autori che appartengono alla tradizione platonica, a differenza di chi si ispira piuttosto ad Aristotele, preferiscono evitare di definire il Principio (Dio) in qualche modo (p.e. come l’essere assoluto o il Motore immobile ecc.), perché sono consapevoli dell’insufficienza del linguaggio ad esprimere l’Assoluto e del rischio che ogni “definizione”, riferita al Principio (p.e. quella che lo definisce come qualcosa che è o come causa prima ecc.), si riveli contraddittoria.
Questa tradizione preferisce definire apofaticamente, cioè negativamente, il Principio come qualcosa di inesprimibile, al di là dell’essere e della conoscenza (teologia negativa).
Già Platone, nella Repubblica, aveva definito l’idea suprema, l’idea del Bene, come qualcosa oltre l’essere e la conoscenza.
Se il Principio è oltre la nostra comprensione e, quasi, “non è” (è oltre lo stesso essere), come possiamo raggiungerlo? E, poi, perché cercarlo?
Presupposto della possibilità di conoscere il Principio è che noi stessi eravamo il Principio e possiamo ritornare ad esserlo (per questo lo amiamo, raggiungerlo è come tornare a casa). Come il simile si conosce attraverso il simile (noi diciamo: per analogia), così l’identico si conosce attraverso l’identico. Senza principio nulla sarebbe, neppure noi stessi. Noi ne veniamo, ne deriviamo. Dunque, eravamo in esso, eravamo in Lui, eravamo Lui.
Ecco perché, se ci separiamo da quanto i sensi prima e poi la stessa ragione ci propongono (in ultima analisi tutto si riduce a un coacervo di opinioni e ipotesi che formuliamo per il fatto di abitare un corpo, sorta di “filtro” che ci separa dalla nostra vera identità), possiamo arrivare alla verità. In effetti non ce ne siamo mai allontanati. Come dice Plotino: le abbiamo solo “voltato le spalle”. Prendendo a prestito un’immagine della tradizione buddhista: non si tratta di guardare chissà dove con telescopi o microscopi, ma semplicemente di ripulire dalle incrostazioni la superficie dello specchio in cui riflettiamo la nostra stessa immagine.
Come argomentare una simile tesi?
Partiamo da una considerazione. Come Platone argomenta in vari luoghi, soprattutto nel dialogo Menone, conoscere è sempre ricordare, e per questo è un ri-conoscere. Pensiamo a qualunque cosa conosciamo. Vediamo un cane e sappiamo che è un cane, perché lo riconosciamo come tale. Ci deve essere stata una prima volta nella quale qualcuno, magari nostro padre, ci disse che “Fido” era un cane. I cani che abbiamo incontrato successivamente li abbiamo ri-conosciuti perché, oscuramente, ci ricordavano quel “primo” cane. Ma è andata proprio così? In effetti i cani che abbiamo visto dopo Fido erano simili a Fido, non identici. Ciò che ci ha permesso di riconoscerli come tali, più che il ricordo di Fido, è stato, dunque, il ricordo, per così dire, dell'”idea” di cane, di cui Fido era un’immagine. La cosa è ancora più chiara nel caso di “oggetti” invisibili, come punti, rette, triangoli, o come l’infinito e la libertà. Sappiamo perfettamente che cosa sono eppure non possiamo davvero averli mai visti (con gli occhi del corpo). Come ne riconosciamo p.e. le proprietà? L’ipotesi di Platone (come argomenta Socrate nel dialogo Menone facendo dimostrare a uno schiavo ignorantissimo il teorema della duplicazione del quadrato) è che noi ci “ricordiamo” (teoria dell’anamnesi, cioè della reminiscenza) di qualcosa che dobbiamo aver “veduto” (con gli occhi dell’anima, cioè con l’intelligenza) prima di nascere. Oltre che un’ennesima prova dell’immortalità dell’anima, la teoria dell’anamnesi implica che noi proveniamo da un mondo ideale, nel quale vedevamo, per così dire, con i nostri occhi tutte le idee e la loro sorgente, il Principio. Altrimenti ora non sapremmo comprendere il significato di parole come “punto”, “infinito”, “verità” ecc. In un certo senso noi stessi, dunque, eravamo il Principio, ne partecipavamo direttamente, prima di “cadere” nel mondo sensibile.
Ma come si fa ritornare ad “essere” il Principio? Nella sintesi elaborata dal tardo platonismo (generalmente denominato “neoplatonismo”), il cui massimo rappresentante può essere considerato il filosofo Plotino (III sec. d. C.), se siamo già il principio, ma ce ne siamo dimenticati (“gli abbiamo voltato le spalle”), si tratta di liberarsi o purificarsi, prima dal nostro legame con il mondo corporeo (i sensi), quindi dalla nostra stessa ragione, per favorire la reminiscenza (anamnesi) della verità in noi (una verità al di là della contraddizione).
Il primo movimento corrisponde all’esercizio della filosofia come matematica, di origine pitagorica: quando sviluppo un teorema o risolvo un’equazione sono, in un certo senso, il teorema e l’equazione, perché non esiste altro in me se non questo contenuto “eterno”.
Dal punto di vista neoplatonico sono non più un’anima che muove un corpo (frammento dell’anima del mondo, cioè il principio motore del mondo sensibile), ma pura intelligenza, non distinto da ogni altra intelligenza.
Il secondo movimento consiste nell’andare oltre, per mezzo della dialettica, alla stessa matematica: niente di ciò che suppongo (nessuna delle mie ipotesi) può essere il fondamento, il principio, perché ogni ipotesi e ogni teorema che ne consegue genera paradossi (antinomia). Questo esercizio dovrebbe liberarmi dalla stessa ragione e farmi andare oltre la stessa intelligenza, per cogliere alla fine l’Uno, non con l’intelligenza, ma con il mio stesso essere tutt’uno con l’Uno.
Ecco un’antologia ordinata di passi tratti dalle Enneadi di Plotino che mostra come l’anima possa riconoscersi per gradi tutt’uno col Principio.
Per un approfondimento, relativo alla via per raggiungere il Principio suggerita da Plotino, cfr. il seguente saggio.
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