In generale, la filosofia sorge perché sorgono dubbi su quello a cui prima si credeva ciecamente.
Tradizionalmente queste credenze nel mondo pre-greco (ad esempio presso gli Egizi, i Babilonesi, gli antichi Ebrei etc.) erano espresse dalla religione di appartenenza e si traducevano in prescrizioni morali che rendevano superflua la ricerca della saggezza o del bene (in quanto il bene era dato per noto, oggetto spesso di rivelazione o, meglio, richiesta divina).
Non è forse un caso che i primi dubbi sulle risposte di tipo religioso sorgano proprio sulle coste greche dell’Asia Minore, come documenta questo celebre frammento di Senofane di Colofone:
Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto quello che per gli uomini è oggetto di vergogna e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi. [...] I mortali credono che gli dei siano nati e che abbiano abito, linguaggio e aspetto come loro. [...] Gli Etiopi credono che (gli dei) siano camusi e neri, i Traci, che abbiano occhi azzurri e capelli rossi [...] ma se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e sapessero disegnare… i cavalli disegnerebbero gli dei simili a cavalli e i buoi gli dei simili a buoi [...] [fr. 11-15, DK]
Ecco forse perché Platone e Aristotele concordano nell’affermare che la filosofia nasce dalla meraviglia, cioè dallo stupore davanti a cose che altri (popoli, individui) considerano ovvie e di cui credono di avere la spiegazione.
L'essere pieno di meravíglia è proprio del filosofo. Sì, il principio della filosofia non è altro che questo, e chi ha detto che Iride è figlia di Taumante ["thaumazein" = meravigliarsi] non mi pare abbia sbagliato genealogia. [Platone, Teeteto, 155d]
Gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo. [Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b12-15]
Questo spiega forse come mai la filosofia sia sorta in Grecia, in un’epoca di grande confusione, di traffici, di crisi, di trasformazioni; e non ad esempio presso gli Egizi, gli Ebrei, i Sumeri ecc., popoli presso i quali vigevano leggi e tradizioni molto forti, legate alle rispettive religioni e ai rispettivi riti e miti, di cui nessuno si sognava di dubitare.
Possiamo considerare, circa la questione dell’emergere della filosofia dal mito a partire dalla meraviglia che, tipicamente, i Greci iniziarono a provare (intesa anche come sgomento, dubbio radicale, ansia di verità mai prima provata), l’interpretazione che ne offre Emanuele Severino. Secondo Severino la filosofia comincia a ricercare la verità (la sophìa, intesa come il saphés, ciò che è in luce, trasparente, chiaro) allorché il mito non è più giudicato convincente, cioè, nelle parole di Severino, non costituisce più un “rimedio” adeguato all’angoscia che ci deriva dal dolore e dalla morte.
Altri, come Dario Berti, si discostano da questa lettura esaminando con attenzione il contesto in cui Aristotele enuncia la celebre ipotesi secondo la quale la filosofia scaturirebbe dalla meraviglia (“thàuma“, che Severino interpreta come sgomento, angoscia davanti alla morte ecc., mentre, sulla base del testo aristotelico, sembra più riferirsi alla curiosità suscitata da fenomeni strani e inusitati).
Potremmo quindi iniziare il nostro percorso dai primi che, meravigliandosi di qualcosa che altri consideravano ovvia, iniziarono a chiedersi “Che cos’è?“, i cosiddetti pre-socratici.
Tuttavia, vi sono ottime ragioni (come la stessa denominazione “pre-socratici” suggerisce) per accedere al “filosofare” non da una porta di servizio, ma dall’ingresso principale, prendendo a modello e paradigma, soprattutto dal punto di vista metodologico (come, del resto, fu fatto per secoli), il primo “personaggio” universalmente noto come filosofo, anzi “il filosofo” per antonomasia, Socrate d’Atene (nell’interpretazione che ne ha offerto il suo discepolo Platone, il primo autore di cui ci rimangono tutti gli scritti), non senza seguire, per alcuni aspetti, le indicazioni di colui che ancora Dante, nel Medioevo, chiamava “il maestro di color che sanno” (Inferno, IV, v. 131), ossia Aristotele di Stagira (a sua volta discepolo di Platone).
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