Stai partecipando a un concorso per poter esercitare una professione per la quale ti senti preparato/a. Alla fine, però, il concorso lo vince un tuo amico che non meritava di vincere e che tu sai che è stato “raccomandato” (cioè ha ottenuto di poter svolgere quel lavoro ingiustamente, al posto tuo, influenzando o, magari, “corrompendo” i commissari d’esame). Questo amico, conosciuto il risultato, comincia a prenderti in giro, facendo della pesante ironia sulla tua presunta incapacità e vantando il suo risultato.
Se tu volessi essere “stoico/a” (cioè seguire ad esempio l’insegnamento che il filosofo Epitteto espone nel suo celebre Manuale o in questa antologia tratta da esso)…
1. A chi o a che cosa dare la responsabilità di quanto accaduto?
Secondo Epitteto la responsabilità delle offese subite non va data a nessuno, almeno se si è pienamente filosofi. Per quale ragione? Perché ciò che accade dipende dal destino, in ultima analisi, almeno in prospettiva stoica. In questo senso la responsabilità, se proprio la si vuole attribuire a qualcuno, la si può attribuire alle “circostanze”. Ma perché non si può francamente accusare coloro che ci offendono, se agiscono male? Per comprenderlo occorre rispondere agli altri quesiti.
2. Se qualcuno si comporta male con te come dovresti giudicarlo?
In realtà, non dovresti giudicarlo affatto, perché non sai mai fino in fondo se gli altri agiscono male e, anche nel caso che agiscano effettivamente male, devi comprendere che dal loro punto vista ciò che fanno appare loro necessariamente bene (altrimenti non si comporterebbero così).
Sotto questo profilo vige, dunque, per gli stoici l’intellettualismo etico già sostenuto da Socrate.
3. Che stato d’animo dovresti mantenere?
Dovresti mantenere tranquillità e serenità (l’imperturbabilità e l’indifferenza), evitando di arrabbiarti e, in generale, evitando di provare passioni che non ti aiuterebbero a trarre vantaggio dalla situazione, ma aumenterebbero solo la tua infelicità.
4. Che genere di considerazioni dovresti fare per mantenere questo stato d’animo?
La considerazione principale, che si ricava da quanto Epitteto sostiene a più riprese, è questa: non dovresti arrabbiarti perché ciò che è accaduto non è dipeso da te. Inoltre, se chi ha agito come ha agito ha effettivamente sbagliato, il danno è soltanto suo (altrimenti, se avesse agito davvero nel modo migliore per lui, non vi sarebbe alcun modo di persuaderlo del suo errore e, a maggior ragione, non avresti da recriminare, se non per il fatto di non avere previsto per tempo quello che sarebbe potuto accadere). Si può anche aggiungere, che dovresti comunque, in generale, almeno nella prospettiva degli stoici, cercare di restare razionale, evitando di lasciarti condizionare dall’emotività.
5. Che cosa dovresti cercare di provare per il tuo amico?
Come si diceva, non rabbia piuttosto: indifferenza, noncuranza, comprensione.
Si noti che l’espressione “indifferenza” riferita al comportamento di chi non si lascia toccare dagli eventi deriva proprio dalla filosofia stoica, che insegna a non fare appunto differenze tra le cose che non dipendono da noi (in particolare a non distinguere tra cose buone e cattive, per non farsi condizionare dagli eventi, imparando ad accettare ogni cosa).
Ma puoi anche provare pietà, compassione o perfino amore per il tuo amico, disponendoti ad aiutarlo.
6. Che comportamento dovresti tenere con lui?
Non si tratta di essere accondiscendenti. Dovresti forse “lasciare correre” tutto e porgere sempre “l’altra guancia”? Nient’affatto. Non puoi certamente modificare il passato (lamentarsi e recriminare, sotto questo profilo, è inutile), ma puoi fare del tuo meglio per rendere migliori il presente e il futuro, sia per te che per il tuo amico.Una volta che tu l’abbia convinto del suo errore, gli potrai insegnare che cosa potrà fare di buono in futuro.
7. Che insegnamento potresti ricevere da tutta questa vicenda?
L’insegnamento fondamentale, nonostante le divergenze tra la prospettiva stoica e quella epicurea, è simile a quello che si ricava dalla Lettera a Meneceo di Epicuro: si tratta di un invito a non lasciarsi condizionare da ciò che non dipende da noi, evitando di sviluppare appunto dipendenze che avrebbero il solo effetto di esporci alla sofferenza e cercando, piuttosto, di esercitare in ogni situazione il massimo di “razionalità” di cui siamo capaci.
Epitteto ci invita, dunque, in primo luogo, a distinguere tra le “cose che dipendono da noi” e le “cose che non dipendono da noi”. Noi dobbiamo occuparci solo delle prime, perché le seconde sono nelle mani del “fato” (concepito come provvidenza, non come fortuna: dunque come qualcosa di cui dobbiamo presupporre la razionalità, qualunque cosa esso ci proponga). Dipendono da noi fondamentalmente opinioni, desideri, avversioni ecc., ossia ciò che si trova nella nostra anima (o mente).
Secondo Epitteto, inoltre, se il “non filosofo” tende a giudicare e condannare gli altri, il filosofo non giudica e non condanna mai nessuno, ma cerca di comprendere. A uno stadio intermedio il “mezzo filosofo” può giudicare e rimproverare se stesso, per non essere stato abbastanza saggio da tollerare i gesti di altri (o da non illudersi sul loro conto). Ma più dei rimproveri e dei sensi di colpa, fondati sull’emotività (cfr. la critica di Epicuro alla “paura degli dèi”), bisognerebbe esercitare serenamente la ragione: comprendere le ragioni del proprio errore in modo tale da evitare di ricadervi in futuro. È questo l’obiettivo fondamentale dell’esame di coscienza praticato da Seneca, per esempio.
Infine, Epitteto insiste molto su un punto, che sta a cuore a tutti i filosofi antichi: è importante non tanto comprendere questo o quel filosofo, saperlo ripetere, interpretare; neppure importa escogitare nuovi pensieri e nuove proposte filosofiche, magari allo scopo di diventare famosi; quello che veramente importa, una volta che si è compresa una filosofia (anche molto vecchia) e che se ne condividono le dottrine, è applicarla alla propria vita, per essere migliori o per essere felici o per entrambi gli scopi.
Il che ci porta a una riflessione più generale sulla filosofia, in senso antico e originario, che va intesa non come esercizio di pensiero fine a se stesso, ma come pratica destinata a trasformare la vita stessa di chi la esercita. Come tale, la filosofia in senso antico appare del tutto simile a una religione (infatti, il pensiero corre a paragoni come quello con la “vita cristiana” o la vita di un seguace del buddhismo ecc.). La differenza dovrebbe consistere nel fatto che una vita filosofica, come dicono gli stoici, dovrebbe svolgersi secondo ragione (o secondo natura) mentre la vita religiosa si basa sulla fede in qualcuno o qualcosa.
Perché queste indicazioni non potrebbero valere anche oggi?
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