Come abbiamo visto, presupposto della possibilità di conoscere il Principio è che noi stessi eravamo il Principio e possiamo ritornare a esserlo (per questo lo amiamo, raggiungerlo è come tornare a casa). Come il simile si conosce attraverso il simile (noi diciamo: per analogia), così l’identico si conosce attraverso l’identico. Senza principio nulla sarebbe, neppure noi stessi. Noi ne veniamo, ne deriviamo. Dunque, eravamo in esso, eravamo in Lui, eravamo Lui.
Ma come ci si sente quando ci manca ciò che noi stessi eravamo, ciò da cui veniamo (pensiamo al rapporto tra un figlio e sua madre, del cui corpo egli è fatto e da cui proviene)? Che cosa si prova? Si prova de-siderio, nostalgia, amore.
Attraverso l’amore, dunque, “conosciamo”, in un certo senso, il Principio, come non sarebbe possibile attraverso la ragione. Se potessimo conoscere fino in fondo il principio – e lo potremmo conoscere solo essendolo – avremmo la sapienza (in greco: sophìa), ne potremmo derivare tutte le idee e tutte le cose, non come ipotesi, ma come teoremi. Poiché non l’abbiamo, la desideriamo. Desideriamo, amiamo quella sapienza che ci sfugge. Ma questo amore della sapienza non è che la filo-sofia, che appunto significa amore della sapienza. La filosofia è, quindi, ricerca della verità (del Principio, della sapienza), che cesserebbe di essere tale (cioè ricerca) sia che il Principio non fosse niente (perché, allora, cercarlo?), sia che fosse qualcosa di definibile una volta per sempre (una volta definito, la ricerca non avrebbe più motivo di essere). Le aporie in cui sfocia ogni tentativo di comprenderlo razionalmente alimentano la ricerca inesauribile, accendono l’amore della conoscenza, che perviene sempre solo a traguardi provvisori (le ipotesi della “scienza”, le scommesse delle fede).
Ma come ci “ricordiamo” della nostra origine, di “essere”, in un certo senso, il principio stesso di ogni cosa, dimentico di esserlo? Appunto grazie all’amore.
Il rapporto tra amore (èros) e reminiscenza, suscitata dal bello sensibile, è esplicito in un celebre testo del Fedro platonico [spec. pp. 9-11].
Quando ci innamoriamo, proviamo una sorta di «delirio» che non può essere spiegato soltanto dal nostro desiderio di riprodurci o, meno che mai, di provare piacere sessuale (quel godimento che, nelle parole del filosofo stoico Marco Aurelio, deriverebbe dallo “sfregamento di due budellini”).
Nella prospettiva platonica la bellezza di colui o colei di cui ci innamoriamo (o, in altri casi, di un’opera d’arte o dell’ordine politico di una città ben governata ecc.) è segno della bellezza e dell’ordine del mondo ideale da cui proveniamo. Quello che proviamo è, dunque, nostalgia del luogo da cui veniamo.
A riprova di tanto, si può considerare come spesso nella relazione amorosa effettiva non si resti nella stessa condizione dell’innamoramento iniziale. Il rapporto deve trasformarsi, per sopravvivere, e ciascuno dei due partner deve abituarsi ad accettare e ad amare anche le imperfezioni dell’altro, che inizialmente non voleva o non sapeva vedere. Ma che cosa vedemmo prima di venire in un certo senso “delusi”? Si trattava solo di un’illusione? Nella prospettiva platonica l’altro era per noi un’icona del bello assoluto, un’immagine divina. Se un’immagine non può certo essere uguale a ciò che rappresenta, non per questo l’idea che essa fa balenare, anche solo per un attimo, è falsa.
Può essere qui il caso di distinguere l’amore di cui parla Platone, èros, dall’amore in senso cristiano, agàpe o caritas. Il primo ricerca ciò che è bello e perfetto, il secondo, viceversa, si abbassa verso ciò che è più umile e povero.
Tuttavia, come suggerisce p.e. il papa Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est, le due forme di amore non vanno neppure contrapposte. Basti considerare che Cristo ci invita ad amare nell’ultimo dei fratelli Lui stesso (come dire: nel diffondersi dell’amore generativo di Dio dal principio a ogni cosa nel più umile frammento dell’essere può essere suscitata una luce divina, sicché amare ciò che è umile mediante l’agàpe non è che suscitarne il nascosto volto divino, oggetto di èros).
L’amore, insomma, esprime la mancanza di qualcosa che non sapremmo descrivere a parole, a riprova dell’inesprimibilità del principio, dell’origine da cui proveniamo, quel “bene” assoluto che, nella metafora solare, veduto, acceca.
Nel Simposio Platone presenta, in primo luogo, facendo parlare i diversi convitati, vari modi in cui i Greci, comunemente, potevano intendere l’amore (èros).
N.B. In generale i Greci, a differenza di molti di noi, non hanno pregiudizi contro l’amore omosessuale, specialmente tra maschi, perché ritengono che esso aiuti a consolidare il legami tra i soldati in battaglia e, quindi, per estensione, tra i cittadini. In ogni caso il discorso di Platone resta valido anche per gli eterosessuali del nostro tempo se viene riferito a forme di intensa amicizia.
I Greci (come poi Dante, gli stilnovisti e, per certi aspetti, i teorici dell’amor cortese del Medio Evo) sono portati a pensare che l’amore nobiliti chi lo prova, inducendolo a dare anche la propria vita per l’amato (cfr. discorsi di Fedro e Agatone).
Alcuni Greci, inoltre, intuiscono come tutto il cosmo possa essere considerato “legato” con legami d’amore (i nostri “campi” di forze) (cfr. discorso del medico Erissìmaco).
Il comico Aristofane, invece, racconta un mito che ha avuto fortuna: quello dell’androgino o ermafrodito. Si tratta della forma che gli uomini avrebbero avuto originariamente, da cui saremmo derivati noi come risultato di una separazione nei due sessi. Da questo mito deriva probabilmente l’espressione ancora corrente con cui ciascuno caratterizza il proprio amato o amata come la propria “metà” (perduta e ritrovata).
La “rivelazione” di Diotima a Socrate sviluppa i discorsi degli altri convitati, che non confuta direttamente, salvo quello di Agatone (in parte condiviso da Fedro) che vede in Amore un dio bello e perfetto. Piuttosto Diotima approfondisce filosoficamente l’essenza dell’amore, che paragona e quasi assimila a quella della stessa filosofia.
Amore non è un dio, perché, desiderando qualcosa che gli manca (ciò che è bello), non può essere bello e perfetto; è piuttosto un dèmone (come quello che guida Socrate), ossia qualcosa che può portare l’uomo verso gli dèi. Il suo scopo è rendere immortale chi ama, in primo luogo attraverso la generazione fisica, poi attraverso la generazione “spirituale”, infine, attraverso i gradi dell’amore prima di tutti i corpi, poi di tutte le anime (nell’amicizia), infine delle leggi, favorendo la ricongiunzione dell’anima al Principio da cui essa proviene (qui caratterizzato come Bello e Bene). Di qui l’analogia e, infine, l’identificazione con la filo-sofia, cioè con l’amore per la sapienza (sophìa).
Come per Aristofane, in fondo, l’amore è il risultato del ricordo dell’unità perduta, una forma di nostalgia: i bei corpi e le belle idee sono come i simboli e le tracce di un’unità che, tuttavia, non è carnale (come nel mito di Aristofane), ma “ideale”: quella dello (e con lo) stesso Principio.
Ecco il celebre di film che Marco Ferreri dedicò al Simposio. Qui le sequenze fondamentali nelle quali Socrate, dopo aver ascoltato l’elogio dell’amore da parte di Agatone, narra la rivelazione dei misteri d’amore ricevuta da Diotima.