Possiamo “arrenderci” allo scetticismo? Sarebbe come dare ragione ai sofisti e non uscire mai dalla “caverna” (metafora platonica che riprenderemo) dello nostre opinioni.
Ma, come sappiamo, la filosofia non si accontenta dell’opinione (dòxa) di ciascuno. Attraverso il dialogo maieutico la filosofia invita ciascuno a dubitare di quello che crede e a discriminare, in ciò che crede, il vero dal falso. Ma attraverso quale procedimento?
E come facciamo a sapere che quelle che “partoriamo” di volta in volta siano “verità” e non ennesime “opinioni”?
Emerge un paradosso: da un lato la filosofia ci sollecita a non accontentarci dell’opinione (dòxa) e a cercare la scienza (epistéme). D’altra parte le opinioni dei filosofi che si sono succeduti sembrano appunto tali, opinioni!, le une diverse dalle altre. Possiamo veramente “uscire dalla caverna” di queste opinioni?
Dobbiamo quindi svolgere una duplice ricerca:
- cercare di comprendere se e come sia possibile raggiungere qualche verità “eterna”;
- anche nel caso che la verità sfugga sempre, se vi sia qualche campo di ricerca, p.e. quello che chiamiamo “scientifico”, nel quale, anche se non si raggiunge la verità assoluta, si raggiunga almeno qualcosa di intermedio tra un’opinione qualsiasi e la verità stessa.
Nel VI libro della Repubblica Platone fa descrivere a Socrate, in dialogo con Glaucone, un modello della relazione tra le diverse forme del sapere: una linea divisa in 4 segmenti che rappresentano ciascuno un diverso grado di conoscenza.
Per approfondire la questione se e come si possa scavalcare la critica degli scettici a ogni possibile dimostrazione scientifica e cercare di trovare un principio non puramente ipotetico da cui sia possibile dedurre, magari mediante sillogismi, l’intera “scienza” consideriamo questo fondamentale passo della Repubblica di Platone (VI, 509d e ss.).
La prima parte della linea AC (relativa all’opinione, dòxa) sta alla seconda parte BC (relativa alla scienza, epistéme), come la metà della prima parte AD sta alla seconda metà della prima parte CD. Dunque le immagini e le ombre (AD) rappresentano simbolicamente tutta la realtà sensibile (AC), mentre le “cose” visibili (CD) rappresentano simbolicamente le idee (BC). Questa similitudine ci tornerà utile per intendere il “mito della caverna” che, nella Repubblica, segue immediatamente all’immagine della linea.
Il segmento BC (riguardante l’epistéme, la scienza) è diviso a sua volta in due parti: CE e BE.
CE rappresenta il sapere che i Greci chiamavano “matematico”, ma che comprende il sapere che noi oggi consideriamo “scientifico”.
- Questo sapere è fondamentalmente ipotetico perché parte da figure geometriche o relazioni matematiche come da ipò-tesi (o sup-posizioni, qualcosa che si immagina di collocare “sotto” il determinato fenomeno per spiegarlo) e
- ne deriva conseguenze in grado di “salvare i fenomeni“, ovvero implicazioni che devono poter essere verificabili empiricamente (ossia essere congruenti alle “immagini” della sezione AC – sempre, peraltro, imperfette -), senza che questo, tuttavia, possa costituire una garanzia assoluta circa la validità delle ipotesi stesse [1].
Questo sapere è tale solo se le ipotesi su cui si basa sono vere; cosa che, però, all’interno di questo sapere stesso è impossibile dimostrare (si cadrebbe, infatti, in un circolo vizioso).
Un esempio lo fornisce il teorema che ci informa sul valore della somma degli angoli interni di un triangolo: esso vale solo a condizione che il quinto postulato di Euclide (che concerne la possibilità di disegnare rette parallele) sia valido. Questo genere di sapere corrisponde puntualmente al procedimento del sillogismo di Aristotele: le ipotesi da cui si parte coincidono con le premesse di un sillogismo, mentre le tesi a cui si perviene coincidono con le conclusioni del sillogismo. Come sappiamo, però, un sillogismo è davvero scientifico solo se le premesse da cui parte sono vere.
BE rappresenta il sapere propriamente “filosofico”, che procede in senso inverso, capace di partire dalle ipotesi per sviscerarne i pre-supposti (cioè le ulteriori ipotesi o pre-ipotesi in base alle quali quelle da cui sono partito sarebbero vere) fino ad arrivare a un principio non ipotetico che si distinguerebbe dalle ipotesi per il fatto di essere vero o perché evidente o perché dimostrabile senza ricorrere ad ulteriori ipotesi (ad esempio ricorrendo alla “dimostrazione per assurdo”).
Questo metodo Platone lo chiama dia-lettico, in quanto è quello adoperato da Socrate nei suoi dia-loghi, quando, maieuticamente, cerca di suscitare nei suoi interlocutori “la verità” quasi “per esclusione” (criticando tutte le opinioni infondate).
[1] Infatti, se da una determinata ipotesi (ad es. la teoria della gravitazione di Newton) deduco e riesco a prevedere il comportamento per esempio di questo corpo (p.e. la sua accelerazione attuale) non ne deriva che l’ipotesi sia assolutamente vera, perché non posso escludere che un’ipotesi diversa (p.e. la teoria della relatività di Einstein) possa avere le stesse conseguenze empiriche. In termini platonici non basta che una teoria “salvi i fenomeni” perché essa sia vera.
epistemologia, filosofia antica, gnoseologia, logica, metafilosofia, ontologia, politica, storia della filosofia, teologia
Aristotele, conclusioni, deduzione, dialettica, diànoia, doxa, episteme, immagini, intelligenza, ipotesi, maieutica, matematica, modelli, nous, Platone, salvare i fenomeni, sillogismo, tesi