Il metodo socratico, basato sul dialogo e articolato nei momenti dell’ironia, della maieutica, della ricerca zetetica e della confutazione, è fondamentalmente orale. Coerentemente con tale caratteristica, Platone, pur essendo il primo autore di cui ci rimangono tutti gli scritti, elabora una celebre critica della scrittura.
Oggi si crede di imparare studiando da libri. Ma tutto questo non basta. Occorre sapersi orientare. A questo scopo occorre esercitare la propria intelligenza liberamente (con la filosofia ma non solo), non solo “mandare a memoria” informazioni, date, nomi, formule o simili. Occorre acquisire davvero scienza delle cose, non solo scienza dei loro nomi.
Come diceva il filosofo pre-socratico Eraclito (VI sec. a. C., Efeso, in Asia Minore):
Sapere molte cose non insegna l'intelligenza
Purtroppo abbiamo un problema di fondo legato alla forma scritta della cultura e che tocca la stessa filosofia. È lo stesso Platone a metterci in guardia dai suoi stessi miti e dalle sue opere in generale, nella sua Lettera VII, dove dice (anzi scrive!):
Di tutti coloro che hanno scritto e scriveranno, affermando di conoscere quello di cui io mi occupo, o per averlo ascoltato da me o da altri o per averlo scoperto da soli, posso dire che, a quanto pare, non ne capiscono nulla
Ma non si tratta altro che della logica conseguenza della famosa critica platonica della scrittura, contenuta nel dialogo Fedro.
Nel mito che precede la vera e propria confutazione socratica dell’efficacia della scrittura, si narra che il dio Theut (corrispondente all’Ermes dei Greci e al Mercurio dei Romani) proponesse al faraone d’Egitto Thamus la sua nuova invenzione, la scrittura (che effettivamente sembra nata, insieme con la Storia, in Egitto, oltre che presso i Sumeri della Mesopotamia, verso il III millennio a.C. ). Ora, secondo il mito (il racconto) di Socrate/Platone, questa scrittura, di cui tanto si compiace il dio Theut, ossia il suo immaginario inventore, dispiace al re Thamus, perché non aiuta la memoria, ma soprattutto perché illude di sapere le cose che attraverso di essa si apprendono.
Facciamo l’esempio della seguente proposizione: “La somma degli angoli interni di un triangolo è pari a un angolo piatto”.
Se la impariamo semplicemente a memoria crediamo di sapere qualcosa, ma, in effetti, ciò che appunto “crediamo” resta oggetto di credenza, di fede, perché ignoriamo la ragione per cui quella proposizione è vera (e possiamo perfino ripeterlo senza capirne il senso).
Che dovremmo fare? Bisognerebbe che qualcuno ci sollecitasse a ricavare passo dopo passo, maieuticamente, la dimostrazione del teorema relativo alla somma degli angoli interni di un triangolo.
Analogamente nel dialogo Menone (84a-85d) Socrate dimostra a uno schiavo ignorante il teorema della duplicazione del quadrato, ponendogli semplicemente una serie di domande.
Che cosa ciascuno ne ricava? Non già una semplice opinione “soggettiva”, magari suffragata dall’autorità di un professore o di un libro, ma, al contrario, una verità più profonda e durevole, anche se invisibile, posta nell’anima (qualcosa di seminato nella terra buona, non in vasi pieni d’acqua o nei cosiddetti “giardini d’Adone”).
La conoscenza non deriva, dunque, dalla scrittura, ma, piuttosto, è presupposta. Se so già quello di cui trovo un’indicazione scritta, interpreto correttamente lo scritto e me ne posso servire per ricordarmi. Ma se lo ignoro, la scrittura non fa che generare in me l’illusione di una conoscenza.
- Ma da dove nasce, allora, la conoscenza?
Non certamente dalla parola semplicemente “orale”, per esempio da una lezione o una conferenza ininterrotta. Anche nel caso del monologo orale, infatti, se non sono consentite le domande, si è di fronte a qualcosa di analogo a un testo scritto. Lo interrogo e mi risponde sempre la stessa cosa. Platone, infatti, non si limita a criticare la scrittura, ma critica, in generale, l’eccessiva fiducia nel linguaggio.
In ultima analisi la critica platonica alla scrittura costituisce un “caso particolare” della più generale critica socratica a chi crede di sapere, ma non sa. Socrate, come sappiamo, attraverso la maieutica, invita, partendo dal proprio sapere di non sapere, a scoprire di non sapere di sapere (in fondo, cioè nel fondo della propria anima) qualcosa che non si sospettava di sapere (p.e. le proprietà dei triangoli).
Ci interrogheremo più avanti da dove derivi questo misterioso sapere che dobbiamo già possedere, che non può venire dalla lettura di testi scritti (dall’esperienza? da un’intuizione innata? da ricordi di vite precedenti? …)
- Come mai proprio Platone, che critica la scrittura, ci ha lasciato la prima opera di filosofia integrale a noi nota (i suoi 36 Dialoghi)? Che funzione avrà voluto attribuire loro?
In effetti non lo sappiamo. Possiamo solo formulare ipotesi. Platone potrebbe avere voluto scrivere i suoi Dialoghi, per indurre il lettore a praticare, successivamente, la filosofia attraverso il dialogo orale.
Un’altra ipotesi è che il dialogo scritto, in quanto aporetico, cioè inconcludente, sia costruito in modo tale da indurre “maieuticamente” il lettore ad arrivare da solo a quello che lo scritto non esplicita.
Platone potrebbe avere scritto per ricordarsi in età avanzata (come del resto lui stesso suggerisce nel Fedro) ciò a cui sarebbe giunto in età giovanile.
Quel che è certo è che Platone considerava i suoi scritti poco più che “scherzi”, “giochi”, rispetto al dialogo orale di cui aveva dato prova il suo maestro Socrate, ma che, verosimilmente, egli stesso praticava in Accademia con i suoi discepoli.