È forse bene godere? (Epicuro)


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Ammesso che il bene coincida con la (propria) felicità, come suggerisce Aristotele, ora si tratta di comprendere in che cosa la felicità consista e come sia possibile conseguirla.

Concordare con Aristotele che il bene supremo coincide con la felicità non ci fa ancora comprendere, infatti,  in che cosa consista questa felicità e come raggiungerla, come lo stesso Aristotele ammette.

Ammettiamo per ora di doverci occupare esclusivamente della felicità individuale, senza considerare, ma senza neppure escludere, l’eventuale ruolo degli altri. Che cosa potrebbe produrre tale felicità? Sicuramente ciascuno è felice in modo diverso dagli altri: chi è appassionato di ingegneria facendo l’ingegnere, chi di medicina il medico ecc. Ma la domanda filosofica è se vi sia un bisogno proprio dell’uomo in quanto uomo (o, come possiamo dire, inerente alla natura umana, ossia al “bagaglio” di tratti caratteriali con i quali tutti nasciamo, da distinguere da ciò che ci proviene dalla cultura, ossia dal modo in cui l’esperienza successiva ci “coltiva”, diversa per ciascuno di noi e per ciascun popolo) che, realizzato, ci possa rendere felici.

EpicuroA questo punto conviene rivolgersi ad Epicuro che, rispetto ad altri filosofi, è sicuramente molto più concreto e chiaro su quali “strategie” adottare per essere felici. Che cosa suggerisce Epicuro? Certamente, di praticare la filosofia, ossia esercitare l’intelligenza e la ragione.

Ma il “principio e fine di una vita felice” non è la filosofia e neppure l’intelligenza, bensì il piacere! Ciò consegue logicamente dai presupposti materialistici del nostro filosofo: non siamo altro che animali con la sola differenza di disporre della ragione, la quale ci permette di calcolare come massimizzare il piacere nel tempo e minimizzare il dolore. Dunque la filosofia è solo lo strumento attraverso cui possiamo raggiungere il vero scopo, ossia il piacere.

Anche chi non dovesse condividere il materialismo di Epicuro, potrebbe convenire sul fatto che, nell’esatta misura in cui siamo anche corpo, il nostro bene coincide con quello del corpo. E questo bene, a sua volta, potrebbe consistere nella salute; della quale il piacere, come lo stesso Epicuro suggerisce, non sarebbe che l’espressione.

  • Ma che cos’è il piacere? Come procurarcelo?

Poiché non è facile stabilire positivamente in che cosa il piacere consista, si potrebbe cercare di determinarlo negativamente, ricercando che cosa si debba evitare per godere.

Epicuro, nella Lettera a Meneceo, suggerisce di evitare alcune paure, che, essendo fonte di turbamento, avvelenerebbero il nostro godimento, impedendoci di assaporare la vera felicità: la paura degli dèi, la paura della morte, la paura del dolore.

La prima paura da cui invita a guardarsi è la paura degli dèi. L’argomentazione è essenzialmente la seguente: essi sono felici, dunque non provano invidia, dunque, dal momento che facciamo esperienza del male, evidentemente si disinteressano di noi (altrimenti, non essendo né invidiosi, né impotenti, impedirebbero il male che a volte soffriamo), dunque anche noi possiamo disinteressarci di loro.

Più precisamente, nella citazione del filosofo cristiano Lattanzio, Epicuro sostiene:

Dio - dice Epicuro - o vuole togliere i mali, ma non può; oppure può, ma non vuole; oppure non vuole e non può; oppure vuole e può. Se vuole, ma non può, è impotente; il che è inammissibile in Dio. Se può, ma non vuole, è invidioso; il che pure è alieno da Dio. Se non vuole e non può, allora è invidioso e impotente; e anche questo non può attribuirsi a Dio. Se vuole e può, il che soltanto conviene a Dio, allora da dove vengono i mali? o perché non li toglie?

La conclusione implicita è: se Dio non è invidioso, né impotente, non toglie i mali, solo perché li ignora o si disinteressa totalmente a noi (oppure, in alternativa, ma Epicuro non osa tanto, semplicemente non esiste).

N. B. Per quanto riguarda i suggerimenti di Epicuro contro la paura degli dèi vanno fatte alcune precisazioni. Le argomentazioni epicuree contro la paura degli dèi potrebbero sembrare poco attuali, ma così non è. Se è vero che pochi di noi credono ancora agli antichi dèi (greci e romani), come Zeus, Apollo, Ares ecc., è anche vero che molti credono però in Cristo o hanno devozione per questo o quel santo. Anche per le moderne religioni si pone il problema del male (come conciliare l’esistenza di Dio e l’esistenza del male) e, legato a questo, il problema dell’azione di Dio sugli uomini. Chi è religioso “teme Dio”, ossia si preoccupa di non venirne giudicato e condannato (“finire all’Inferno”). Secondo una prospettiva neo-epicurea (che fu propria, ad esempio, dell’illuminismo settecentesco) queste paure sarebbero irrazionali e non vi si dovrebbe cedere.
Anche chi non crede a Dio spesso soffre, se non di un “senso del peccato” (come è tipico dei credenti), almeno di un “senso di colpa”, per le azioni ingiuste che commette. È un po’ come se, quando agiamo in modo scorretto, qualcuno o qualcosa invisibilmente ci guardasse e ci giudicasse, anche se nessuno concretamente ci osserva. Anche a questi casi si può applicare la “medicina epicurea” che ci invita a non lasciarci traviare da angosce irrazionali, ma a valutare razionalmente il bene e il male contenuti in ciascuna azione in modo sereno.
Infine, quanti di noi sono davvero liberi da varie forme di superstizione (magari travestite da più moderne ossessioni)?  Si può temere di commettere errori in certi giorni nefasti (magari associati a certi numeri), ci si fissa su certi comportamenti rituali la cui mancata realizzazione temiamo possa avere conseguenze negative ecc. Anche qui l’invito epicureo continua a risuonare attraverso i secoli: non lasciamoci condizionare da paure infondate e irrazionali.

Per quanto riguarda la paura della morte, secondo Epicuro ci si deve totalmente disinteressare della morte, perché quando c’è la morte, non ci siamo noi; quando ci siamo noi, non c’è la morte. La morte, in altre parole, non ci riguarda. Nel momento in cui non siamo non possiamo percepirci, né pensarci o dirci morti. Dunque la morte non ci tocca (letteralmente).

N. B. La tesi di Epicuro sulla morte potrebbe ricordare la tesi di Socrate secondo cui, non sapendo se la morte sia un bene e un male, possiamo serenamente affrontarla. Ma la tesi di Socrate è argomentata in modo diverso rispetto alla tesi di Epicuro. Socrate non esclude che possiamo sopravvivere alla nostra morte, disponendo, come poi argomenterà soprattutto Platone, di un’anima immortale (come suggerisce il gesto di Socrate, prima di morire, del dono di un gallo al dio Asclepio). Invece Epicuro muove da presupposti materialistici (che sono oggi particolarmente diffusi presso i non credenti, soprattutto sull’onda dei successi della scienza). Egli crede che con la morte del corpo anche l’anima si dissolva. Tuttavia, contrariamente a quello che la mortalità dell’anima potrebbe sembrare suggerire, resta vero che noi non possiamo fare esperienza della morte. Dunque, in definitiva, sebbene per vie diverse, i filosofi antichi (pensiamo anche agli stoici, che ammettevano addirittura il suicidio) ci suggeriscono di non lasciarci turbare dalla paura della morte.

Infine, per quanto riguarda la paura del dolore, bisogna innanzitutto osservare che il dolore inevitabile è solo quello fisico. La sofferenza dell’anima, infatti, consiste in angosce o preoccupazioni che possono essere evitate se si seguono le indicazioni precedenti e i suggerimenti epicurei, di cui dobbiamo ancora parlare, concernenti il corretto godimento dei piaceri. Invece il dolore fisico è qualcosa di cui facciamo innegabilmente esperienza, in un mondo, per di più, che, secondo lo stesso Epicuro, è costituito da aggregazioni casuali di atomi che, come tali, in qualsiasi momento, si potrebbero disaggregare (lacerando i corpi che fino a quel momento componevano). Come affrontarlo? L’esperienza sensoriale (su cui Epicuro basa la sua filosofia) suggerisce che il dolore, se è durevole, è sopportabile, mentre se è acuto, dura poco. Ciò dovrebbe consolarci, evitandoci di vivere nell’angoscia di dolori acuti e persistenti.

  • Dunque che ci resta da fare? Quale bene perseguire? Che cosa abbiamo? Insomma, che cos’è positivamente il piacere?

Innanzitutto il piacere è un principio perché è ciò da cui, essendo esso fine in se stesso, dipendono tutti gli altri fini, secondo quanto già Aristotele sosteneva a proposito della felicità.

  • Ma questo non ci aiuta ancora  a determinare in che cosa esso consista!
A questo fine consideriamo il prezzo del piacere comunemente inteso (che Epicuro denomina “cinetico”). A volte esso procura direttamente sofferenza (per esempio, se esagero col vino e mi ubriaco, poi mi viene il mal di testa; se mangio troppo, ingrasso e mi vengono malattie ecc.). Anche quando il piacere non sembra procurare direttamente sofferenza, si registra sistematicamente quanto segue: col tempo ci si abitua al piacere, se ne gode sempre meno, la sua mancanza comincia a diventarci penosa. In altre parole il prezzo del piacere, prolungato nel tempo, è la dipendenza (le droghe rappresentano solo un caso estremo di questo problema).
Per evitarla è indispensabile soddisfare esclusivamente i desideri naturali e necessari. Ogni altro desiderio, se vi si cede, è fonte di preoccupazione.
Sono pericolosi, da questo punto di vista, non solo i desideri non naturali (quelli indotti dalla civiltà: ai tempi di Epicuro si trattava principalmente del desiderio del lusso o della ricchezza, oggi possiamo pensare alla soddisfazioni di bisogni indotti dal mercato, che determinano il cosiddetto consumismo),
ma anche quelli che, in se stessi naturali (per esempio quello di mangiare), fossero soddisfatti oltre il limite stabilito dalla ragione (oltre lo stretto necessario), ossia quando si omette di esercitare la virtù della temperanza (o moderazione).
Per evitare di pagare questo prezzo bisogna evitare di godere di questo genere di piaceri, se non saltuariamente (l’essenziale è non abituarcisi, non darli per scontati).
Il solo piacere che va perseguito sempre è quello stabile, consistente nell’assenza di dolore, fastidi e preoccupazioni.
amaca_SerraEsempio di un piacere di questo tipo potrebbe essere quello di chi si riposa in riva al mare, carezzato dalla brezza, all’ombra ecc. L’essenziale, però, è che la sua anima non sia gravida di preoccupazioni. Così sarebbe illusorio, ad esempio, per uno studente, tentare di procurarsi il piacere del “dolce non far nulla” omettendo di studiare per la scuola… Infatti l’oscura consapevolezza del voto negativo che tutto questo procurerà e dei conseguenti rimproveri dei genitori ecc. avvelenerebbero il godimento. Perché questo sia puro occorre che sia esente da preoccupazioni che lo turberebbero. L’obiettivo, infatti, è l’imperturbabilità (atarassia) e l’assenza di dolore (aponia).

Ecco il senso in cui Epicuro precisa che i piaceri vanno ricercati solo quando sono oggetto di desideri naturali e necessari, ma non quando possono diventare fonte di dipendenza, cioè, in ultima analisi, di schiavitù.

Abbiamo solo il presente, che va goduto fino in fondo. Non a caso Epicuro ispirerà Orazio (che, in una celebre ode, suggerisce “carpe diem”, ossia cogli l’attimo presente). Tra altri epicurei di chiara fama: Lucrezio (celebre anche per la sua polemica contro la religione), Giulio Cesare, fino a personaggi del Rinascimento come Lorenzo Valla.

N. B. Il fondamento dell’etica di Epicuro riposa, naturalmente, nella sua fisica materialistica e atomistica, secondo la quale esistono solo i corpi e il vuoto. Dunque il bene non può che coincidere con la felicità del corpo, ossia la salute e il piacere.

Questa ìdottrina atomistica di Epicuro risale a quella dei filosofi pre-socratici Democrito e Leucippo.

di Giorgio Giacometti