Prendiamo un semplice giudizio: “Le api volano”. La specie “ape” e l’azione “volare” (corrispondente alla specie o essenza: “volo”) sono congiunte. Un altro: “I cavalli non volano”. La specie “cavallo” e l’azione “volare” sono disgiunte (o una cosa è un cavallo, o vola, ma non può essere/fare entrambe le cose).
Per Aristotele un giudizio è vero quando unisce (nel discorso) ciò che è unito (nella “realtà”), divide quello che è diviso, mentre esso è falso quando unisce ciò che è diviso, mentre divide ciò che è unito.
pensiero/linguaggio | essere/realtà | valore del giudizio |
A&B | A&B | vero |
A/B | A/B | vero |
A&B | A/B | falso |
A/B | A&B | falso |
Il presupposto della logica antica, quindi, è quello di una similitudine o analogia tra il discorso (lògos) e “ciò che è”.
La “realtà” di cui parliamo, però, è quella delle essenze o idee che non possono mutare e delle loro proprietà (o attributi essenziali). Se mutassero falsificherebbero improvvisamente un giudizio vero, il che è assurdo.
I fenomeni, a loro volta, tendono ad obbedire alle idee (e, quindi, alla logica), ma, come sappiamo, presentano quel movimento che, per la scienza, costituisce un mistero, se non una contraddizione. Sappiamo che Aristotele risolve il problema, in campo fisico, con la dottrina della potenza e dell’atto. Tuttavia questa dottrina, in un certo senso, “neutralizza” il movimento, escludendolo da una considerazione strettamente scientifica. Infatti rimane del tutto accidentale che una determinata sostanza sia in potenza o in atto ciò che è. Ciò che possiamo conoscerne, infatti, è l’essenza universale, sempre identica a se stessa (che si manifesta pienamente nella sostanza, p.e. una quercia, individualmente in atto).
I giudizi, cioè le proposizioni con valore scientifico e che quindi, come subito vedremo, possono fungere da premesse o conclusioni di sillogismi (sono escluse, quindi, quelle che si riferiscono a individui) sono di 4 tipi: universale affermativa (A), universale negativa (E), particolare affermativa (I) e particolare negativa (O).
Secondo Aristotele, dei termini o dei concetti isolatamente presi (come «uomo», «bianco», «corre» «vince», ecc.) non si può dire né che siano veri né che siano falsi, giacché vera o falsa è solo una qualche combinazione o sintesi di essi. Questo significa che il vero o il falso nascono solo con la proposizione e con il giudizio. Da ciò i due teoremi fondamentali dello Stagirita a proposito della verità. Il primo è che la verità è nel pensiero o nel discorso, non nell’essere o nella cosa. Il secondo è che la misura della verità è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso. Infattí, una cosa non è bianca perché si asserisce con verità che è tale; ma si asserisce con verità che è tale, perché essa è bianca.
Di conseguenza, è innegabile che anche secondo Aristotele esista, fra linguaggio, pensiero ed essere, una serie di rimandi necessari. Infatti, è vero che le parole del linguaggio sono convenzionali, tant’è che variano da una lingua all’altra. Ma esse si riferiscono pur sempre ad «affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti». La combinazione delle parole è perciò comandata, attraverso l’immagine mentale, dalla combinazione effettiva delle cose cui esse corrispondono: sicché, ad esempio, si possono combinare le parole «uomo» e «corre» nella proposizione «l’uomo corre» solo se, in realtà, l’uomo corre. Si può dire pertanto che il linguaggio è per Aristotele convenzionale nel suo dizionario, non nella sua sintassi.