A fondamento di tutta la logica e della scienza stessa, come si è detto più volte, vi è il principio di non contraddizione, già intuito da Parmenide, ma enunciato in maniera esplicita e, soprattutto, dimostrato da Aristotele.
Come sappiamo Platone fonda la scienza su un “mondo” di nozioni immutabili (le idee) che fungono da “misura” per giudicare delle “cose” mutevoli (i corpi sensibili). Platone presuppone un piano dell’essere immutabile (“ciò che è e non può non essere”), enunciato per la prima volta da Parmenide di Elea, piano di cui soltanto si avrebbe scienza. A tale piano si oppone il piano del divenire (Eraclito) e dell’apparenza di cui si avrebbe soltanto opinione. Questa separazione (cosiddetto “dualismo” platonico) si giustifica meglio sulla base del principio di non contraddizione, enunciato nel modo più chiaro da Aristotele, ma sulla base della dottrina di Parmenide. A noi sembra scontato che se una cosa è x non è non-x (p. e. se è nuova non è vecchia). Ma se pensiamo ai miti e alle leggende antiche, con le loro ambivalenze, questa “verità” non sembra così scontata.
Il principio di non contraddizione, primo “mattone” della “ragione” occidentale, viene rivelato a Parmenide da una dea. Esso viene enunciato così: “ciò che è è e non può non essere”. Aristotele, nell’enunciare il principio di non contraddizione, invece di limitarsi a dire, come Parmenide, che “ciò che è è e non può non essere”, afferma che non si possono predicare cose diverse del medesimo soggetto nello stesso tempo (“hàma” cioè insieme o simultaneamente) “nella stessa relazione” (“katà tò autò“, lett. “secondo la stessa cosa” o “sulla base del medesimo”), cioè dallo stesso punto di vista o nello stesso significato [cfr. Metafisica, IV, 3, 1005b19-20].
Quindi, mentre per un filosofo eleatico (come Parmenide) e altri filosofi successivi, come i cosiddetti “megarici”, a rigore, non potrei dire “questo libro è bianco”, ma dovrei dire solo che “il libro è il libro” e il “bianco è bianco”, in quanto “ciò che è libro” è diverso da “ciò che è bianco”, Aristotele “se la cava”, in simili casi, distinguendo tra sostanze e accidenti. Mentre, ad esempio, un libro non può essere una penna, esso può benissimo essere bianco, perché, mentre due essenze diverse non possono coincidere, di un’essenza posso predicare una qualità diversa dall’essenza stessa senza problemi, perché il modo di essere dell’essenza e quello della qualità hanno significati diversi, cioè essenza e qualità “sono qualcosa” sotto diversi punti di vista.
Inoltre Aristotele dice anche che non si possono predicare cose diverse del medesimo soggetto “nello stesso tempo”. Con ciò evita che, ad esempio, “ciò che è giovane” debba essere condannato a restare tale per sempre, perché, in tempi diversi, la stessa cosa può avere qualità diverse. Contraddittorio sarebbe dunque essere simultaneamente giovane e vecchio.
Il principio di non contraddizione, come tutte le conoscenze che possiamo raggiungere per pura “intellezione” (ossia sulla base di un’evidenza diversa da quella fornita dall’esperienza), non può essere propriamente dimostrato.
Ad esempio, le proprietà dei triangoli, sono dimostrate per mezzo di teoremi, ossia sono dedotte da assiomi e postulati considerati evidenti, cioè noti per intellezione e non dimostrati a loro volta. Se, infatti, dovessi dimostrare anche gli assiomi, si andrebbe indietro all’infinito senza mai trovare un punto di partenza (un principio). Questo vale anche per le premesse del sillogismo. Non posso ricavarle tutte come conclusioni di altri sillogismi, altrimenti regredirei all’infinito. Ve ne devono essere alcune, generalissime, note di per sé. E lo stesso vale anche per le definizioni. Se dovessi definire non solo le specie, ma anche i generi prossimi che, di volta in volta, introduco per definirle, si dovrebbero generare infinite definizioni. Vi devono, dunque, essere essenze, principi, assiomi ecc. noti per evidenza e che non si possono né definire, né dimostrare, ma si devono “postulare”, cioè dare per scontati. Tra questi vi è appunto il principio di non contraddizione, che Aristotele considera, dunque, “evidente”.
Tuttavia egli ne tenta una specie di dimostrazione per assurdo. In ultima analisi la sua dimostrazione consiste in questo [cfr. Metafisica, IV, 4, 1005b36 e ss.]: se uno nega il principio di contraddizione, sulla base del quale soltanto possiamo distinguere il vero dal falso, allora costui, a ben vedere, mentre lo nega, anche lo afferma, perché negare e affermare qualcosa, se vero e falso coincidono, a loro volta coincidono; in particolare, se un parlante parte dal presupposto che il principio non sia valido, qualunque cosa egli affermi sarà priva di senso, perché egli stesso non potrà più escludere che le cose che dice abbiano un significato anche opposto a quello che sembrano avere. [Questo paradosso è stato codificato nel Medioevo con la formula latina: ex absurdo quodlibet, cioè “da ciò che assurdo (deriva) qualsiasi cosa”].
Ecco una lettura commentata di Metafisica, 4, 3-4, in cui Aristotele enuncia il principio di non contraddizione:
N. B. Oggi vi sono diversi autori che ritengono che si possa in qualche modo “indebolire” il principio di non contraddizione per la ragione che tale principio, soprattutto se preso assolutamente, come in Parmenide, come sappiamo, appare troppo rigido per rendere conto del divenire. Tuttavia non è così facile sbarazzarsi del principio di non contraddizione, come dimostra p.e. questa discussione del libro di Eugenio di Agosta (seguita dalle repliche dello stesso autore concentrate proprio a difendere la tesi di una messa in mora del principio). La sola via promettente sembra quella, di matrice platonica, che passa per l’elaborazione della nozione di antinomia: in ultima analisi si tratta di usare il principio di contraddizione contro se stesso, un po’ come nel judo e in altre arti marziali si sfrutta la forza dell’avversario per abbatterlo.