Poiché si è filosofi non solo sulla base di quello che si pensa, ma anche sulla base di quello che si fa e di quello che si è, è importante, allora, non solo dal punto di vista storico, ma anche per intendere che cosa la filosofia esige, comprendere come Socrate (il “filosofo” per antonomasia, il filosofo “tipo”, il modello o paradigma di ogni filosofo precedente e successivo) ha affrontato la propria condanna a morte.
Come risulta dall’Apologia di Socrate, il processo gli viene intentato (nel 399 a. C.) per l’odio maturato contro di lui nei suoi concittadini (non solo poeti e artigiani, ma anche uomini politici), tormentati dalle sue domande, costretti ad ammettere che non sanno quello che credono di sapere e che non sono quello che credono di essere, anche se ufficialmente egli viene accusato di corrompere i giovani e di introdurre nuove divinità.
In un certo senso l’accusa è giustificata: Socrate induce i giovani allievi a dubitare di ciò che appare ovvio ed è considerato accettabile (tra cui il culto dovuto agli dei della città, fondamentale non tanto per motivi religiosi, quanto per cementare la solidarietà politica tra cittadini e soldati): nella ricerca del bene, infatti, non ci si deve fermare davanti a nulla e, se necessario, dubitare di tutto.
Meno giustificate sono, invece, altre due accuse: di occuparsi di cose celesti e sotterranee (il che farebbe di Socrate un filosofo naturalista) e di rendere più forte il discorso più debole e viceversa (che ne farebbe un sofista… ma Socrate ha buon gioco ad argomentare che per ottime ragioni egli non è né l’uno, né l’altro).
Ma perché Socrate si mette a interrogare giovani e non giovani sul bene e sulla virtù? Perché l’oracolo di Apollo, a Delfi, ha comunicato a un amico di Socrate, Cherefonte, che Socrate è il più saggio degli Ateniesi, sebbene Socrate sappia di non sapere alcunché. Meravigliato di tale vaticinio, Socrate si mette a indagare se ciò sia vero.
Probabilmente il dio Apollo intende alludere al fatto che Socrate, pur non sapendo alcunché di più degli altri Ateniesi (almeno se dobbiamo credergli, senza tener conto della sua ironia), sa almeno di non sapere: per questo è più saggio degli altri e può mettersi alla ricerca della saggezza (scienza del bene), cammino precluso a chi (presuntuosamente) crede di sapere, ma non sa.
Socrate, condannato, affronta serenamente la morte perché è la cosa migliore che, nelle date circostanze, gli può capitare, considerando che egli non sa se la morte sia un bene o un male, mentre smettere di fare filosofia sarebbe sicuramente un male, dal momento che, se uno sa di non sapere, la cosa migliore che può fare è cercare quel sapere (quella saggezza) che gli manca. In generale, finché non so che cosa sia la cosa migliore da fare, la cosa migliore da fare sembra proprio cercare questa cosa migliore… ossia filosofare. Smettere, pertanto, renderebbe la vita senza senso (non degna di essere vissuta). Dunque non c’è ragione di piangere (Fedone) davanti alla morte.
D’altra parte, la morte di Socrate, continuando idealmente il suo insegnamento verbale, si rivela (come nel caso della morte di Cristo e di altri eroi) il suo più grande insegnamento, la ragione per cui noi ce lo ricordiamo (attraverso gli scritti di Platone che ne fu straordinariamente colpito). Dunque aveva un senso ben preciso morire in quel contesto piuttosto che prima o dopo.
In generale i filosofi antichi testimoniano di non avere paura della morte, ma non la ricercano deliberatamente, né ammettono il suicidio (con la sola eccezione degli stoici, specialmente romani, che ammettono perfino il suicidio quando non vi sono più le condizioni per coltivare la virtù).
Si conferma così, in maniera esemplare, che la filosofia non è solo necessaria, come argomenta Aristotele, ma è anche così utile da rendere la vita “degna di essere vissuta” (o, come forse diremmo più modernamente, da “dare un senso” coerente alla nostra vita, cioè uno “scopo”).
Ancora una volta, ciò che sembra condizione preliminare di ogni altra conoscenza, a garanzia della sua utilità, è la conoscenza del bene e del male. La ricerca di questa conoscenza (che, ad esempio, l’uomo di fede crede già di possedere) è propria della filo-sofia.
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