La coscienza non può essere l’effetto di alcunché

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  • A me sembra che la coscienza possa essere adeguatamente spiegata assumendo il paradigma meccanicistico (che, in “filosofia della mente”, come sai, assume il nome di “fisicalismo” e di “riduzionismo”). Perché non considerare, come fa Daniel Dennett, il fenomeno della coscienza come l’effetto di determinati processi fisiologici (per i quali si possono invocare e intrecciare biologia, chimica e fisica, eventualmente anche la scienza dell’informazione, come fa p.e. Tononi)? Per tacere di chi, come i coniugi Churchland, arrivano negare che propriamente “esista” qualcosa come una coscienza (eliminativismo)…

martellataQualunque operazione di questo tipo fallisce (come hanno dimostrato tra gli altri Hillary Putnam, Saul Kripke, David Chalmers, John Searle e il fisico Roger Penrose), perché non può, per costruzione, rendere conto dell’esperienza soggettiva della coscienza (ossia dell’esperienza dei qualia, come si dice in filosofia della mente): una teoria meccanicistica, per quanto raffinata, può spiegare perché a una martellata sul dito segue un grido di dolore, a partire dagli impulsi che dal dito arrivano al cervello e di qui, dopo vari passaggi, giungono alla bocca attraverso i polmoni; ma essa non mi spiega perché, se la martellata l’ho presa io, dovrei esserne cosciente anziché no.

Anche qualora una teoria meccanicistica simile potesse esistere (cosa che si può dimostrare impossibile), resta, inoltre, il fatto che, nonostante generosi tentativi in tal senso, nessuno sia finora riuscito a costruirla. Come scrive Donald Hoffman:

Se ipotizziamo che l'attività cerebrale equivalga alle esperienze coscienti o le faccia sorgere in qualche modo, ci servono comunque leggi o principi esatti che colleghino ciascuna esperienza cosciente (come il sapore del basilico) alle specifiche attività cerebrali che equivalgano a quella o che la fanno sorgere. Finora nessuno ha offerto principi e leggi di questo tipo.
[L'illusione della realtà, p. 40]
  • Per “spiegare” perché abbiamo una coscienza non si potrebbe tentare di attribuire alla “coscienza” (p.e. della martellata subita, attraverso la sensazione del dolore) una funzione (potrebbe p.e. indurmi a evitare di dare un secondo colpo di martello nella stessa direzione di prima)?

Ma ciò significherebbe che qualcosa di “impalpabile” o immateriale (come una sensazione soggettiva) potrebbe esercitare un’azione sul mio corpo. Tecnicamente, in filosofia della mente, come sai, si parla, al riguardo, del “ruolo causale” che la coscienza svolgerebbe.

Poiché sul concetto di “causa” si potrebbe discutere all’infinito va precisato il senso di questo “ruolo causale”: una determinata sensazione cosciente dovrebbe potermi far assumere un comportamento che, in assenza di tale “sensazione”, solo sulla base di impulsi – poniamo – elettrici (ai quali non si accompagnasse alcuna sensazione cosciente), il mio corpo non avrebbe assunto.

Altra questione (che approfondisco altrove) concerne la natura della causalità imputabile alla coscienza, ovvero se la coscienza agisca come causa efficiente o, piuttosto, –  come credo – come causa finale.

  1. Nel primo caso  sarebbe la coscienza stessa l’artefice (l’autrice) del determinato comportamento (movimento del corpo).
  2. Nel secondo caso il comportamento sarebbe determinato da altro, ma tale comportamento sarebbe quello e non altro “alla luce” di quanto, nel frattempo, è venuto a coscienza o, anche, “in vista” del venire a coscienza di qualcosa, in modo tale che, se la coscienza comunque non “entrasse in gioco”, il comportamento sarebbe stato differente.

N.B.  In realtà è possibile argomentare che la stessa nozione di “causa” implichi originariamente un riferimento all’esserci ovvero alla coscienza, se adottiamo la teoria della causalità manipolativa. Sotto questo profilo ogni qual volta si invoca una causa non si può fare a meno di invocarla implicitamente sotto il quadruplice aspetto di aristotelica memoria (come causa efficiente, materiale, formale e finale) e attribuirla in modo diretto o indiretto a un agente vivente e potenzialmente cosciente. Ma di ciò altrove.

Quale che sia la natura della causalità imputabile alla coscienza (immediatamente efficiente o, piuttosto, finale), ciò che si può escludere, se la coscienza assolve un ruolo causale, è che la sensazione che la “riempie” (p.e. il dolore per la martellata sul dito) possa semplicemente “sopravvenire” rispetto a un determinato stato cerebrale. Questo, infatti, non dovrebbe per definizione essere “causalmente equivalente” alla sensazione cosciente a cui è associato, pena l’azzeramento del ruolo causale della coscienza stessa (che diverrebbe superflua).

  • D’accordo. Non vedo dove sia il problema ad ammettere che la coscienza svolga un ruolo causale, nel senso che hai appena precisato.

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Il problema sarebbe che, se la coscienza svolgesse un ruolo causale tale da cambiare il corso di un evento (cioè tale che, se essa non lo svolgesse, l’evento avrebbe un corso diverso), si registrebbe la rottura della chiusura causale del mondo fisico, ossia del fisicalismo. La natura sarebbe soggetta a “influenze” (si tratti di cause efficienti o, piuttosto, finali) derivanti da una sfera “soggettiva”, non riconducibili a forze fisiche note.

Queste forze fisiche note, infatti, anche quando si manifestano nei processi “superiori” chimici e biologici (in quanto si presume che essi siano riducibili, in ultima istanza, a processi fisici), nella prospettiva fisicalistica non sono “per costruzione” sensibili a qualcosa di impalpabile come “campi di coscienza” o simili.

Tali “campi di coscienza”, per funzionare, – osserva – dovrebbero retroagire causalmente sui “livelli” inferiori di realtà (esercitare, cioè, una cosiddetta downward causation), in particolare sul “corpo” di cui sono “campi di coscienza”.

Ma tutto ciò è contrario all’ipotesi riduzionistico-fisicalistica assunta inizialmente.

N.B. Si potrebbe adottare una prospettiva “fisicalistica allargata” che include l’azione della coscienza (cioè la variazione nel decorso degli eventi determinata dall’emergere della coscienza) nel campo della natura (physis). Ciò va esattamente nella direzione della filosofia della natura proposta in questa sezione del sito. Tuttavia ciò che è comunque messo in discussione è il determinismo, inteso come concezione secondo la quale tutto ciò che accade non potrebbe accadere diversamente da come accade, costituendo l’immagine o il co-dominio di una funzione che non ammette soluzioni indeterminate.

  • Forse allora la coscienza non assolve alcun “ruolo causale”, ma è un mero, come si dice, “epifenomeno”…

Questa è l’ipotesi di coloro che la considerano alcunché di sopravveniente, qualcosa, cioè, che si aggiunge ai processi neurofisiologici senza interferire con essi.

Essa sorgerebbe a certe condizioni (ad esempio quando si raggiunge un certo livello di complessità nel gioco delle informazioni o, se si preferisce, degli impulsi che circolano per il nostro corpo, secondo il modello di Tononi, Tegmark e altri).

  • Perché non potrebbe essere proprio così?

Quest’ipotesi lascia inevasa la domanda: “Perché siamo dotati di coscienza?”. Se la coscienza non assolvesse alcuna funzione (se l’assolvesse, dovremmo, di nuovo, attribuirle un ruolo causale in senso efficiente o finale), come potrebbe essere spiegata all’interno del paradigma meccanicistico?

Essa, in particolare, non potrebbe venire spiegata biologicamente (darwinisticamente), come, viceversa, pretenderebbero i “materialisti”, perché non determinerebbe alcun “vantaggio evolutivo”.

  • La coscienza potrebbe essere forse un carattere free rider (nel senso che a questo termine assegna Massimo Piattelli Palmarini nel libro, scritto con Jerry A. Fodor, Gli errori di Darwin), ossia un carattere emerso casualmente senza assolvere alcuna funzione e senza rappresentare alcun vantaggio evolutivo per la sopravvivenza della specie che ne è dotata?

Come si potrebbe risolvere, in questa ipotesi,  il “paradosso di Chalmers” (esposto in La mente cosciente)? Come distinguere, cioè, se la coscienza non assolvesse un ruolo causale, cioè non svolgesse alcuna funzione, il nostro mondo (in cui vi sono entità dotate di coscienza, io ne conosco almeno una, io!) e un mondo “zombie”, in cui tutto si svolgesse identicamente, ma nessuno fosse dotato di coscienza? E, se tali mondi fossero esteriormente indistinguibili, perché mai solo in uno di essi dovrebbe essersi sviluppata la coscienza? Sembrerebbe più confacente a un principio di economia (nel modo di operare della natura) che, piuttosto che il nostro, esistesse soltanto il mondo zombie. Ancora una volta manca uno straccio di spiegazione del perché nel nostro mondo vi sia qualcuno dotato di coscienza.

  • Forse il mondo zombie è semplicemente impossibile. Magari c’è una misteriosa “legge di natura”, secondo la quale a un determinato grado di complessità, raggiunto da determinati aggregati di materia vivente (o anche non vivente), deve associarsi qualcosa come una coscienza, senza che questa possa assolvere, tuttavia, alcun ruolo causale…

Sembri evocare l’ipotesi di Marco Giunti. Tale ipotesi richiede, per l’esattezza, che  questa misteriosa “legge di natura” viga non solo nel nostro mondo, ma in ogni mondo possibile.

  • Mi sembra una buona ipotesi, no?

Ti  sembra plausibile che una “cosa”  così complessa, come la coscienza, non assolva alcuna funzione?

Questa ipotesi, inoltre, in quanto tiene fermo che la coscienza, come mero epifenomeno, non possa retroagire causalmente sui livelli inferiori di realtà, si scontra, come ogni teoria “epifenomenistica”, con un fatto indiscutibile: in generale, le ricerche sulla coscienza (come quella che stiamo conducendo noi, adesso!) presuppongono la coscienza e sembrano anche dimostrare che essa assolve una funzione causale, almeno in quanto causa finale (in quanto oggetto che muove la ricerca stessa).

Infatti sembra ragionevole supporre che io stia scrivendo questo articolo perché, avendo una coscienza, mi chiedo (e me lo chiedo al fine di sapere) perché (a che fine, con quale funzione) ce l’ho. Le mie dita non si muoverebbero sulla tastiera se non mi chiedessi perché sono cosciente. Se non fossi cosciente, ma fossi uno zombie, identico in tutto e per tutto a me stesso, non avrei alcun motivo (alcuna ragione, alcuno scopo) per interrogarmi sulla coscienza e per scrivere questo articolo.

Lo stesso paradosso di Chalmers può essere risolto, molto meglio che invocando implausibili leggi relative al necessario emergere della coscienza in determinate condizioni (come fanno Giunti, ma anche Tononi e Tegmark, già evocati), se ci si chiede: “Nel mondo zombie, identico al nostro, i nostri cugini zombie sviluppano ricerche di filosofia della mente, si chiedono che cosa sia la coscienza?”. Se sì, allora non sarebbero “veri zombie” (il loro comportamento sarebbe assurdo: gli zombie cercherebbero di comprendere qualcosa di cui ignorerebbero l’esistenza!). Se no, contro l’ipotesi, il mondo zombie non sarebbe affatto (esteriormente) identico al nostro (non vi si celebrerebbero convegni sul problema della coscienza, come avviene nel nostro).

Ma, se la coscienza assolve una funzione causale (anche solo come causa finale, anche solo come qualcosa su cui effettuare ricerche, come facciamo noi ora, mentre non avrebbe senso che lo facessero i nostri amici zombie), il paradigma meccanicistico (tradizionale), come è detto, è rotto.

  • Non è davvero possibile ridurre, come tenta ancora di fare p.e. Jaegwon Kim, gli stati mentali a stati fisici? Mi sembra implausibile.

Al contrario, da quanto abbiamo osservato finora, sembra proprio (altamente plausibile) che il “mentale” sia irriducibile al “fisico”.

Ora, se le cose stanno così, allora possiamo riabilitare l’ipotesi che la coscienza possa assolvere un ruolo causale. Ma ci si deve chiedere in che cosa tale ruolo possa consistere.

  • Ma se la coscienza non svolge una funzione biologica, che funzione potrebbe assolvere?

Forse possiamo intenderla come un filtro o come un setaccio.

setaccio

  • Un filtro? Un setaccio?

Sì, qualcosa che filtra l’essere, separando l’attuale (setacciandolo, come un crivello, lasciando ex-sistere) dal resto del possibile. Possiamo dire: la coscienza è un setaccio (o crivello) onto-poietico, in quanto fa essere ciò che è qui e ora secernendolo dal possibile.

 

6 pensieri su “La coscienza non può essere l’effetto di alcunché”

  1. Potremmo denominare “rimbalzosità” il comportamento caratteristico di un pallone da pallacanestro ben gonfio, ma assurdamente sostenere che non sia solo la descrizione, bensì la vera causa di quel comportamento, a prescindere dalla struttura materiale del pallone e del gas al suo interno. Analogamente c’è chi ipolizza l’esistenza di una “coscienza” che sarebbe la “causa” (e non semplicemente la parola con cui sinteticamente lo si descrive) del modo di interagire con l’ambiente caratteristico degli esseri capaci di comportamento cosciente, vigile e lucido; non si vuole ammettere che in realtà è dovuto alla particolare organizzazione della loro struttura materiale.
    Il “qualia del dolore”, che taluni considerano una realtà soggettiva dalla natura misteriosa e di origine inspiegabile, è invece banalmente solo un’espressione verbale con cui, nel comunicare, si descrive quell’oggettivo, concreto e tumultuoso riarrangiamento delle sinapsi, che subito modifica drammaticamente il comportamento futuro al ripresentarsi di pericolose circostanze analoghe: se ci scottiamo un dito, “il dolore” non è affatto, come si potrebbe credere, il rapidissimo riflesso spinale che istantaneamente ci fa ritrarre la mano minimizzando il danno, bensì il successivo profondo cambiamento sinaptico a livello encefalico che immediatamente ci rende molto più prudenti in futuro con pentole bollenti e simili. Quindi non si vede quale sia “l’hard problem”.
    Concepire come possibili zombies filosofici perfettamente indistinguibili dagli umani per struttura e comportamento, ma privi di coscienza soggettiva, equivale a considerare quest’ultima perfettamente irrilevante sotto qualsiasi aspetto ed irrilevabile per qualsiasi effetto, quindi sostanzialmente del tutto irreale, pur volendola paradossalmente ritenere realmente esistente negli “umani veri”. Inoltre così si rischia di avallare una razzistica discriminazione su chi vada tutelato e chi oppresso senza scrupoli. I.M.H.O.

    1. Grazie del Suo commento (mi scuso di averlo pubblicato solo ora, ma è da un po’ che non frequento questa sezione del mio stesso sito).
      Distinguerei la questione della causalità della coscienza da quella della sua esistenza.
      Per quanto riguarda la causalità non ho difficoltà ad ammettere che la coscienza, in quanto tale, in quanto fenomeno non causi alcunché, se per causa intendiamo la “causa efficiente”. Il mio comportamento può venire senz’altro descritto fisicalisticamente in modo abbastanza adeguato. Nondimeno il fatto stesso che Lei e io discutiamo della “coscienza” dando a questa parola un significato mostra che non siamo verosimilmente “zombies”. In un universo zombie questa discussione non avrebbe luogo. Dunque la “coscienza” causa in un certo senso qualcosa che, in sua assenza, non si verificherebbe.
      Ma lo “hard problem” vero e proprio concerne l’esistenza stessa della coscienza. Lei può immaginare perfettamente una sequenza del tipo: corpo contundente > lesione > informazione al cervello relativa all’evento > reazione di difesa messa in atto dai muscoli debitamente informati dai nervi ecc. SENZA che nessuno sia cosciente di alcunché. Del resto molte nostre reazioni inconsce sono adeguate alle circostanze (come un incremento della frequenza del battito cardiaco quando è utile). Perché mai alcune informazioni hanno bisogno di essere coscienti?
      Dal punto di vista evoluzionistico ciò dovrebbe corrispondere a qualche tipo di vantaggio, no? Ma se ammettiamo che la coscienza non abbia una ruolo causale per definizione essa non può offrire alcun tipo di vantaggio.
      Di qui il “mistero” che Lei sembra negare, ma che a me pare del tutto evidente.

  2. Nella sezione “Le neuroscienze non spiegano perché siamo coscienti” si afferma:
    “Ciò che nessuna spiegazione di questo genere può costitutivamente fare è risolvere lo hard problem, cioè spiegare la ragione per la quale “esiste” una coscienza.”
    Evidentemente non ci si rende conto che la coscienza soggettiva, il ricordo consapevole dei propri pensieri precedenti, NECESSARIAMENTE fa parte del comportamento cosciente: quest’ultimo è causato da quella attività neurale che consente di simulare virtualmente al propio interno molte diverse strategie, e valutarne preliminarmente le conseguenze sul proprio benessere (grazie alla generalizzazione delle esperienze memorizzate) prima di agire concretamente; con grande vantaggio per le probabilità di sopravvivenza. È dunque fondamentale il ricordo dei propri pensieri precedenti (ben distinto dalla memoria delle esperienze realmente vissute al fine di una “mente lucida” e non “allucinata”) che si realizza grazie alle reti neurali ricorrenti (abbondantissime nel cervello), e che rende consapevoli della propria “vita mentale” e coscienza soggettiva.
    Uno zombie filosofico, avendo struttura e conseguente comportamento indistinguibili da un umano, sarebbe capace non solo di calcolare a mente moltiplicazioni a due o più cifre, ma anche di riferire subito dopo con quali passaggi mentali abbia ottenuto il risultato (magari accorgendosi di avere sbagliato); con ciò dimostrerebbe che il suo cervello è strutturato e funziona esattamente come il nostro, e che ricordando i pensieri precedenti ha coscienza soggettiva.
    Con buona pace di Chalmers, I.M.H.O.

    1. Nel risponderLe dovrei ripetermi. La rinvio a quanto replicato al Suo primo commento.
      Qui Lei assegna esplicitamente alla coscienza una funzione che consentirebbe un “grande vantaggio” per la sopravvivenza. Ma Lei stesso ha negato che la coscienza possa essere considerata una causa…
      Come la mettiamo? Se la coscienza non gioca un ruolo causale, non assolve alcuna funzione. La funzione a cui Lei si riferisce viene svolta egregiamente dal sistema nervoso. Ma se il sistema nervoso è così efficiente, che bisogno c’è che quello che fa sia ANCHE cosciente? Una rete neurale (nel senso cibernetico del termine) potrà un giorno emulare le più raffinate capacità umane, assolvendo i compiti più difficili (e superando brillantemente il test di Turing), senza per questo avere alcuna necessità di essere cosciente.

  3. Gentilissimo Dr.Giacometti, La ringrazio di avermi avvisato della Sua cortese replica.
    Vedo con piacere che concordiamo nel valutare assurdo concepire zombies privi di coscienza soggettiva, che però si comporterebbero esattamente come noi, mostrando di ricordare i propri pensieri precedenti e partecipando a ricerche e discussioni sulla coscienza stessa; la quale, sottolineo, non è un “qualcosa”, bensì un processo, una particolare serie di eventi neurali assolutamente concreti (ed indagabili per migliorarne l’individuazione e descrizione), un’ATTIVITÀ caratteristica, EFFETTO di determinate strutture fisiche idonee (non necessariamente biologiche). Tale attività è stata selezionata positivamente dall’evoluzione, poiché decisamente utile alla sopravvivenza dell’individuo in un ambiente variabile, consentendo la corretta valutazione delle differenti conseguenze del proprio possibile agire, grazie all’accurato riconoscimento degli aspetti salienti della situazione presente: ciò in base alla corrispondenza con situazioni vissute in passato, individuate per la somiglianza di come reazioni e stimoli si sono alternati e susseguiti nello sviluppo cronologico delle stesse.
    Le reazioni automatiche funzionano molto bene negli ambienti poco variabili, dove ad es. uno stimolo dannoso conviene sempre sia seguito da una reazione di evitamento: lo stimolo coincide con un grossolano riconoscimento della situazione, e provoca un’unica reazione stereotipata; ciò avviene già negli esseri viventi più semplici, e non richiede apprendimento.
    Gli ambienti variabili premiano la capacità di apprendimento, e possiamo denominare “esseri senzienti” quelli capaci quantomeno di apprendere nuovi riflessi condizionati: cioè, riconoscere da particolari stimoli specifici il ripresentarsi di certe situazioni, in cui determinate azioni sono seguite da un miglioramento dello stato di nocicettori e recettori del benessere; e quindi adottare per il futuro tali nuovi comportamenti adattivi. Quando il riconoscimento delle situazioni non si fonda solo sul semplice stimolo immediato, ma sulla individuazione di sequenze temporalmente estese di azioni alternate a stimoli, ed il comportamento mostra un’altrettanto temporalmente estesa valutazione delle probabili conseguenze, siamo in presenza di “esseri coscienti”.
    È il riconoscimento esteso nel tempo della situazione, in un ambiente ad alta variabilità, che ci consente di non sottrarci troppo ad una puntura, quando è un sanitario a farcela per il nostro bene.
    (I comportamenti a lungo ripetutamente appresi tendono a diventare “automatici” ed impegnare poco la coscienza soggettiva per risparmio di tempo e risorse, ma all’occorrenza torniamo ad esserne consapevoli: la guida dell’auto ne è un esempio.)
    Da tutto quanto sopra mi pare abbastanza chiaro che la coscienza soggettiva, non quale misteriosa entità autonoma (una “cosa” impalpabile, un “oggetto” sfuggente), bensì quale concretamente rilevabile e descrivibile attività neurale, a sua volta effetto di una struttura materiale adeguatamente organizzata, esiste oggettivamente; ed ha un importantissimo ruolo causale nel comportamento macroscopicamente osservabile, determinando un evidente vantaggio evolutivo per la sopravvivenza ed il benessere dell’individuo.
    (Prima di digitare, non riflettiamo forse su diverse modalità alternative per esprimere al meglio i nostri pensieri, ricordandole e valutandole, per poi scegliere ed eseguire quella che ci darà la maggior produzione di dopamina, per la consapevolezza di un compito apparentemente eseguito bene?)
    Resto in attesa di eventuali gradite osservazioni, e La saluto cordialmente.
    Antonino Ippolito

  4. La presenza di quell’attività neurale chiamata “coscienza soggettiva” certamente non è indispensable per la sopravvivenza dell’individuo e della specie di fronte alla cruda selezione naturale operata impietosamente dall’ambiente; infatti la maggior parte della vita sulla Terra è costituita da procarioti ed altri organismi non “senzienti”. (La diffusione ed il successo di una specie non dipendono solo dalla capacità di sopravvivenza dell’individuo ma moltissimio anche dal tasso di riproduzione.) La capacità di apprendimento è solo un aiuto per la sopravvivenza del soggetto “senziente”; ma diventa molto più efficace negli esseri “coscienti”, in cui si completa con quella attività neurale di “coscienza soggettiva”, che permette di valutare ben più accuratamente quale strategia comportamentale convenga poi attuare concretamente.
    Quanto sopra in merito alla funzione della coscienza soggettiva dal punto di vista dell’evoluzione.

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di Giorgio Giacometti