Dall’uno al molteplice… in apparenza

cavolfiore

La prospettiva secondo la quale tutto è Uno ci consente di leggere anche l'(apparente) autocritica di Platone, esposta nel dialogo Parmenide, laddove (cfr. 130e4-131e9), per bocca di Parmenide, Platone sembra ironizzare sulla metafora (presa di mira anche da Aristotele, cfr. Metafisica; I, 987b10 e ss.) della partecipazione, secondo la quale le “cose” parteciperebbero delle corrispondenti “idee” (o “essenze”) (per cui, p.e., questo cavallo qui “sarebbe parte” dell’essenza – o, come diremmo noi, specie – “cavallo”). Si tratta di due diversi livelli di fondazione del discorso:

  1. a un primo livello sembra che si possano intendere le cose come “copie” o “immagini” delle loro essenze “eterne”, immaginariamente collocate altrove (nell’iperuranio), dando luogo a un apparente (e, di fatto, insostenibile) dualismo (grossolanamente associato dalla storiografia filosofica al nome di Platone);
  2. a un secondo livello, a cui sospingono le aporie in cui ci si irretisce nel primo livello (messe in luce, appunto, dal Parmenide), ci si accorge che le “cose” sono semplicemente le loro essenze, solamente colte in una prospettiva “soggettiva” che, dal nostro punto di vista, le moltiplica immaginariamente nello specchio (la cosiddetta “materia”) di in uno spaziotempo illusorio.

Quest’ultima “lettura” è confermata da un fondamentale passo del Timeo di Platone, che gioca con la differenza tra “questo” (l’idea della cosa, ossia la cosa stessa nella sua essenza) e il “tale” (il modo in cui la cosa appare, moltiplicata nello spaziotempo):

Di quello che noi vediamo passare sempre da una forma all'altra, come il fuoco, non si deve dire questo è il fuoco, ma ogni volta: tale è il fuoco; né questa è l'acqua, ma sempre: tale è l'acqua.
[Platone, Timeo, 49d]

Più in generale, c’è da chiedersi: quando Platone parla di “immagini” delle idee (o, più universalmente, considera questo mondo sensibile immagine dell’eterno), intende riferirsi a due distinte “cose”, l’una copia dell’altra? Sarebbe assurdo, come Platone stesso rileva nel Parmenide. Non resta, dunque, che intendere le immagini (o icone) delle cose, non altro che come queste cose stesse in una determinata prospettiva (o traguardate attraverso un determinato specchio deformante) che le moltiplica e le fa apparire nel tempo.

  • Non comprendo come tu possa sostenere che due o più cavalli, anzi gli innumerevoli cavalli, che furono, che sono e che saranno, sarebbero un solo cavallo, se ben intendo questi riferimenti platonici.

Vale la stessa cosa che vale per la coscienza “umana”.

Non differisco da te più che da me stesso in un momento del mio passato o del mio futuro.

Così, “questo” cavallo non è che “il” cavallo, in generale, quale appare ora, con questo colore, con questa statura, ma anche con questa sensibilità, con questi ricordi ecc. Il “singolo” cavallo, entro certi limiti, può variare tutti questi “accidenti”, può diventare un “altro” da sé, nel tempo, proprio come è “altro” dagli altri cavalli. Si dà tuttavia sempre una prospettiva, alla luce della quale il cavallo (“nei” diversi esemplari della specie,  così come nei diversi momenti della vita di un esemplare) è sempre lo stesso.

  • Come puoi mettere sullo stesso piano la differenza tra un individuo e un altro appartenente alla stessa specie e quella tra momenti della vita del medesimo individuo? Un individuo è univocamente determinato dal proprio genoma, mentre, geneticamente, ciascuna specie è solo malamente distinguibile dalle altre specie…

Cio in cui l’universo si ricapitola è effettivamente l’individuo, ma com’esso si manifesta qui e ora, non in quanto si sviluppa nel tempo e diviene altro da sé. L’identità genomica non è sufficiente a rendere l’esemplare di una specie assolutamente uno, come dimostra il caso dei gemelli omozigoti. Per quanto riguarda la specie (parola che traduce il greco êidos, che significa “idea” o “essenza”), senz’altro l’interfecondità degli individui che ne “partecipano”, tratto francamente troppo empirico, non basta a caratterizzarla univocamente, mentre il concetto di pool genico ha limiti troppo sfumati per essere utilizzabile (del resto esso si riferisce più propriamente alle “popolazioni”, altra nozione dai “bordi” sfumati, sostanzialmente convenzionale).

  • Lo vedi? Come può dunque un individuo essere tutt’uno con la sua specie se questa non “esiste”?

Esiste come “range” di possibili genomi ( e correlativi campi morfogenetici) nel cosmo intelligibile, come esiste il rosso come “range” di lunghezze d’onda lungo la scala cromatica. Immagina l’ordine esplicato come il prisma attraverso il quale la luce bianca dell’ordine implicato o cosmo intelligibile si disarticola nei diversi colori fondamentali (le diverse specie viventi).

  • Ammettiamo che sia possibile la reductio ad unum della grande varietà di individui  appartenenti a ciascuna specie. Ma la tua tesi è che tutto è uno, non solo ciascuna delle specie in cui si articola l’essere…

Di nuovo, come nel caso della coscienza umana… Io sono il mondo, cioè l’universo come appare in una certa prospettiva. E tu pure sei l’universo come appare in un’altra prospettiva. Siamo “momenti” diversi dello stesso tutto.

Ma l’identità tra il singolo individuo e il tutto di cui “sembra” essere parte e che ne costituisce l’ambiente può essere considerata anche in modo oggettivo, piuttosto che soggettivo.

  • In che modo?

Consideriamo, di nuovo, “un” cavallo. Sembra un “pezzo” di universo separato da ciò che lo circonda e dagli “altri” cavalli. Ma così non è. Ho brevemente suggerito come questo cavallo sia tutti gli altri cavalli in quanto non è che un “momento” dell’essere cavallo. Ma il cavallo (come l’uomo) è anche il suo ambiente (l’ambiente di qualcuno non è che, oggettivamente, ciò che, soggettivamente, è il mondo nella “prospettiva” di questo qualcuno).

  • Come puoi dire che un vivente è il suo ambiente?

Come l’anima è ciò che contempla (Plotino), un corpo vivente (un organismo) è ciò di cui si nutre, ciò che respira… Nutrizione ed escrezione, inspirazione ed espirazione… questi processi metabolici, rispettivamente anabolici e catabolici consentono al vivente di vivere, di essere ciò che è. Nessun vivente potrebbe sopravvivere fuori del proprio habitat, del proprio ambiente, del proprio mondo, dell’universo nella propria prospettiva. Né si può tracciare un confine netto tra interno ed esterno in un vivente. Non solo l’unghia, ma anche lo strato superficiale della cute di molti viventi è costituito di materia organica morta, una sorta di “protesi” naturale inorganica del vivente, che, in alcuni casi, si continua con altre “protesi” più o meno naturali (la conchiglia della lumaca, la tela del ragno, il nido dell’uccello, il vestito dell’uomo ecc.); continuamente il vivente assimila il non (più) vivente ed espelle, come non più viventi, parti di sé; esso si trasforma in continuazione ed è contraddistinto da uno scambio di energia continua con l'”esterno”.

Del resto ci sono ottime ragioni per concepire ciascun vivente come parte di un vivente più grande che lo contiene. Questo non vale soltanto, per esempio, per i coralli, che possono altrettanto bene venire concepiti come individui e come colonie, ma, più in generale, per tutti i viventi che popolano la Terra, se concepiamo quest’ultima, in base all’ipotesi Gaia di James Lovelock, come un macro-vivente, una vera e propria bio-sfera di cui il biota (l’insieme dei viventi) sarebbe una sorta di organo, ma che sarebbe globalmente costituita anche da rocce, oceani ecc.

Bisogna considerare la Terra come un vero e proprio sistema che comprende tutta quanta la vita e tutto quanto il suo ambiente strettamente accoppiati così da formare un'entità che si autoregola [cioè, in ultima analisi, che "vive"].
[James Lovelock, Healing Gaia, Harmony Books, New York 1991, p. 21, cit. in Fritjof Capra, La rete della vita (1997), p. 119]

In ultima analisi che cos’è mai “un cavallo”?

  • Dimmelo tu.

Non è che l’universo stesso che, qui e ora, si “cavallinizza”, si “piega” assumendo questo “taglio”, questa “forma”, in cui l’universo stesso si riflette (negli occhi, dolci, del maremmano piuttosto che del baio….). Pensa alla piega di un foglio. Apparentemente la piega non è il foglio di cui è piega. Ma, in effetti, abbiamo semplicemente a che fare con un foglio piegato in un certo modo (anche in più modi, in innumerevoli modi), senza poter distinguere precisamente la piega dal foglio.

O pensa a un vortice. Un vortice d’acqua non è il fiume in cui si forma, eppure non potresti tracciare una netta separazione tra il fiume e il vortice. Ciascun vivente è come un vortice di universo, un uni-versum in senso etimologico (un confluire del tutto in un determinato uno), un vortice estremamente complesso e stratificato (come attesta la complessità delle sue strutture, apparati, organi, tessuti, singole cellule, in cui l’intero – il fenotipo – è ricapitolato nel genoma – nel genotipo -), ma non è altro che l’universo stesso in una sua complessa e articolata esplicazione.

Gli organismi viventi, insomma, per quanto si distinguano dal loro ambiente meglio degli oggetti inanimati (distinti come tali solo per l’uso che ne facciamo, ossia per il fine che assegniamo loro), costituiscono semplicemente inviluppi del tutto (simili a vortici), dal confine più o meno indefinito rispetto al loro ambiente.

Per la precisione: i viventi, come altri sistemi fisici (ad esempio i vortici o le bolle), in quanto “strutture dissipative” (Prigogine), sono contraddistinti da un flusso continuo di materia ed energia che li mantiene in perenne squilibrio termodinamico; essi, dunque, esattamente come i vortici, sono “per natura” malamente distinguibili dal proprio ambiente, con il quale devono mantenere una costante relazione osmotica a fini omeostatici.

La metafora del vortice può essere ulteriormente sviluppata se consideriamo la struttura fine dell’universo, così come del vivente: in ultima analisi: onde che si propagano (onde di probabilità in fisica dei quanti, onde di energia dei campi nucleari, elettromagnetici, morfogenetici [?] e gravitazionali, quei campi che, in modi diversi, tengono unito e fanno sviluppare il corpo del vivente come dell’universo…).

Il tutto (l’universo) coevolve, di volta in volta, in forme (individui identici alla rispettiva specie), ciascuna delle quali è, direttamente o indirettamente, tutte le altre, con le quali essa è in una relazione di co-implicazione (non ci sarebbero prede senza predatori, erbivori senza erba ecc., come non ci sarebbe il violetto senza il rosso e il blu). In questa coevoluzione, orientata alla conservazione del tutto (e, anche, alla sua glorificazione), il tutto si temporalizza, diviene, restando simultaneamente se stesso (come, spostandoci dall’ordine fenomenologico a quello ipotetico-isotropico, fa quel “modo” fondamentale dell’universo che la fisica contemporanea denomina energia, costante nell’universo, ma tale da trasformarsi continuamente in forme differenti).

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di Giorgio Giacometti