Quale l’origine del cosmo manifesto?

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La domanda “Perché le cose sono così e non altrimenti?” può essere intesa più precisamente come la domanda seguente: “Come può dall’ordine implicato essere scaturito l’ordine esplicato, quindi lo spazio, il tempo, la vita come ci appaiono oggi?”.

Se l’ordine esplicato non è che l’ordine del cosmo quale si manifesta alla coscienza la questione qui è quella dell’origine “storica” della stessa coscienza.

Ma la coscienza non può esserne scaturita in un certo istante successivo all’inizio, poiché il tempo presuppone la coscienza. L’ordine esplicato è dunque coeterno all’ordine implicato, non è che l’eterno presente della coscienza.

Eppure la coscienza sembra scaturita nel tempo, pur essendo all’origine del tempo. Come ne sarebbe scaturita?

Evolucion_Universo

Secondo le vedute prevalenti l’universo, anche senza che nessuno ne fosse cosciente, a partire da un inizio collocato ca. 13 miliardi anni fa (il famoso big bang) avrebbe attraversato rotture di simmetria che ne avrebbero permesso l’evoluzione secondo la freccia del tempo. Dall’evoluzione casuale dell’universo sarebbe scaturita la vita; dall’evoluzione casuale della vita sarebbe scaturita l’intelligenza; la coscienza ne sarebbe un attributo contingente.

Il problema di questo modello è che sembra supporre un’evoluzione nel tempo, “prima” dal darsi di una “coscienza“, per la quale qualcosa come il “tempo” possa esistere (come dice Aristotele – e ripetono, con alcune variazioni, Agostino e Kant – “risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima” [Fisica, IV, 14, 233a21-26])..

In assenza di coscienza, – si può argomentare – l’universo, ammesso e non concesso che sia qualcosa di “esteso” e non puntiforme, potrebbe venire rappresentare come una distesa a 4 o più dimensioni, immobile e “tutto dato”.

L’inanimato può, infatti, essere rappresentato giacere all’interno di un sistema di assi a più dimensioni che solo a noi appare come spaziotempo. Questo sistema, in sé, potrebbe essere una “varietà” multidimensionale nella quale tutto è già accaduto, tutto è completamente svolto, dunque nulla propriamente “si muove”.

Sotto questo profilo ai corpi può può essere attribuita una completa immobilità finché qualcosa come un’anima non dà loro vita facendo sì che essi si muovano da un luogo a un altro nel tempo. Proclo, ad esempio, giunge alla conclusione che

gli esseri animati [in quanto corpi visibili] hanno il riflesso apparente [èmphasis] del movimento autoindotto e sono a un secondo livello [cioè - potremmo intendere - all'interno di un sistema di riferimento opportunamente costruito] in grado di muoversi da sé, mentre l'anima che si trova in essi a livello primario muove se stessa e al contempo è mossa da se stessa, e attraverso la sua propria facoltà garantisce ai corpi le mere apparenze [indàlmata] del vivere così come anche dell'essere mossi da se stessi.
[Proclo, Teologia platonica, I, 14, 63, 4-8]

Del resto anche Aristotele sa che

l'atto (enèrgeia) del motore [cioè dell'anima] non è diverso dall'atto del mobile [cioè del corpo], giacché questo deve essere il compimento di entrambi
[Aristotele, Fisica, III, 3, 202a13-16].

Il corpo viene concepito in questi passi come qualcosa che riceve solo dall’anima il proprio movimento. Nel nostro linguaggio esso rimane in quiete o si muove non in se stesso, ma soltanto a a seconda del “sistema di riferimento” che adottiamo.

Il paradosso dell’evoluzione, in questa luce, è che il tempo lineare e progressivo, che l’evoluzione richiede per verificarsi, si sarebbe evoluto con l’evoluzione stessa, nel senso che avrebbe iniziato a “scorrere” soltanto con e per i viventi.

Se, dunque, ci disponiamo sub specie aeternitatis, cioè se ci collochiamo immaginariamente, per un attimo, nella prospettiva dell’inanimato, l’albero della vita ci potrebbe apparire come appariva a Linneo piuttosto che a Buffon o a Lamarck: come un tutto simultaneo in cui tutto è già deciso, tutte le “scelte” (o “selezioni”) sono già sempre state fatte.

In questa luce, paradossalmente, la spiegazione funzionalistica dei viventi, sincronica, che fa implicitamente appello alle nozioni di causa finale e formale (esplicitamente evocate da Aristotele), appare la più “scientifica” e attendibile, laddove le spiegazioni “storiche“, diacronichesia che facciano appello all’azione, presunta, della Natura, nel temposia che facciano appello a una segreta azione di Dio (un Dio affatto “antropomorfico”, ossia “umano troppo umano”), “prima” del tempo, appaiono deboli. Esse, infatti, surrettiziamente, presuppongono una determinata configurazione lineare del tempo che è tutt’altro che, tanto scientificamente, quanto teologicamente, fondata.

Tuttavia, potremmo introdurre la nozione di un “tempo debole” o, meglio, “virtuale”, dissociato dalla coscienza, inteso come misura dell’incremento dell’entropia di un sistema, contraddistinto, dunque da un orientamento “passato-futuro”, ma privo di presente. L’incremento dell’entropia del sistema che misurerebbe questo tempo sarebbe legato a rotture di simmetria che renderebbero irreversibile l’evoluzione del sistema stesso.

Tuttavia, da un lato possiamo registrare il fatto, ovvio, che la misurazione di tale incremento implica l’azione di un vivente (l’uomo). Si potrebbe discutere se in assoluto vi sia qualche differenza tra ciò che a noi appare ordinato (con entropia bassa o nulla) e ciò che a noi appare disordinato (con entropia elevata). Sotto questo profilo possiamo leggere, come fa il fisico Carlo Rovelli, l’interpretazione microfisica dell’incremento di entropia negli scambi termici studiata da Boltzmann come se Boltzmann avesse mostrato che

l'entropia esiste perché [noi!] descriviamo il mondo in maniera sfocata. [...] L'entropia è precisamente la quantità che conta quante sono le diverse configurazioni che la nostra visione sfocata non distingue.
[Rovelli, L'ordine del tempo, p. 34]

Rovelli fa il paragone con certe combinazioni nel gioco delle carte. A noi sembra che

se le prime 26 carte di un mazzo sono tutte rosse e le successive 26 tutte nere, diciamo che la configurazione delle carte è "particolare" [...]. A pensarci bene, qualunque configurazione è peculiare, qualunque configurazione è unica, se guardo tutti i dettagli [...]. La nozione secondo cui certe configurazioni siano più peculiari di altre [...]  ha senso solo se mi limito a guardare pochi aspetti delle carte [...]. La nozione di "peculiarità" nasce solo nel momento in cui vedo l'universo in maniera sfocata, approssimativa.
[Rovelli, L'ordine del tempo, p. 35]

Il che porta Rovelli a concludere:

La bassa entropia iniziale dell'universo, e quindi la freccia del tempo, potrebbe essere dovuta a noi, più che all'universo.
[Rovelli, L'ordine del tempo, p. 128]

N. B. Rovelli sviluppa poi quest’intuizione nella direzione del consueto argomento “materialistico”:

Perché dovrebbe esserci un tale sistema fisico [cioè il nostro], rispetto al quale la configurazione iniziale dell'universo risulti speciale? Perché nell'immensità [?] dell'universo i sistemi fisici sono innumerevoli [...]. Fra tutti, per lo sterminato gioco delle probabilità e dei grandi numeri, ce ne sarà quasi certamente qualcuno che interagisce con il resto dell'universo proprio con quelle variabili che si trovavano ad avere un valore peculiare nel passato.
[Rovelli, L'ordine del tempo, pp. 129-30]

Questo genere di argomenti, tuttavia, postulando un universo davvero enorme, nel quale può accadere qualunque cosa, violano il rasoio di Ockham e si espongono a numerose altre obiezioni (come quelle che si richiamano p.e. ai cosiddetti cervelli di Boltzmann),

Se prescindiamo dal rilievo che la freccia del tempo, in quanto orientata dall’ordine al disordine, richiede un particolare vivente (l’uomo) che riconosca e misuri l’incremento dell’entropia cosmica, e consideriamo vivente l’intero universo (enorme ma non infinito!), proprio sulla base di considerazioni ispirate alla termodinamica (come quelle fatte a suo tempo da autori come William James e Alfred North Whitehead), a partire dalla sorgiva ipotesi di padre Lemaitre del 1927 fino alle moderne teorie del cd. big bang (un vivente, nato, cresciuto e destinato a una “morte termica” o, piuttosto, all’inverso, come in Teiihard de Chardin, a un “punto Ω” di “massima complessità organizzata”, per il quale “il tempo si differenzia dallo spazio per il fatto di ereditare schemi [cioè le leggi di natura] dal passato” (Whitehead, cit. in Sheldrake, p. 72)), possiamo tornare a postulare l’esistenza di un tempo virtuale, privo di presente, orientato nella direzione passato-futuro, che renda conto dell’evoluzione dei viventi.

Nondimeno, anche in questo modello, le rotture di simmetria sono inesplicabili: intese come biforcazioni nello sviluppo possibile dell’universo non vi è alcuna ragione che spieghi perché l’universo abbia seguito un percorso piuttosto che l’altro (ad esempio perché sia scaturita un’interazione elettrodebole anzi che no, una forma di vita contraddistinta da molecole dotate di una certa chiralità anzi che di quella inversa ecc.).

rotture

Inoltre emergono anche altri problemi.

  1. Supponiamo che le “parti” di questo universo possibile siano tra loro coerenti e derivabili le une dalle altre come una serie di teoremi concatenati o come gli algoritmi tra loro connessi di un programma (la cui esecuzione, ancora però di là da venire, sarebbe il nostro universo osservabile). Non si capisce come potrebbero scaturirne vita e coscienza, che richiedono quel tempo qui ancora assente. Non si immagina di vedere un triangolo isoscele prendere vita e farsi domande….
  1. Dobbiamo supporre, allora, che queste parti non siano coerenti tra loro e che ve ne siano alcune non derivabili da altre, come la proposizione goedeliana (che può avere un numero infinito di sorelle) non derivabile dal sistema assiomatico nel cui linguaggio è scritta.

Per semplificare è come se l’universo in sé fosse, poniamo, il numero 1. Bene, esso può ovviamente essere identico a se stesso. Può essere 1 = 2 -1; oppure 1 = 3 -2; oppure 1 = 5/3 – 2/3 ecc. Ciò a cui l’uno può essere considerato equivalente, la parte destra dell’uguale può essere un numero infinito di “cose”. Ma quello che qui rileva è che manca un’istruzione per dire all’1 come deve “apparire” oltre il segno di uguale. L’1 può essere tutte queste cose (siamo ancora nel regno del possibile).

Immaginiamo che l’1 o l’universo in sé sia il nostro universo. Si espande rimanendo uguale a se stesso (ad es. conservando la stessa quantità di energia complessiva), ma a un certo punto si ha una rottura di simmetria, compare ad es. la forza elettrodebole con caratteristiche non obbligatorie (avrebbe potuto averne altre, cfr. Penrose). In termini filosofici il determinismo sembra patire uno scacco. Prima di questo “evento” l’espansione avveniva nel “tempo” solo per modo di dire o, meglio ancora, solo nella nostra prospettiva di viventi coscienti già immersi nel tempo. Di fatto, in assenza di rotture di simmetria (rotture che, in fisica, possiamo considerare equivalenti a “salti” logici come quelli per cui una proposizione può non essere deducibile da altre scritte nello stesso linguaggio), non c’è un vero “tempo” perché tutto accade “automaticamente” (come in una sequenza di dimostrazioni logiche o di istruzioni concatenate di un programma informatico).

Pensiamo a questi “eventi” come alle “catastrofi” di René Thom, cioè a punti di biforcazione per i quali la “matematica” che ha condotto fino a lì non può dare indicazioni né fare previsioni se non su basi probabilistiche (come avviene nella teoria del caos). Sono punti in cui entrano in gioco nelle equazioni “infiniti”, cioè singolarità che non consentono di ottenere soluzioni determinate. In Prigogine si parla anche di effetti di risonanza che non consentirebbero, neppure in meccanica classica, di applicare rigorosamente funzioni come le famose hamiltoniane e lagrangiane. [Non evoco qui ancora la meccanica quantistica per non intorbidare inutilmente le acque (il principio di indeterminazione ha diverse interpretazioni, alcune delle quali, già presuppongono quell’osservatore che qui ancora non è entrato in gioco).]

Se ammettiamo che si registrino queste rotture di simmetria, si ripone, dunque, la questione: perché l’universo va in una certa direzione piuttosto che nell’altra (ad es. perché è sorta la forza elettrodebole anzichenò o perché la chiralità dei viventi è quella e non quella opposta)?

 

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di Giorgio Giacometti