La coscienza come “svantaggio” evolutivo

  • zenAmmettiamo che la coscienza non possa essere utile all’organismo che ne appare dotato nella “lotta per la sopravvivenza”, come tu argomenti. Ma mi è stato detto che secondo te essa addirittura comporterebbe uno svantaggio evolutivo! Come intendi sostenere una simile tesi?

Partiamo da una considerazione. Tutto ciò a cui la coscienza sembra servire può essere implementato in modo molto più efficace da un sistema automatico. Deep blue vince sempre su Kasparov. Non c’è ragione che un processo di presa di decisioni, che abbia di mira la sopravvivenza e/o riproduzione dell’organismo in cui avviene, per quanto complesso ed efficace esso sia, debba essere conscio.

  • Perché allora saremmo consci?

Come ho argomentato, la coscienza è necessaria affinché l’universo stesso sia qualcosa. La funzione della coscienza è onto-poietica, non biologica.

  • Tuttavia, hai anche argomentato come la coscienza assolva una ruolo causale, suppongo in riferimento almeno anche all’organismo che ne appare dotato.

Ed è ben per questa interferenza tra coscienza e vita (se la coscienza non emergesse, l’organismo che ne appare dotato agirebbe diversamente da come agisce) che dobbiamo rassegnarci a supporre che tale interferenza, non essendo per forza costruttiva, possa essere distruttiva.

  • Spiegati meglio.

La coscienza può essere riguardata, se assumiamo una prospettiva temporale (che già, in nuce, la presuppone), come il fine o il tèlos dell’universo (altrimenti ancora virtuale o potenziale). In questo senso essa assume la funzione costruttiva di causa finale.

Tuttavia, l’organismo in cui essa si manifesta ne è condizionato. Ad esempio esso può dedicarsi a ricerche sull’origine della coscienza stessa, come un suo “gemello” zombie, in tutto simile, ma privo di coscienza, non farebbe mai.

La coscienza, infatti, una volta assolta la funzione di tèlos, rimane come memoria di se stessa, una sorta di riverbero che modifica significativamente l’agire dell’organismo in cui essa si manifesta.

  • Perché parli di memoria? Io sono cosciente di ciò che accade adesso!

Ne sei sicuro? Ciò che osservi è già sempre passato (se adottiamo la prospettiva spaziotemporale che consegue dal fatto che siamo coscienti): da qualche nanosecondo se si tratta degli oggetti più vicini; da qualche anno o molto di più se si tratta di stelle o galassie. Per tacere di ciò che ricordi. Tutto ciò di cui sei cosciente è passato, appartiene a una sorta di memoria “cosmica” tanto esterna quanto interna. Non sei cosciente delle cose, ma delle loro tracce. Il solo “presente” di cui sei cosciente è quello della coscienza stessa.

Quale funzione potrebbe assolvere, dunque, la coscienza, se ammettiamo tutto questo? Si potrebbe pensare che essa, in quanto memoria, possa costituire non solo un fine dell’universo, ma, per eterogenesi dei fini, un mezzo attraverso il quale conseguire qualche altro fine.

  • Esatto. Potremmo supporre che il condizionamento che l’organismo subisce per il fatto di essere cosciente possa essere utile ad assolvere la funzione biologica della propria conservazione e riproduzione.

E se la coscienza costituisse, invece, un ostacolo?

  • Addirittura? Perché la coscienza non potrebbe svolgere una funzione positiva, invece? In ultima analisi, se rifletto su quello che mi accade posso impostare una risposta efficace agli stimoli che ricevo.

Come già osservato, nulla di quello che potresti fare essendo cosciente di ciò che ti accade (coscienza, peraltro, sempre necessariamente parziale) non potrebbe essere meglio “implementato” da un sistema automatico, del tutto inconscio, di processazione delle informazioni che ricevi dai sensi.

D’altra parte non solo i celebri esperimenti realizzati a suo tempo da Libet, ma anche la comune esperienza suggeriscono come le nostre risposte agli stimoli che riceviamo, in termini ad es. di azioni efficaci volte al fine della nostra conservazione e riproduzione, anticipano di qualche frazione di secondo la coscienza che ne abbiamo (rendendola, dunque, quanto meno superflua). Del resto questo consegue naturalmente dalla caratterizzazione che abbiamo appena tracciato della coscienza come memoria.

Tutti sperimentiamo come riusciamo ad afferrare in volo un oggetto che ci venga lanciato prima di acquisire la consapevolezza di quanto sta avvenendo.

Anche secondo lo zen, come pure è facile sperimentare, riesce a colpire il bersaglio con maggiore probabilità di successo colui che agisce con la maggiore nonchalance, rispetto a chi si sforza di colpirlo esercitando al massimo la propria attenzione.

Ricordiamo tutti il passo della Coscienza di Zeno di Italo Svevo in cui il protagonista si rende conto che, se pensasse a tutti i movimenti dei muscoli della proprie gambe, mentre cammina, il suo procedere risulterebbe quanto meno goffo, se non del tutto inibito.

Ed è esperienza comune come durante un rapporto sessuale un eccesso di attenzione “cosciente” possa determinare un blocco del desiderio e di ciò che ne dovrebbe conseguire in termini di trasformazione del proprio corpo.

In generale, l’apprendimento più efficace è quello che porta ad automatizzare i nostri comportamenti, rendendo inconscia la loro attivazione, come quando guidiamo un auto o suoniamo uno strumento musicale.

  •  Ma nell’apprendimento, ad esempio quando ci si esercita a suonare uno strumento musicale (o a guidare un’automobile), almeno inizialmente, dobbiamo  prendere coscienza dei diversi passi necessari allo scopo.

In realtà sono stati sviluppati con successo in diversi campi metodi di apprendimento “inconsci”: pensa alle strategie di full immersion nell’apprendimento di una lingua straniera o il metodo Ørberg nell’apprendimento del latino come lingua viva.

Si direbbe che quanto meno si è coscienti di apprendere qualcosa, se il metodo è quello giusto, tanto più lo si apprenda.

Anche quando si apprende prendendo via via coscienza dei diversi passi necessari allo scopo (spesso successivamente “automatizzati”, ossia trasferiti nell’inconscio operativo, associato comunemente al cervelletto), non è necessario che la coscienza in quanto tale assolva una funzione. Essa accompagna l’apprendimento, ma che cosa dimostra che lo renda possibile?

  • Mi sembra davvero bizzarro che qualcosa di così prezioso come la coscienza di cui è dotato l’homo sapiens (e forse anche altre creature) possa addirittura essere qualcosa di controproducente, una vero e proprio svantaggio evolutivo!

Abbiamo argomentato ampiamente come la coscienza non possa sensatamente costituire un vantaggio evolutivo (rispetto a qualsivoglia altro “meccanismo” inconscio e soluzione adottata dalla Natura).

Potrebbe trattarsi, allora, di un tratto free rider, inutile, ma necessariamente associato, per qualche ragione che ci sfugge, a un certo grado di complessità raggiunto dal sistema nervoso di qualche organismo. Ma, come hai osservato, appare davvero strano che qualcosa di così “prezioso”, possa avere un’origine così casuale. Abbiamo, del resto, ampiamente argomentato come la coscienza non possa essere alcunché di accidentale, ma essa sia necessaria nell’economia dell’essere.

Poiché non possiamo fare a meno di considerare gli effetti della coscienza sull’organismo che la veicola, bisogna chiedersi di che effetti si possa trattare.

Il fatto che essa ostacoli la conservazione e la riproduzione dell’organismo, inibendolo nel suo agire, in quanto lo orienta piuttosto alla “contemplazione” del cosmo (canalizza l’energia dell’organismo a funzioni non conservative e riproduttive o, semplicemente, sublima la sua libido), potrebbe costituire il necessario prezzo (entropico) da pagare, il costo di questa contemplazione, funzionale al graduale passaggio dell’universo, mediante l’intelligenza di se stesso, dalla potenza all’atto.

L’universo vi sacrifica l’individuo, in cui di volta in volta si incarna, (e la sua stessa speranza riproduttiva) per guadagnare una nuova prospettiva su se stesso.

Del resto, perché conservarsi e riprodursi biologicamente, se si scopre che non si può non “esserci”? Il desiderio d’immortalità con cui Platone contraddistingue èros, sublimandosi, mette le ali: il Figlio in cui si continua se stessi è identico al Padre ed è l’universo stesso.

  • Avrei un’obiezione da muovere a questa tua tesi. Se la coscienza fosse così controproducente ai fini della nostra conservazione e riproduzione, non dovremmo avvertire piacere e dolore!

Perché no?

  • Tutto sembra indicare che l’organismo provi piacere quando compie attività tendenzialmente utili alla propria conservazione (p.e. mangiare) e alla propria riproduzione (p.e. accoppiarsi) e dolore quando la sua conservazione (e quindi riproduzione) è minacciata (p.e. da una grave ferita o da una malattia).  Ma “piacere” e “dolore” sono ciò che sono (due distinte sensazioni) solo in quanto se ne è coscienti. Ecco, dunque, come la coscienza, in questo caso del piacere e del dolore, possa giovare alla sopravvivenza propria e della propria specie.

Ottima obiezione. Alla quale replico come segue.

Abbiamo osservato che anche organismi verosimilmente privi di coscienza, e dunque anche della capacità di provare piacere o dolore, come batteri o piccoli vermi,  si sanno difendere da potenziali minacce e sanno procurarsi risorse per vivere e riprodursi. E lo stesso si potrebbe dire della piante. Noi stessi disponiamo di potenti strumenti di difesa, come il sistema immunitario o la capacità del sangue di coagularsi, strumenti che funzionano senza che ne siamo consapevoli. O no?

  • D’accordo. E con questo?

Ciò sembra confermare la mia tesi, secondo la quale non è necessario essere coscienti per “funzionare” egregiamente come esseri viventi.

  • Rimane il fatto che piacere e dolore sembrano ulteriori mezzi per favorire (non danneggiare) questo “funzionamento”, mezzi che richiedono, appunto, la coscienza.

Oppure che limitano i danni che l’esser coscienti può arrecare.

  • In che senso?

Se ammettiamo che un vivente potrebbe funzionare (e di fatto funziona) egregiamente restando inconscio, l’emergere in lui anche solo di barlumi di coscienza potrebbe costituire un’occasione di distrazione rispetto ai suoi compiti conservativi e riproduttivi.

Supponi ora che la coscienza concentri su di sé tutte le energie del vivente, come essa tende spontaneamente a fare (nella nostra ipotesi di fondo, infatti, la coscienza non è che il modo attraverso il quale l’universo passa dalla potenza all’atto, contemplando se stesso quanto più può). Il vivente, così distratto dai suoi compiti conservativi e riproduttivi, cesserebbe presto di esistere.

Immagina uno scienziato tutto dedito all’osservazione dell’universo. Potrebbe essere così distratto, avere a tal punto la “testa tra le nuvole” (come Socrate nella commedia Nuvole di Aristofane, fonte di questo celebre tòpos), da dimenticarsi perfino di mangiare e di dormire…

In generale immagina quello che accadrebbe se l’Uno si servisse dei nostri corpi per contemplare se stesso, senza essere “avvertito” dei danni che questi corpi potrebbero subire nello svolgere questa missione (che potrebbe egregiamente essere svolta ad es. attraverso sport estremi)…

Piacere, dolore e, più in generale, le nostre emozioni (pensiamo solo alla paura) sono i modi attraverso i quali il nostro corpo ricorda i propri bisogni all’universo che si contrae (o inviluppa) in esso.

  • Ma il corpo non è autonomo nel soddisfare tali bisogni? Non è in grado appunto di soddisfarli inconsciamente, in quanto “meccanismo”?

Lo sarebbe, certo. Ma, se il corpo viene “visitato” dalla coscienza (cioè dall’Uno), questa, come abbiamo argomentato, interferisce con i meccanismi inconsci attraverso i quali il corpo persegue la propria conservazione e riproduzione (la nostra tesi di fondo, come ricorderai, è che, se si è coscienti, si fanno cose diverse da quelle che si farebbero se non lo si fosse). È dunque necessario che il corpo eserciti sull’Uno una forza di attrazione verso di sé (verso la propria conservazione e riproduzione), ciò che chiamiamo anima.

L’anima, in generale, ricorda all’Uno i bisogni del corpo attraverso le emozioni. D’altra parte anche l’Uno ricorda a se stesso, per la stessa via, le proprie aspirazioni. Dalla combinazione  dei bisogni di corpo e delle aspirazioni dell’Uno derivano i desideri dell’anima (diverse forme di èros).

La psicologia del desiderio andrebbe approfondita come qui non è possibile fare. Considera che il corpo stesso non è che un’immagine dell’Uno. L’errata identificazione con questa immagine è l’origine della “caduta”. Da questa prospettiva si possono poi coltivare desideri (“carnali”) che generano vizi, i quali, a loro volta, paradossalmente, nuocciono alla conservazione e alla riproduzione del corpo stesso. Perché accade questo? Ciò deriva dal fatto – altra implicazione “diabolica” dell’esser coscienti – che si può scambiare ciò di cui si ha bisogno con un suo simulacro, ingannando lo stesso piacere (che si prova, allora, per alcunché di non naturale e di non necessario).  Si possono, altresì, coltivare desideri “spirituali”, derivanti dalla memoria dell’Uno, che generano e implicano l’esercizio di virtù (sono cioè impegnativi), e comportano una progressiva disidentificazione con il proprio corpo. Curiosamente in entrambi i percorsi si manca al compito di conservare e riprodurre il proprio corpo.

Piacere e dolore, dunque, effettivamente assolvono una funzione utile per l’organismo nel quale essi, in quanto sensazioni, pervengono a coscienza (contribuiscono, cioè, a conservarlo e riprodurlo), ma ciò non dimostra affatto che la coscienza, come tale, assolva tale funzione!

Il fatto di provare piacere e dolore suggerisce un’altra cosa: proprio perché la coscienza costituisce per un organismo un chiaro svantaggio, tale svantaggio deve venire compensato da emozioni che ricordano all’Uno come conservare e riprodurre l’organismo in cui è l’Uno stesso divenuto cosciente di Sé.

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di Giorgio Giacometti