Coscienza e causalità

Un articolo interessante, di ispirazione cognitivistica, difende l’ipotesi che gli “eventi causali” arrivino alla coscienza (awareness) più velocemente di quelli “non causali”. Purtroppo questo articolo, a causa delle assunzioni implicite da cui muove, non ci aiuta, se non tangenzialmente, a rispondere alla domanda “Che cos’è la coscienza?”.

Si tratta di Causal events enter awareness faster than non causal events di Pieter Moors, Johan Wagemans e Lee De-Wit.

Intanto un’osservazione sullo stesso titolo dell’articolo.

A rigore non si dovrebbe parlare di “eventi causali”, ma bisognerebbe dire che eventi che simulano una connessione come quelle tipiche di eventi che noi interpretiamo come causalmente connessi (per esempio nel caso di “lanci”) entrano più rapidamente nella coscienza degli eventi che non simulano tale connessione.

Tale risultato non dovrebbe, comunque, stupire. In una prospettiva evoluzionistica sembra abbastanza verosimile che gli uomini, come senza dubbio anche gli animali superiori (Schopenhauer attribuiva anche al suo cane la capacità di interpretare i fenomeni attingendo alla categoria kantiana di “causa-effetto”), abbiano imparato abbastanza presto, per sopravvivere, ad anticipare certi eventi (pericolosi o, viceversa, appetibili) sulla base dei loro “prodromi” abituali. Eventi del tutto casuali non potevano ovviamente rientrare in sistemi previsionali efficienti (informaticamente si potrebbe dire che una sequenza di eventi totalmente casuali non è traducibile in sequenze di bit comprimibili sulla base di algoritmi, mentre, se ogni volta che c’è un lampo, segue necessariamente un tuono, è possibile costruire un algoritmo di compressione dell’informazione che semplifica la vita di chi contempla il duplice fenomeno).

Niente di strano che tale “apprendimento” si svolga a una livello abbastanza “inconscio” o radicato in strutture cognitive “basse”, come la percezione. Né che, per la sua utilità, quando una sequenza “apparentemente causale” si verifica, se ne abbia, in apparente contraddizione con il livello in cui essa viene registrata, più rapidamente coscienza.

Quello che si può trarre da questo articolo riguarda la funzione della coscienza. Tale funzione sembrerebbe proprio connessa a esigenze di sopravvivenza (sono più rapidamente consapevole di certi eventi “apparentemente causali” perché mi potrebbero interessare più di altri a fini di sopravvivenza). Il che propone la questione della “causalità” della stessa coscienza (probabilmente il modello da cui noi deriviamo la nozione stessa di “causalità” che poi proiettiamo sugli altri viventi o, addirittura, sugli esseri inanimati). Se la coscienza ha potere causale (come la sua ipotetica “emergenza” evolutiva sembra suggerire), per esempio mi “fa fuggire” più rapidamente (dell’istinto) da sequenze (pseudo-causali) di eventi interpretate come pericolose, come può reggere una prospettiva fisicalistica?

Da un altro punto di vista, però, gli esperimenti discussi da questo secondo articolo non hanno molto a che fare con la questione “metafisica” della causalità. Hume potrebbe continuare ad avere ragione. Certe correlazioni più frequenti o più “forti” vengono interpretate da qualcosa in noi (si tratti di coscienza o di percezione) come “causali” e arrivano prima alla coscienza. E allora? A meno di non ammettere che siamo noi stessi a generare i fenomeni che interpretiamo (come in una prospettiva idealistica), tutto questo dice ben poco circa la natura effettiva di tali correlazioni.

Si tratta di causalità a tutti gli effetti simulata, nel contesto dell’esperimento.  Si potrebbe fare esperimenti con animali superiori per vedere se la sequenza “lampo-tuono” (che non è a rigore causale, perché si tratta di due percezioni dello stesso evento, non di due eventi causalmente connessi) “arriva prima alla coscienza” di sequenze (in apparenza) puramente casuali. Ma non sono di questo genere i classici esperimenti pavloviani sui (poveri) cani (parenti forse di Atman, il cane di Schopenhauer)? A stimoli associati seguono risposte abbastanza prevedibili. Disgraziatamente non possiamo interrogare i cani per sapere se sono anche “coscienti”!

In generale, se paragoniamo la coscienza a una macchina fotografica, agli autori di questi articoli sembra interessare di più la domanda come sia possibile ottenere immagini degli oggetti esterni, esaminando parametri collegati all’obiettivo della “macchina fotografica” (tempo di esposizione, diametro dell’apertura, inclinazione rispetto alle sorgenti luminose ecc.).

A me, invece, acclarato che l’apparato collegato all’obiettivo in qualche modo funziona, interessa piuttosto sapere dove si formano le immagini: una pellicola o un nastro magnetico o un sistema digitale o qualcosa di simile a un occhio umano ecc.

Fuori di metafora, la mia domanda è “Che cos’è la coscienza?”. Rispetto a questa domanda, una domanda “guida” potrebbe essere, più ancora di “Come funziona?”, “Perché ce l’abbiamo?” (dove si scontrano modelli evoluzionistici e anti-evoluzionistici).

La domanda “Come funziona?” (p.e. “In modo discreto o continuo?”) ha un interesse relativo. Certamente, il funzionamento della coscienza è legato alla sua essenza (p.e. l’ipotesi di Penrose sulla sua natura quantistica – così come le ipotesi di matrice cognivistica – non sarebbe una buona ipotesi di partenza, se si evidenziasse sperimentalmente che la coscienza funziona  – poniamo – come un “continuo”), ma tale funzionamento non è sufficiente a determinare quale tra le ipotesi ontologiche relative alla sua essenza è quella vera (o anche solo più verosimile).

Vige, infatti, quella che in epistemologia si chiama “sottodeterminazione”. Se una certa teoria ha conseguenze compatibili con quello che si osserva (poniamo un funzionamento discreto della coscienza), tale teoria (p.e. il framework degli autori dell’articolo) non è necessariamente più vera dì altre teorie (p.e. l’ipotesi di Penrose o quella olografica), le quali potrebbero “salvare” gli stessi fenomeni (che, quindi, sottodeterminano la teoria in esame).

D’altra parte, anche se un solo fenomeno incongruente sembrerebbe poter smentire una teoria, come sostiene Popper, neppure questo è del tutto vero se ci collochiamo nella prospettiva della cosiddetta “tesi di Duhem-Quine”: la stessa “incongruenza” del determinato fenomeno ” può essere rilevata solo a partire da ulteriori assunzioni e, in ogni caso, non è mai possibile determinare che cosa esattamente tale incongruenza  confuti.

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