Ermeneutica del sacro

Parsifal
“Zum Raum wird hier die Zeit…”

 

“Qui il tempo diventa spazio” recita Gurnemanz nel I Atto del Parsifal di Richard Wagner, prima dell’apparizione del Santo Graal. Ma non accade lo stesso intorno a noi, nel mondo?

  • A che cosa ti riferisci?

All’ombra della globalizzazione si registra una strana resurrezione di visioni del mondo e pratiche che credevamo da tempo estinte. Ciò che sembrava passato, morto e sepolto, si scopre di nuovo attuale, magari (ma neppure troppo…) altrove.

  • A che genere di visioni e pratiche ti riferisci?

Alle visioni e pratiche più diverse: dalla subordinazione della donna all’uomo al risorgere di forme di schiavitù, dalla lapidazione delle adultere allo sgozzamento dei nemici religiosi e politici, dal potere di vita e di morte dei genitori sui figli….

  • Ma si tratta di visioni e pratiche barbare che speriamo cessino al più presto!

Puoi certamente sperarlo, ma non puoi più dare per scontato che la visione del mondo, fondamentalmente illuministica, di cui siamo eredi in Occidente, oggi sia la sola possibile, la sola legittima. Dopo colonialismo e imperialismo che titolo abbiamo, come occidentali, di considerare semplicemente “barbare” le altre culture?

  • Questo tuo “buonismo” non mi piace. L’Occidente avrà le sue responsabilità, ma non mi sembra che questo comporti che dobbiamo accettare supinamente qualsiasi altro punto di vista!

Non ho detto affatto che dobbiamo “accettarlo supinamente”!

  • E che dovremmo fare, allora, per difendere i nostri valori?

Per difendere il nostro way of life, nel senso più ampio del termine, dobbiamo imparare a giustificarlo contro coloro i quali, anche solo implicitamente, con la testimonianza del loro diverso modo di agire, lo contestano. Quello che io sostengo è che non possiamo più dare il nostro stile di vita per ovvio. E non si tratta di difenderlo solo da visioni e pratiche che, se vogliamo continuare a credere nel mito del progresso, possiamo considerare “arretrate”. Pensa a coloro che trovano del tutto legittime pratiche “futuribili”, ma neppure troppo, come la diffusione massiccia di cibi ogm, il suicidio assistito, la clonazione umana ecc.

  • E come giustificare, allora, il nostro way of life?

In questa sorta di implosione delle differenze, che si sta realizzando in questa vera e propria contaminazione della culture, possiamo e dobbiamo intrattenere, con gli esponenti di qualche cultura “totalmente altra”  forme di dialogo, non c’è alternativa.

  • Certo, tutti si riempiono la bocca della parola  “dialogo”. Dovremmo dunque dialogare con chi si fa esplodere uccidendo decine di altre persone, compiendo quello che considera un “martirio”?

Un dialogo presuppone la disponibilità di entrambe le parti a intrecciarlo. Lo si può tentare anche con un cosiddetto kamikaze (prima che si faccia esplodere), chiedendogli ragione del suo comportamento, senza necessariamente ottenere risposta…

  • Lasciamo stare il kamikaze… Ma è davvero possibile dialogare anche soltanto con chi, ad esempio, considera la donna inferiore all’uomo e magari ammette perfino la schiavitù?

Perché no? In ultima analisi anche Aristotele riteneva appunto le donne inferiori agli uomini e giustificava la schiavitù.

Aristotele considera gli schiavi «strumenti animati» (cfr. , Politica, I, 4, 1253b23-1254a18), mentre riguardo alla donna scrive (cfr. Politica, I, 5, 1254b6.16):

È naturale e giovevole per il corpo essere soggetto all’anima, per la parte affettiva all’intelligenza [...]. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno, per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata - ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio in questo modo.
  • Ma che dici? Vorresti sostenere che schiavitù e subordinazione della donna non sarebbero disvalori, in termini assoluti?

Lo sono senz’altro per me. Forse lo sono per “noi”, qui, in Occidente. Ma, per dirla in forma brutale e politically uncorrect, non lo sono “assolutamente”. Almeno, non è immediatamente vero che lo siano. Si deve sempre di nuovo ri-argomentare e giustificare il fatto che lo siano.

Pensa, per esempio, all’attuale condizione femminile in Paesi che hanno una “cultura” diversa da quella occidentale o alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’Islam, adottata dall’Organizzazione della Comunità Islamica nel 1990, che, all’art. 6 prevede che «la donna è eguale all’uomo in dignità umana», ma precisa subito dopo (maliziosamente?): «ha i suoi propri diritti di cui dovere e i suoi propri doveri da osservare» (cit. in Giuseppe Giliberti, Introduzione storica ai diritti umani, Giappichelli, Torino 2012, p. 155).

L’autocritica dell’Occidente dall’epoca della fine del colonialismo, condotta a fondo, sta mettendo in crisi gli stessi fondamenti cristiani e illuministici che l’avevano ispirata.

  • Ma come dialogare se non a partire da una nostra identità?

Quale identità? Quella che ha condotto a tutto questo? O quella che ci autorizza a fare della satira sul profeta Muhammad in modo tale che, se qualcuno prendesse in giro, ad esempio, allo stesso modo la Vergine Maria, ci scandalizzeremmo?

Una precondizione di un autentico dialogo  è il rispetto reciproco. Come  noi condanniamo chi ci apostrofa con epiteti razzisti e sessisiti, l’appartenente ad altra cultura si aspetta legittimamente che condanniamo anche chi offende, ad esempio, la sua sensibilità religiosa…

  • In effetti noi ci concediamo volentieri forme di ironia e sarcasmo, spesso perfino verso noi stessi, che non in tutte le culture sono accettate, anzi neppure comprese…

In effetti, l’ironia è un atteggiamento nato nel mondo greco, insieme con la filosofia (socratica), diffusosi in quello romano e proprio esclusivamente dell’Occidente (non se ne trova traccia presso altre culture). Se adoperata con cura è certamente un’arma intelligente, esercitata dalla stessa filosofia… Ma non dimenticare che un ingrediente della nostra cosiddetta “identità” è il nostro più radicale nichilismo (Nietzsche non sarà impazzito invano!)…

  • E questo nichilismo a che cosa conduce?

Che ai nostri stessi occhi non siamo niente, non siamo nessuno. Ma, se non siamo nessuno, siamo anche tutti. Possiamo indossare tutte le maschere e, come “camaleonti antropologici”, essere più aborigeni degli aborigeni, più buddhisti dei buddhisti, più fondamentalisti dei fondamentalisti.

  • Ma che vai dicendo? Non stai dimenticando il nostro debito verso la civiltà greca, in particolare per quanto riguarda proprio la filosofia. Non potrebbe essere propria questa la radice dell’Occidente?

Non la dimentico affatto, tutt’altro. Ma che ci dice questa radice?

  • Non lo so. Dimmelo tu.

Che non siamo. Per Parmenide, Platone e Aristotele gli “individui” sono solo “fenomeni”, cangianti e, perciò, contraddittori, di qualcosa di “universale” ed “eterno” che essi stessi non sono.[

Parmenide ad esempio, afferma (fr. 8 (Diels-Kranz), v. 38-39): «Nomi saranno tutte quelle cose che i mortali hanno stabilito, convinti che fossero vere»; Aristotele precisa (Metafisica, VII, 3, 1043b25): «Non è possibile definire l’essenza [individuale]» (tema ripresa da Johann W. Goethe, cfr. Id, Briefe, I, in Werke, p. 325: «Individuum est ineffabile»). Di Platone è nota l’opinione secondo la quale le “cose” non sarebbero che “ombre” delle Idee, nella “caverna” costituita dall’ingannevole mondo dei nostri sensi. Il tutto sfocia nella ricapitolazione “a-cosmica” del (neo)platonismo…

Qualcosa di simile ci suggerisce l’altra grande tradizione sapienziale indoeuropea, quella hindu-buddhistica. Forse è proprio questa la radice del nichilismo. Ed è la consapevolezza di questo “non essere”, che, oscuramente, ci rende indistruttibili, e che ci ha fatto vincere la battaglia della culture, imponendo globalmente il nostro modello (matematico, economico, razionale, ma soprattutto: ludico) di vita e, prima ancora, di scienza. Se come “cristiani” possiamo, forse, ancora “tollerare” le altre culture, come “nichilisti”, cioè come “Greci”, invece, siamo il reagente che, appena esse ci toccano, le dissolve. Abbiamo inoculato nelle “Tradizioni” il germe patogeno del dubbio, dell’ironia, del gioco, del nichilismo.

  • Mi sembra un quadro piuttosto disperante…

Non se consideriamo il ruolo che può giocare proprio la filosofia, attraverso l’esercizio del dialogo, di cui parlavamo prima. Certo, a condizione di accettare alcune precondizioni.

  • Quali?

Come insegna l’arte maieutica, bisogna  partire dai presupposti dell’altro, non dai nostri. Il che implica sospendere, nell’atto di proporre un dialogo, anche i nostri pregiudizi, come quelli che ci fanno fare della facile satira sulle figure care ad altre religioni.

  • Che cosa dovrebbe esattamente accadere, se il dialogo fosse condotto a fondo?

Dovrebbero “saltare”, da ambo le parti, tutte le forme di fondamentalismo, ossia la pretesa di prendere alla lettera testi considerati sacri e intangibili.

  • E come?

Mostrando

  1. che l’interpretazione “letterale” di un Testo Sacro è impossibile, perché ogni interpretazione, in quanto tale, deve fare i conti l’ambiguità strutturale del linguaggio (ogni intepretazione pretesa “letterale” è, in realtà, una lettura che muove dai presupposti del lettore non revocati in discussione)
  2. che certe interpretazioni considerate più autorevoli di altre, ma tendenzialmente fonte di conflittualità, perché ispirate dall’idea del primato di una determinata religione e/o dall’esclusività della rivelazione che attraverso di essa si medierebbe, non solo non sono necessariamente più vere, ma, soprattutto, portate alle estreme conseguenze, generano contraddizioni insanabili
  3. che la sola via che rimane per conferire autorità a un Testo (sacro o meno che sia) è leggerlo, in forma allegorica o simbolica, a partire dalla nostra esperienza, un’esperienza “di verità” nella quale, se filosoficamente coltivata, le differenze tra le nozioni di “bene” e di “vero” delle diverse religioni e culture tendono spontaneamente a sfumare, fino a cancellarsi.

Anche per questa via, dunque, il tempo apparente delle diverse rivelazioni storiche si estinguerebbe nello spazio di una conoscenza condivisa, come quella, pur difficile, a cui aspiravano i membri dell’Accademia di Platone, qualcosa

che non si può in alcun modo comunicare, ma s'accende come fiamma da fuoco che balza: nasce all'improvviso [exàiphnes] nell'anima dopo un lungo periodo di discussione sull'argomento e una vita in comune, indi si nutre da sé medesima [Lettera VII, 341c-d]
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di Giorgio Giacometti