Un’attenta analisi fenomenologica mostra che tre sono gli strati fondamentali della realtà.
1. Innanzitutto vi è la “realtà in atto”, l’esserci, ciò che si dà, ciò che comunemente denominiamo coscienza (ma solo perché, eredi del dualismo cartesiano, presupponiamo erroneamente e comunque indimostrabilmente, che si tratti di un fenomeno biologico, limitato, all’interno di un universo reale indipendente e in se stesso sussistente).
Questa “realtà” è qualcosa che è e non può non essere; quindi è qualcosa di assolutamente necessario.
2. Muovendoci, per così dire, all’interno di questa “realtà” (e non possiamo certo andare altrove!) possiamo volgere la nostra attenzione e descrivere alcune “cose” (secondo strato) che ci appaiono a loro volta assolutamente necessarie, evidenti, come le “verità” geometriche, logiche e matematiche. Esse appaiono inoltre indipendenti da noi.
Si tratta di un universo intelligibile costituito di oggetti tra loro strettamente correlati e interdipendenti. Esso non potrebbe essere diverso da quello che è.
Esso ci appare sempre parzialmente via via che vi rivolgiamo l’attenzione ed è sempre identico a se stesso.
In questo universo intelligibile non vi sono propriamente relazioni di tipo causale, ma soltanto di implicazione reciproca.
3. Possiamo, tuttavia, anche volgere la nostra attenzione all’universo sensibile (terzo strato), contraddistinto dal tempo e dallo spazio.
Questo universo ci si offre sempre in prospettiva. Ciò che ci appare in questo universo ci appare contingente: ci sembra che esso potrebbe anche essere diverso da come è.
Ci sembra anche di avere un corpo proprio e di poter agire con un certo margine di libertà (agency) all’interno di questo universo.
Ciò che intendiamo per causa, quando la riferiamo a qualcosa in questo universo sensibile, non è altro che una proiezione su qualche fenomeno della nostra agency, secondo quanto ci insegna la teoria manipolativa della causalità.
Viceversa, quanto più consideriamo una certa serie di eventi come necessaria, come contraddistinta da una forma di determinismo, proiettandovi “pezzi” del mondo intelligibile, tanto meno vi possiamo riconoscere vere e proprie cause.
Questa catena di eventi potrebbe idealmente venire percorsa in entrambe le direzioni, ha carattere simmetrico (ha i caratteri dell’immagine – in senso tecnico – di una funzione matematica, ad esempio di un’hamiltoniana o di una funzione d’onda di Schroedinger).
N. B. All’interno di un universo deterministico non solo non si hanno cause, ma a rigore non vi sono neppure forze, che non siano apparenti.
Se il modello matematico o comunque deterministico che adottiamo per interpretare certi fenomeni è abbastanza simile ad essi (ne è un’adeguata metafora), permettendo di prevederli, possiamo dire che questo modello spiega questi fenomeni.
Invece, si ha vera e propria causalità, quando si assume che il tempo in cui i processi si svolgono sia autentico, cioè dia luogo a sempre possibili “scelte” (rotture di simmetria) che rendono i processi stessi irreversibili: in assenza delle supposte cause si deve avere ragione di credere che le cose sarebbero potute andare diversamente.
N.B. In questo quadro si ha a che fare con forze vere e proprie.
Poiché le cause che attribuiamo alla natura non sono altro che la proiezione della nostra agency, esse non possono che essere inestricabilmente cause insieme efficienti, formali e finali.
Infatti, per la teoria manipolativa della causalità, si ha causa, se e quando posso, anche solo idealmente, modificare le condizioni alle quali si sviluppano certi processi. Ma ogni mio intervento in natura è sempre, almeno implicitamente, guidato da un’intenzione e da un obiettivo (rispettivamente una causa finale e formale), oltre che dall’esercizio di una forza sufficiente a determinare il risultato (causa efficiente). Del resto, come si potrebbe ridurre la causalità alla sola causalità efficiente, in assenza di un “disegno”? L’applicazione della variazione nel decorso di un certo processo sarebbe del tutto casuale, dunque ingiustificata.
N. B. Sul rapporto tra l’azione delle cause finali e formali in natura e la coscienza vedi oltre.
Naturalmente, l’azione delle tre cause in parola (essenzialmente unificate nel caso dei viventi) suppone ciò su cui tali cause operano (il processo o fenomeno che ne viene modificato), ciò che ne costituisce la materia e, in quanto è condizione dell’azione causale, può essere denominato “causa materiale”.
Non si tratta, in alcun modo, della “materia” intesa come “massa” dei corpi, postulata p.e dalla teoria di Newton (che sappiamo oggi può essere reinterpretata come l’effetto su certe onde-particelle dell’azione del campo di Higgs), ma semplicemente di ciò che si manifesterebbe in assenza dell’azione causale.
Abbiamo parlato di agency. Esiste dunque un libero arbitrio? Almeno noi siamo liberi?
Le cose sono un po’ più complicate. L’impressione che abbiamo di essere liberi (la agency) deriva dal fatto che ciò che facciamo non può essere spiegato o previsto sulla base di qualche tipo di algoritmo, del quale possiamo a nostra volta prendere coscienza.
Altrimenti,
- o, sapendoci determinati da tale algoritmo, non ci percepiremmo più liberi
- o, viceversa, se fossimo (e ci sapessimo) liberi di trasgredirlo, non potremmo più spiegare e prevedere sulla base di esso le nostre azioni, dunque esso non sarebbe più l’algoritmo dal quale esse per ipotesi conseguono.
N. B. È vero che, come anche i celebri esperimenti di Libet suggeriscono, ciò che decidiamo in ogni istante appare come il risultato di qualcosa che accade bensì contingentemente (come ogni altro evento sensibile), ma viene sempre “scelto” dal nostro “cervello” prima che se ne sia coscienti.
Tuttavia, possiamo interpretare questa circostanza come un caso particolare del “principio antropico“: come l’universo non sarebbe contraddistinto da certe condizioni iniziali e da certe leggi di natura se certe occorrenze della coscienza (come quelle che contraddistinguono homo sapiens) non ne fossero scaturite, così io non avrei deciso questa o quella azione se tra tutte le precondizioni neurobiologiche possibili, in sovrapposizione di stati quantistici, non fosse prevalsa la sola coerente con la mia decisione successiva (a cui corrisponde una determinata occorrenza della coscienza). Insomma si può supporre che operi in tutti questi casi una forma di retrocausazione.
Dobbiamo immaginare l’esserci o coscienza come la punta di un cono di luce (o, il che è lo stesso, il centro di un orizzonte degli eventi) rivolto verso il passato.
N.B. Generalmente il “cono di luce”, disegnato in uno spazio di Minkowski ridotto a due o tre dimensioni, è aperto verso il passato e verso il futuro. Nulla vieta, tuttavia, di disegnarlo in modo tale che l’apice del cono rappresenti il presente della coscienza. Se, nella rappresentazione normale, tale apice si muoverebbe dal passato verso il futuro, in questo disegno il cono futuro è cancellato e tutto ciò che via via accade è ricollocato nel cono del passato.
Tutto ciò che circonda il cono di luce altro non è che il possibile, mentre ciò che è compreso nel cono (nell’orizzonte degli eventi) è ciò che, di volta in volta, (si può trattare di una galassia lontana anni luce o del sorriso di un amico a pochi metri di distanza) passando per l’apice, è divenuto reale ed è, via via, trascorso.
A rigore noi “osserviamo” sempre solo cose che, disposte su un asse del tempo, risultano passate, sia pure di qualche nanosecondo.
Ciò che è possibile tende, attraverso onde di probabilità crescente, a divenire reale (a passare attraverso l’apice del cono di luce). Ci dobbiamo rappresentare la coscienza universale o l’essere in atto, nelle sue innumerevoli occorrenze, come la causa inscindibilmente efficiente (quando è contraddistinta da agency) e finale (come nei fenomeni che obbediscono al “principio antropico”) che orienta il possibile verso di sé, in un modo che, tuttavia, almeno dal punto di vista della coscienza stessa, non è mai interamente esplicabile, né prevedibile (riducibile deterministicamente, per le ragioni dette).
Nondimeno dobbiamo esigere che tutte le occorrenze della coscienza siano correlate in modo da non poter essere diverse da quelle che sono (superdeterminismo o Fato), per rendere conto dell’esistenza di un “mondo comune oggettivo”, cioè di un’harmonia praestabilita tra le esperienze soggettive (ad es. tra ciò che vivo adesso e ciò che ricordo di avere vissuto in passato; o tra ciò che vivo io e ciò che vivi tu).
In questo quadro l’interpretazione secondo la quale certi processi naturali, come quelli che contraddistinguono i viventi, si svolgono secondo cause formali e finali (ad entropia interna nulla o negativa), dipende dall’invisibile retrocausazione delle future occorrenze della coscienza.
Ad esempio, la caduta, apparentemente casuale, del celebre asteroide che fece estinguere i dinosauri è compatibile con l’evoluzione di un universo in cui possano apparire quelle occorrenze della coscienza di cui è veicolo l’homo sapiens.