Indizi dell'”esistenza” di Dio (e degli “dèi”)


Dio

  • La tua serrata critica al paradigma meccanicistico e al materialismo ti ha portato a riesumare la “cause finali” e “formali”.  Mi sembra che tu abbia preso una brutta china… Scommetto che finirai col dirmi che anche Dio esiste! Anzi, voglio proprio domandartelo. Tu credi?

Comunemente distinguiamo credenti e non credenti, quasi che si trattasse di due partiti o che si trattasse di indossare o meno un certa maglietta per farsi riconoscere dagli altri, amici e avversari. Tra i credenti, poi, ci si distingue a seconda della religione o della “denominazione religiosa” di appartenenza…

  • E che ci sarebbe di male in tutto questo? Bisogna essere intellettualmente onesti e “confessare” la propria fede, se se ne ha una; anzi, in molte religioni la professione di fede fa parte dei doveri “missionari” del credente.

Non c’è niente di male, se si crede in qualcosa, a confessare la propria fede (come ho fatto io stesso, in altro contesto, dichiarandomi diversamente cattolico). Tuttavia, per evitare equivoci, sarebbe altrettanto o più importante illustrarla e, se possibile, anche giustificarla.

  • Non siamo tutti filosofi. Chi, ad esempio, professandosi cristiano, crede che Gesù sia figlio di Dio e, magari, traendone conseguenze per la propria vita, lo testimonia col proprio comportamento, che bisogno ha di illustrare e giustificare tale sua fede?

Un non cristiano potrebbe obiettare che “siamo tutti figli di Dio” e che testimoniarlo, ad esempio attraverso atti di misericordia, non sia un'”esclusiva” dei cristiani.  Il cristiano, quindi, se non vuole confondersi con credenti appartenenti ad altre religioni monoteistiche, deve poter illustrare, almeno a se stesso, la propria differenza comprendendo lo speciale significato dell’espressione “figlio di Dio” che i cristiani riferiscono al Cristo. Come vedi, egli non può essere del tutto digiuno di teologia se vuole restare fedele alla propria denominazione (non a caso la Chiesa cura che i battezzati a tempo debito siano “catechizzati”).

Che cosa poi significa essere “Figlio” di un Dio che non partorisce o genera certo come i viventi che hanno un corpo? Si tratta di una metafora? Come lo si deve intendere? Bada che questa e altre espressioni (come che il Padre è creatore di “cose invisibili“, che lo “Spirito procede dal Padre” etc.), che ricorrono ad esempio nella confessione di fede cristiana (il simbolo niceno-costantinopolitano), dovrebbero essere profondamente assimilate e comprese dai cristiani. In mancanza di un’adeguata teologia, infatti, potrebbero venire fraintese o comprese da ciascun credente in modo diverso dall’altro, facendo sì che all’identità di denominazione non corrisponda un’identità di comprensione e, al limite, neppure un’identità di religione.

Del resto, è sotto gli occhi di tutti come, per restare ad esempio nell’ambito della Chiesa cattolica, cattolici diversi (talora anche Papi diversi)  mostrano di intendere e anche di testimoniare la loro fede, con la loro vita, in modo significativamente diverso.

  • D’accordo. Ammettiamo che un lavoro di sempre migliore comprensione della propria fede sia auspicabile anche nel “semplice” credente che voglia dirsi tale, affinché egli la possa illustrare, anche a se stesso.  Ma tu esigevi anche che il credente potesse giustificare la propria fede.

Come leggiamo nella Prima lettera di Pietro, è necessario “rendere ragione” della propria speranza (cfr. Pt3, 15) …

  • Perché? La fede non potrebbe derivare, ad esempio, da un sentimento o da un’intuizione “soggettiva”?

Sentimenti e intuizioni hanno senz’altro un ruolo rilevante, ma non sono sufficienti a rendere coerente e, dunque, convincente un percorso di vita, né agli occhi di chi vi si impegna, né a quelli di chi vi assiste.

  • Perché mai?

Supponi che chi ha fede creda nel potere indirettamente taumaturgico della preghiera (cioè di poter guarire da qualche malattia per grazia o intercessione di qualche santo). Tale fede deve poter essere messa in relazione con l’eventuale fede nel potere della medicina moderna. Se, rivolgendoti correntemente al tuo medico di medicina generale, testimoni di credere anche nella medicina, cioè, in ultima analisi, nella “scienza” moderna, in quali circostanze e per quali ragioni in certi casi ti affidi alla preghiera? E come immagini che le due possibili azioni di guarigione interagiscano? Come ti rappresenti il tuo stesso corpo in quanto possibile oggetto di modificazioni sia farmacologiche, sia taumaturgiche? Ma, soprattutto, se, credendo comunque anche nella scienza, credi al paradigma meccanicistico che è sotteso alla ricerca scientifica, come concili questa fede con quella nella “trascendenza”? Non cadi in contraddizione? Come può restare credibile la tua fede, se non sei disposto a mettere in discussione tale paradigma meccanicistico?

Un altro esempio può venire tratto dai Vangeli. Se credi anche al significato letterale dei Vangeli, come concili l’ascensione di Cristo al “cielo” con il suo corpo (cfr. Atti, 1, 9-10) con le acquisizioni dell’astronomia moderna? Si narra nel Vangelo che Gesù venisse sollevato in alto sotto gli occhi dei discepoli. Se questo racconto, alla luce delle nostre conoscenze moderne, deve essere inteso soltanto come simbolico, perché non anche quello (del tutto simile, sul piano letterario e formale) della resurrezione (la cui interpretazione in senso letterale viene, invece, spesso intesa come cruciale)?

In generale, se un credente “in Dio” crede in qualcos’altro, in particolare nella “scienza”, si trova a dover conciliare credenze che, spesso, appaiono in contraddizione reciproca. Per restare credibile nel suo credere “religioso” non può non impegnarsi in una ricerca della giustificazione di tale fede, ad esempio nella forma di una dimostrazione del fatto che è possibile conciliarla con la scienza in una visione del mondo coerente e, dunque, sostenibile sia sotto il profilo teorico sia sotto il profilo della “testimonianza” vissuta.

  • D’accordo. Ammettiamo che chi crede debba comprendere e giustificare la propria fede. Ritorno al quesito iniziale. Tu credi?

Poiché, presa alla lettera, la tua domanda è un po’ generica, ti propongo di riformularla in un modo solo un po’ più specifico: “Tu credi in Dio?”.

  • Va bene. Ottima riformulazione.

In queste pagine ho finora cercato di dimostrare che “tutto è uno” e che, per esistere,  è, di volta in volta, di occorrenza in occorrenza, necessariamente cosciente di sé attraverso di “noi”, quelli che appaiono singoli organismi viventi.

Possiamo, quindi, innanzitutto chiamare Dio questo Uno che noi stessi siamo, ma non sappiamo o ricordiamo di essere, secondo la tradizione (neo)platonica (ma cfr. anche Bruno e Spinoza).

  • Questo “Dio”, non consapevole di sé, identico alla Natura nella quale si manifesta e che contempla (attraverso la coscienza), sembra alcunché di immanente. Il tuo monismo sul piano religioso sembra francamente un panteismo.

Come ho argomentato altrove, la distinzione tra trascendenza e immanenza, così come quella tra dualismo e monismo, è difficile da mantenere (come distinzione che abbia senso) quando ci si riferisce a qualcosa di impalpabile come Dio (o la stessa coscienza), che non è qualcosa che possa avere un “dentro” e un “fuori”, un “sopra” e un “sotto”.

Nondimeno forse Dio è qualcosa di più simile al modo in cui comunemente se lo rappresentano le religioni monoteistiche, cioè come trascendente e come persona, se consideri quanto segue.

Come abbiamo visto, possiamo spiegare la forma che ha il nostro universo sulla base di un principio antropico forte: se non fosse cosciente di sé, attraverso l’homo sapiens (a meno che non lo sia o lo fosse attraverso altre creature), l’universo propriamente non esisterebbe, resterebbe nel limbo dei possibili.

  • Esatto. Ma ciò non sembra conferire alcun ruolo attivo a Dio. La sola coscienza, nel nostro caso umana, funge da causa finale e giustifica la forma del nostro universo.

Finora ho argomentato che nessun universo possa manifestarsi se non vi si produce almeno un’occorrenza della coscienza.

Tuttavia, nel nostro universo, anche solo se guardiamo all’evoluzione dell’homo sapiens, per tacere di innumerevoli altri animali che possiamo presumere dotati almeno di barlumi di coscienza,  le occorrenze della coscienza sono innumerevoli.

Ma ecco qual è il punto: possiamo immaginare innumerevoli universi diversi dal nostro in cui si manifestino innumerevoli altre occorrenze della coscienza.

Ad esempio, se il celebre asteroide non avesse provocato circa 60 milioni di anni fa, come sembra, l’estinzione dei dinosauri, forse l’uomo non sarebbe mai apparso.

Ora, se supponiamo che i dinosauri non fossero coscienti (né altri animali del loro tempo), possiamo “spiegare” la caduta, apparentemente casuale, dell’asteroide sulla Terra, come effetto “retro-causato” dall’apparizione dell’uomo, quale causa finale (gli universi simili al nostro nel quale i dinosauri fossero sopravvissuti non sarebbero mai passati all’esistenza, perché nessuno ne sarebbe stato cosciente).

Ma che cosa vieta di supporre (come anzi vari indizi suggeriscono) che i dinosauri stessi fossero già coscienti o che, comunque, da essi sarebbe potuta evolvere una forma di vita cosciente?

In termini più tecnici possiamo considerare quanto segue: se i viventi, come ho argomentato, in quanto configurazioni all’interno delle quali il disordine viene ridotto, sono sistemi nei quali le onde di probabilità quantistica che attraversano lo spazio tendono a raggiungere creste di probabilità unitaria, cioè favoriscono la transizione dal possibile al reale o, il che è lo stesso, dall’inconscio alla coscienza, possiamo immaginare che quest’evoluzione si verifichi in innumerevoli e diversi mondi possibili, reciprocamente incompossibili.

Perché, allora, di tutti i mondi reali che avrebbero potuto emergere dai possibili è emerso proprio e solo il nostro?

N.B. Nel nostro universo, come ho argomentato, tutte le occorrenze della coscienza sono tra loro correlate (vige un’harmonia praestabilita o, se si vuole, una sincronizzazione universale). Ciò spiega perché, ad esempio, quando si verifica il collasso della funzione d’onda in riferimento a una qualsiasi particella, a seguito di un’osservazione/misurazione, tutte quelle che sono entangled con lei si trovano in stati corrispondentemente correlati all’atto della loro osservazione/misurazione. È come se si verificasse un unico collasso della funzione d’onda, cosmico, determinato “simultaneamente” da tutte le occorrenze della coscienza, cioè dagli innumerevoli modi nei quali l’universo (o Dio) prende coscienza di sé. Il nostro universo è dunque un vero e proprio mondo, un ordine le cui parti sono tutte perfettamente integrate. Esso è essenzialmente uno. Questa è una delle ragioni per cui non parlo di “coscienze”, ma di occorrenze o momenti di un’unica coscienza cosmica correlata a un unico universo reale, tratto dal multiverso degli universi possibili.

Ciò precisato, perché “esiste” il nostro mondo, con questo determinato intreccio di occorrenze della coscienza, e non invece un mondo popolato da dinosauri (nel quale l’asteroide non fosse caduto “casualmente” sulla Terra), se in entrambi i mondi – supponiamo – sarebbe potuta emergere attraverso qualche vivente la coscienza (con diversi  innumerevoli intrecci di occorrenze)?

  • Forse di tutti i mondi, che potevano emergere dal possibile, è emerso quello nel quale si registra la maggior “quantità” possibile di occorrenze della coscienza…

Già, ma perché dovrebbe essere proprio così? In ultima analisi, nella mia ipotesi, queste occorrenze agiscono “ciecamente”, sia pure come cause finali, non esiste un “progetto” o un “disegno” congegnato da qualcuno.

Nella mia interpretazione del “principio antropico”, se questa determinata occorrenza della coscienza non fosse scaturita, l’universo non si sarebbe mai manifestato da questo punto di vista (il che, peraltro, è una tautologia).

Se nessuna occorrenza della coscienza fosse scaturita, nessun universo “esisterebbe”.

Tuttavia, ciò non spiega affatto perché questa e non un’altra occorrenza sia scaturita, né impone che debbano scaturire quante più occorrenze della coscienza è possibile.

Per tacere, poi, della difficoltà a “numerare” queste occorrenze. Non si tratta, infatti, di singoli individui coscienti, ma di “momenti” di coscienza che attraversano diversi individui e che non sono affatto reciprocamente delimitati l’uno rispetto all’altro (come sperimentiamo in ogni istante, quando, immersi nel momento presente, lo vediamo sfumare nel passato e nel futuro).

Il criterio della “quantità” potrebbe confliggere, poi, con quello dell'”intensità”: potrebbe essere considerato “più cosciente” di sé un universo in cui si registrassero meno occorrenze della coscienza, ma queste fossero più intense (meno animali semi-coscienti e più esseri umani, ad esempio).

Sempre ammesso che la “maggiore” coscienza di sé, comunque immaginiamo di misurarla, possa essere un criterio di “scelta” tra universi “possibilmente reali”…

  • E come pensi di risolvere questo problema? Come spieghi perché è sorto proprio questo universo e non un altro, pur sempre cosciente di sé? Quale ruolo avrebbe Dio in tutto questo?

Prendiamo a modello la scelta che ci sembra di poter compiere tra diverse possibili azioni. Ciò che ci sembra di scegliere “volontariamente” e “coscientemente”, secondo i celebri esperimenti di Libet (che abbiamo già altrove evocato) e numerose altre evidenze sperimentali successive, sarebbe anticipato da processi neurali che sembrano determinare inconsciamente ciò che crediamo di essere liberi di scegliere.

Tuttavia, secondo la mia teoria, tutto questo può venire reinterpretato come segue: siamo realmente liberi di scegliere, nei limiti di un libero arbitrio inteso come transizione attraverso un momento di indecidibilità logica (“goedeliana”), caratterizzante ogni occorrenza della coscienza; e quello che decidiamo “retro-causa” lo stato cerebrale necessario e sufficiente a “determinare” (in apparenza) la scelta che operiamo.

  • E perché mai dovremmo reinterpretare le evidenze di Libet e successori in questo modo complicato?

Come ho già argomentato, propriamente non esiste alcun tempo se non per la coscienza. Processi “inconsci”, “proiettati” nel passato, inteso come tempo virtuale, possono venire ricostruiti solo adesso, come necessari precursori del presente di cui si è coscienti.

Ciò vale sia dei processi neurali, “proiettati” qualche secondo fa, che preludono alla mie scelte coscienti, sia dell’estinzione dei grandi rettili,  “proiettata” milioni di anni fa, che ha reso possibile l’apparizione dell’homo sapiens (e, di nuovo, di me stesso), in quanto “organo” mediante cui l’universo prende coscienza di sé. E vale anche del big bang come lo conosciamo: il fatto che in un universo emergano occorrenze della coscienza “retro-causa”, per il principio antropico, un big bang siffatto che tali occorrenze ne possano scaturire.

Ora, che cos’hanno in comune tutti questi “antecedenti” del mio esserci? Si tratta di eventi che hanno un’origine indeterminata: nel caso dei processi neurali, come hanno mostrato da punti di vista diversi le ricerche e le riflessioni di Roger Penrose e Henry Stapp, vi sono necessariamente coinvolti eventi quantistici, contraddistinti da una caratteristica indeterminazione; nel caso del big bang e anche dell’impatto dell’asteroide responsabile dell’estinzione dei dinosauri, possiamo immaginare senza contraddizione altri universi in cui né l’uno, né l’altro si siano verificati.

Ciò permette di considerare il mio esserci come “causa finale” di questi eventi o, il che è lo stesso, come ciò che li “retro-causa”.

Nel caso specifico dei processi neurali studiati da Libet abbiamo anche un preciso modello esplicativo del modo in cui nel presente è possibile “fissare”, osservando un certo evento “presente”, voluto,  un determinato passato neurale piuttosto che un altro, a partire da uno sfondo di indeterminazione: la teoria dell’effetto quantistico di Zenone (quantum Zeno effect) di Stapp.

Immagina che tu stia sul punto di alzare o meno un dito (magari mentre partecipi a un esperimento come quelli allestiti a suo tempo da Libet). Nella ricostruzione di Stapp il tuo cervello esisterebbe in questa sovrapposizione di stati: a) cervello che attraverso i nervi invia il comando “dito alzati” e b) cervello che non invia questo comando. Se alzi il dito, nell’istante in cui questo inizia ad accadere perché vuoi questo e simultaneamente prendi coscienza di volerlo (per te non esistono istanti in cui tu non sia cosciente), fai collassare la funzione d’onda in cui era coinvolto il tuo cervello (qualche istante fa) in modo tale che il cervello mandi (abbia mandato) il comando e il tuo dito possa iniziare ad alzarsi. Per il cosiddetto “effetto Zenone” ogni singolo micro-spostamento verso l’alto del tuo dito, così determinato, favorisce quello successivo (e il corrispondente collasso della funzione d’onda) in violazione della “normale” equiprobabilità degli esiti (secondo la quale, mediamente, ad ogni piccolo spostamento verso l’alto del dito dovrebbe seguire uno spostamento verso il basso, in modo da far risultare, macroscopicamente, l’esito: “nessuno spostamento”).

  • Ammettiamo che le cose stiano così. Tuttavia, a te non sembra di decidere che il celebre asteroide abbia estinto i dinosauri, mentre ti sembra di decidere p.e. di alzare il dito. Dunque, questa “retro-causazione” sembrerebbe operare in modi diversi.

Hai colto un aspetto molto rilevante. Possiamo aggiungere: a me non sembra neppure di decidere che questo determinato fotone sia polarizzato – poniamo – verticalmente quando lo osservo, laddove in assenza di osservazioni esso “volava” in sovrapposizione di stati (era polarizzato sia verticalmente, sia orizzontalmente).

  • Si direbbe, dunque, che quando si manifesta la coscienza come coscienza di qualcosa (secondo la lezione di Husserl), a seconda del rapporto che si ha con questo qualcosa si abbia o meno l’associata esperienza di avere determinato volontariamente ciò di cui si ha coscienza.

Senza dubbio. E questo ci avvicina all’ipotesi dell’esistenza di Dio, degli dèi e anche, genericamente, di altri, non meno coscienti di noi, in assenza dei quali certi eventi sarebbero inesplicabili. Esserci non comporta soltanto una determinata prospettiva dell’universo su se stesso (ciò che viene anche contraddistinto come il carattere privato della coscienza), ma anche un orizzonte limitato (se non altro dal limite posto dalla velocità della luce, alla quale si possono inviare segnali) di potenziale manipolabilità dei processi.

N.B. Gli eventi di cui ci appropriamo come se dipendessero da noi (ne fossimo causa efficiente) suscitano in noi emozioni, convergenti o divergenti rispetto al desiderio che tali eventi si verifichino. In generale il desiderio è il modo in cui ci si manifesta la forza che tende a far passare certi eventi del possibile al reale quando tale transizione appare determinata da noi. Il desiderio si manifesta come volontà quando siffatta transizione si verifica.

  •  In che modo questo ci avvicina all’ipotesi dell’esistenza di Dio?

Il modello del funzionamento del cervello che abbiamo mutuato dagli esperimenti di Libet, reinterpretati alla luce del principio antropico, può essere applicato al funzionamento dell’universo nel modo seguente: gli eventi apparentemente accidentali che occorrono nella natura apparentemente inanimata, come la caduta del celebre asteroide, segnatamente quando vi sono coinvolti processi caotici, ossia tratti di indeterminazione, possano essere interpretati come i necessari antecedenti non soltanto del nostro esserci, ma anche di ciò “Dio” o gli “dèi” vogliono che esista: cioè che “noi” esistiamo e non, ad esempio, dinosauri coscienti, esattamente come tu, volendo compiere questa determinata azione, fai sì che nel tuo cervello si siano svolti – prima – questi e non altri processi neurali.

In ultima analisi è come se l’universo fosse il cervello (e il corpo) di Dio. Ecco, dunque, come possiamo argomentare anche che Dio o gli dèi debbano esistere (per spiegare ex post le “scelte” apparentemente casuali, compiute dalla Natura segnatamente nei processi caotici).

  • Ma non è sufficiente, per spiegare ad esempio la caduta del celebre asteroide, che vi siano certe determinate occorrenze della coscienza cosmica, come quelle “umane”, tali da giustificare ex post (come causa finale) quell’evento, in quanto, determinando l’estinzione dei dinosauri, ha reso possibile l’apparizione dell’uomo?

In un certo senso, sì, la nostra presenza richiede ex post che quell’asteroide sia caduto. Ma che cosa richiede la nostra presenza piuttosto che quella – poniamo – di dinosauri intelligenti e coscienti? Chi o che cosa ha scelto tra questi due mondi “possibilmente reali”, quello in cui ci siamo noi e quello in cui ci sarebbero potuti essere dinosauri intelligenti e coscienti? A questa domanda si può rispondere solo supponendo che si dia un “livello” superiore a quello delle mere occorrenze sparpagliate nello spazio e nel tempo della coscienza cosmica, cioè il livello in cui la coscienza cosmica si riunifichi in se medesima come una sola mente e decida liberamente quale passato vuole avere avuto, in quali “creature” vuole essersi incarnata. Dunque, dobbiamo immaginare Dio come il “punto Omega” (cfr. Pierre Teilhard de Chardin) dell’universo, collocato escatologicamente alla fine del tempo o soteriologicamente fuori del tempo (nell’eone), responsabile provvidenzialmente e segretamente di eventi che oggi ci appaiono casuali, ma che dipendono dal modo in cui Egli preferisce “auto-generarsi”.

  • Dunque il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili? O in base a quali criteri Dio avrebbe deciso, se scartiamo ad esempio la maggior quantità possibile di “coscienza” o simili…

Non possiamo né scartare né fissare criteri, perché non siamo nel punto Omega e non scegliamo al posto di Dio. Come non so in base a quali ragioni io stesso sceglierò domani qualcosa, così non so in base a quali ragione sceglierà (sceglie) Dio. Verosimilmente Egli sceglie in base a criteri ispirati all’ordine e alla bellezza, come un eccelso artista, un demiurgo che combina gli invarianti (le “idee” platoniche), quali sono  le leggi della logica e della matematica, per generare un universo vario e meraviglioso…

  • Perché hai evocato anche gli dèi, oltre a Dio?

Storicamente si è avuto sentore, da parte degli uomini, di questo disegno nel quale ciò che poteva sembrare casuale acquisiva un senso. Tuttavia, comprensibilmente, si leggeva quello che accadeva come determinato dalla volontà di dèi (o angeli o demoni o “potenze” o santi etc.) che agivano in un modo o nell’altro anche a seconda di (o in risposta a) come agivamo noi stessi.

In questa lettura c’era e c’è un’intuizione sempre valida, come testimoniano i casi di sincronicità e premonizione. Se ciò che sembra casuale, tipicamente i processi caotici (come un uragano), e non può essere ricondotto a una spiegazione deterministica, ma solo probabilistica, dipende in ultima analisi dalla “volontà di Dio” (come i nostri stati cerebrali antecedenti dipendono dalla nostra volontà successiva), nulla vieta di “frammentare” o “risolvere” questa volontà in unità minori (senza per questo negare l’unità maggiore, cfr. Henry Corbin, Il paradosso del monoteismo (1981) tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2011), le “forze della natura”, che possiamo antropomorficamente associare ad altrettanti dèi e che agiscono come Dio, a posteriori e con intenzione, solo più limitata a questa o quella determinata circostanza.

Del resto nell’eone o pleroma, dove/quando l’esserci si disincarna, non è più possibile distinguere, come qui, precisamente un individuo dall’altro. Vi si confondono pur distinguendosi Dio e gli dèi, ciascuno di noi e gli altri, a cominciare dai nostri cari estinti. Si può ragionevolmente ritenere che sia in questa “pianura della verità” che le anime, ancora confuse con lo Spirito, scelgano il proprio destino di incarnazione e possano cosi anche coadiuvare Dio (il Dio di cui esse stesse non sono che espressioni) a orientare provvidenzialmente, con il proprio esempio e la propria parola, i viventi, senza violare la loro libertà radicale. Ma tutto questo merita un approfondimento…

Consideriamo un esempio banale. Vinci un milione di euro in una lotteria. Comunemente si ritiene che ciò sia dipeso dal caso. Anzi, si usa a volte proprio l’esempio della lotteria per suggerire che la stessa apparizione dell’homo sapiens, dotato di coscienza, nell’universo possa essere casuale, benché improbabile, e non richieda alcuna spiegazione ulteriore.  Tuttavia, soggettivamente, se vinci, ti viene spontaneo credere di “essere stato baciato dalla dea Fortuna”. Infatti, se è del tutto normale, fa parte del gioco e non richiede alcuna spiegazione che “qualcuno vinca”, ciò che non è affatto normale, ai tuoi occhi, è che a vincere sia stato proprio tu. Non c’è nulla di male a congetturare, se consideriamo l’estrazione del biglietto vincente un processo “caotico”, che, all’interno di un mondo contraddistinto da harmonia praestabilita, ciò dipenda da un disegno che ti sfugge, esattamente come il fatto che tu sia nato o che si siano evoluti i sapiens. La “dea Fortuna” è il nome che dai tempi antichi si dà all’immaginaria autrice di una parte di questo disegno, così come oggi da taluni si ritiene che questo o quel santo abbia interceduto con Dio, eventualmente mediante la Vergine Maria, per ottenerti questa o quella grazia.

  • Si legge spesso che gli dèi immaginati dagli antichi fossero un modo “primitivo” di rendere conto di forze naturali, che oggi sarebbero oggetto di spiegazione scientifica.

Come ho argomentato altrove, propriamente non si dànno “forze” in natura se adottiamo uno sguardo rigorosamente scientifico, cioè se ci sforziamo, seguendo l’esempio di Cartesio e Einstein, di ridurre il divenire a una o più funzioni matematiche, descrittive di processi idealmente reversibili e totalmente deterministici. La forza stessa è una nozione antropomorfica a cui non possiamo rinunciare proprio quando sono in atto processi irreversibili, non riducibili deterministicamente e caratteristicamente caotici.

Possiamo, quindi, dire di poter fare davvero a meno degli dèi? Dobbiamo piuttosto ribadire, con Talete (fr. 3, Diels-Kranz), con buone ragioni, che

il mondo è vivo e pieno di dèi [tò kósmon émpsychon kái daimónôn plêre]

 

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di Giorgio Giacometti