Come agiscono la cause finali e formali? (un “segreto metafisico”?)

alberiL’azione delle cause finali e formali (la “causalità formativa” di cui parla p.e. Rupert Sheldrake [pp. 124-126]), ammesso che ve ne sia una, deve essere necessariamente sottile, laddove le cause efficienti operano in modo grossolano.

  • Che cosa intendi?

Intendo illustrare la ragione per la quale, ad esempio, non è ragionevole pensare che qualcuno possa vincere il premio Randi, ossia dimostrare sperimentalmente di poter “violare” determinate leggi di natura o che qualcuno possa provare che in determinate circostanze (a Lourdes o altrove) si sia verificato un miracolo o si sia assistito a fenomeni di cosiddetta “sincronicità” o un farmaco omeopatico abbia avuto un effetto benefico ecc.

In tutte queste circostanze sarebbero all’opera cause finali o formali, in una maniera talmente sottile da eludere qualsiasi tentativo di “sorprenderle”  sperimentalmente, per così dire (a differenza di quello che avviene con le cause efficienti, ossia con le relazioni causa-effetto lineari, esprimibili in termini di co-dominio di funzioni lineari continue).

In altre parole vige una sorta di “segreto metafisico“.

Come nei Vangeli, soprattutto nel Vangelo di Marco, sembra che Gesù si rifugi spesso dietro un cosiddetto “segreto messianico“, ossia si preoccupi di evitare di dare segni della sua divinità troppo evidenti, affinché l’atto del credere in Lui possa essere davvero libero e responsabile, piuttosto che ovvio e meccanico,

così si direbbe che in Natura viga un segreto relativamente all’operare di cause finali e formali,  affinché tutto possa sempre venire equivalentemente descritto in termini di una combinazione di casualità e di cause efficienti (anche se al prezzo di moltiplicare all’inverosimile i casi possibili tra i quali dovrebbe operare alla cieca la “selezione naturale”), lasciando così la libertà di credere o meno in un orientamento del mondo verso il bene e il bello.

  • Mi sembra, la tua, una strategia “furba” per eludere controlli di scientificità (nei termini del C.I.C.A.P.: controlli sulle affermazioni concernenti il para-normale).

Comprendo perfettamente il sospetto. E voglio subito sgombrare il campo da un equivoco.

  • Quale?

Molti sostenitori del paranormale (cfr. p.e. quanto scrive Massimo Teodorani, in Entanglement, p. 150) affermano che, nei laboratori del C.I.C.A.P. o, comunque, in situazioni “controllate”, certi eventi straordinari potrebbero non verificarsi a causa del “clima” di scetticismo che vi si respira. In qualche modo le “intenzioni” negative di chi deve controllare se qualcosa di “miracoloso” abbia luogo influenzerebbero negativamente il risultato degli esperimenti.

  • E tu non sei d’accordo?

Non posso certamente escludere che qualcosa del genere si verifichi, ma mi sembra una strategia un po’ troppo comoda per eludere, per esempio, il problema della mancata vincita del premio Randi.

  • E tu che cosa proponi?

Invece di demonizzare il diffuso scetticismo su questo genere di ipotesi (figlio del diffuso meccanicismo), attribuendo a tale atteggiamento la mancata rilevazione di “cause finali e formali”, si potrebbe rovesciare la prospettiva, al riguardo, mostrando le ragioni a priori (non legate, cioè, a circostanze storiche o empiriche) per cui tali “cause” sottili non possono facilmente essere rilevate.

  • In che modo?

Esiste solo quello che è verificabile attraverso l’applicazione di rigidi protocolli sperimentali di controllo? In questa prospettiva (che non è se non quella, abbondantemente superata, del primo Wittgenstein e degli empiristi logici dei primi del Novecento) non esisterebbero “cose” come l’onore, il rispetto, la libertà, neppure gli Stati Uniti d’America, l’università di Udine ecc. Cercare di verificare sperimentalmente l’esistenza degli Stati Uniti d’America appare poco sensato, non ti pare? Le procedure di controllo sperimentale non sono neutre: esse postulano il funzionamento lineare della natura e fungono, per così dire, da setaccio rispetto all’esperienza possibile: “passano” quei processi e solo quelli che si svolgono a ben determinate condizioni.

  • E perché non potrebbero “passare” anche i miracoli?

Perché si tratta di eventi che, se autentici, costituiscono la risultante di infiniti fattori, irriducibili a una descrizione di tipo lineare. Essi, per costruzione, come la Natura in Eraclito, “amano nascondersi”: non possono non apparire, alla stregua di ogni altro evento, effetti di presumibili cause efficienti, sebbene ignote, ma li si riconosce e se ne comprende il significato solo in quanto soddisfano determinati scopi, perseguono determinati fini.

  • Se i miracoli dipendono comunque da cause efficienti ossia – intendo – non violano leggi di natura, in che cosa si distinguono dagli eventi “normali”, ossia quelli che seguono, appunto, le “norme”?

Per il fatto che la catena causale che li produce non è (completamente) determinabile.

La cosa si comprende meglio se partiamo da una considerazione. Prendiamo in prestito dalla meccanica quantistica l’intuizione che, in generale (non solo, dunque, nel caso di eventi straordinari), quanto avviene in natura scaturisca da un fondo di indeterminabilità. I comportamenti dei quanti di materia ed energia non sarebbero, cioè, interamente determinabili: tali quanti (in ultima analisi onde-particelle, come gli elettroni, i fotoni ecc.) seguirebbero percorsi entro certi limiti del tutto casuali.

  • Per quel che ne so, tuttavia, tale indeterminatezza sparisce a livello macroscopico per effetto di quella che si chiama decoerenza quantistica. In sostanza,  i cammini parzialmente casuali delle particelle subatomiche darebbero luogo ai comportamenti viceversa prevedibili e determinabili dei sistemi macroscopici di cui esse sono parte; per una sorta di neutralizzazione statistica dei loro effetti microscopici.

Questo è, appunto, ciò che “normalmente” accade. Supponi, tuttavia, che vi siano azioni sottili (nel caso dello sviluppo dei viventi, p.e., quelle determinate dall’ipotetico campo morfogenetico, considerato espressamente da Rupert Sheldrake una “struttura di probabilità“, cfr. pp. 137-38) capaci di “orientare” o di “polarizzare” in una certa direzione (o, meglio, in una somma di direzioni opportunamente articolate e finalizzate) le “scelte” compiute in modo apparentemente casuale dai costituenti subatomici dei corpi: tali azioni non violerebbero alcuna “legge di natura”, ma darebbero luogo a risultati sorprendenti, “miracolosi”.

  • Ad esempio?

Considera i casi di guarigione miracolosa. Si registra talora la remissione totale di un tumore maligno senza apparente spiegazione…

  • E tu attribuisci tali eventi a quelle che chiami “azioni sottili”? Mi sembra che vi si opponga innanzitutto una considerazione.

Quale?

  • La scienza medica non ne sa abbastanza circa i fattori di sviluppo dei tumori sì da poter escludere che l’organismo disponga di risorse e meccanismi ancora sconosciuti per poterli sconfiggere. Un giorno, cioè, i fenomeni di remissione spontanea, a cui ti riferisci, oggi misteriosi, potrebbero venire spiegati senza alcun bisogno di far appello a interventi “soprannaturali”…

Certo, non lo si può escludere. E chi, del resto, ha mai evocato alcunché di soprannaturale? Tutto ciò che accade in natura è naturale. È la natura stessa, infatti, a sorprenderci, rivelandoci talora insospettabili “qualità occulte”, che, tuttavia, – come giustamente suggerisci – un giorno potrebbero venire dis-occultate… O anche no! Perché il punto è proprio questo. Non possiamo mai escludere, davanti a un fenomeno attualmente non completamente riducibile a una spiegazione lineare,  ossia basata su catene di cause ed effetti (ciechi e meccanici) noti, né, certo, che un giorno riusciremo in tale riduzione, ma neppure che, viceversa, falliremo sempre in tale tentativo. Potrebbero, infatti, esservi all’opera azioni sottili, appunto, che, senza violare alcuna legge di natura, orientino in una certa direzione l’evoluzione di una malattia, lo sviluppo di un organismo, in generale questa o quella costellazione di eventi.

  • In quale direzione?

Nella direzione appunto che consente a colui o a colei che vive tale evoluzione (tanto più quanto più si tratta di un’evoluzione sorprendente) di interpretarla come segno di qualcosa, come un modo nel quale Dio o la Natura gli/le si rivolge per dirgli/le qualcosa. Proprio come accade nei fenomeni di sincronicità, nei dejà vu ecc. Si tratta di eventi che assumono un particolare significato per chi li vive.

Non dimentichiamoci che uno dei termini con i quali nel Nuovo Testamento sono chiamati i miracoli (p.e. nel Vangelo di Giovanni) è seméia, segni.

  • Se tali eventi sorprendenti e significativi fossero sufficientemente frequenti, anche se non potessimo scoprirne cause “soprannaturali” o “speciali”, cosa che anche tu sembri escludere (anche se parli di “azioni sottili”), si potrebbe comunque riconoscerli come “miracoli” o simili. Mi risulta, invece, che, se, soggettivamente, chi vive tali esperienze tende naturalmente a interpretarle conferendo loro significati speciali (come farebbe chiunque vincesse un ricco premio a una lotteria), oggettivamente non si sia mai riusciti a dimostrare che tali esperienze non siano che l’esito di una pura coincidenza di fattori favorevoli: i pretesi miracoli (remissioni spontanee, guarigioni sorprendenti, sincronismi inattesi ecc.) rientrerebbero, insomma, nel novero delle eccezioni statisticamente irrilevanti (come, appunto, la vincita di un ricco premio in una lotteria finanziata da un numero sufficientemente ampio di sottoscrittori).

Secondo alcuni studi vi sarebbero, invece, precisi indizi statistici che militano a favore del fatto che certi eventi straordinari non possano facilmente essere rubricati come coincidenze (cfr. p.e. Teodorani, pp. 134-146, per quanto riguarda certi fenomeni presumibilmente psico-cinetici).

  • E tu ritieni attendibili questi studi?

Non saprei.  Senz’altro, in generale, come argomento in vari luoghi, in tutti i processi nei quali si genera forma è sempre passato troppo poco tempo dalle condizioni caotiche iniziali alla forma finale (p.e. il fenotipo di una nuova specie vivente o la struttura  a spirale di una galassia…) perché l’emergere (l’evoluzione) di quest’ultima possa essere attribuita a una combinazione di fattori completamente causali. Tutto lascia supporre che la forma sussistesse in potenza già fin dall’inizio , cioè che tra le condizioni iniziali, apparentemente caotiche, si debba sempre annoverare il seme o l’embrione della forma finale.

D’altra parte non ci sarebbe da stupirsi che non fosse sempre possibile rilevare, neppure su basi statistiche, in questo tipo di processi, evoluzioni sorprendenti, non spiegabili sulla base di leggi note. Se, infatti, i “miracoli” fossero troppo evidenti (violando la regola secondo la quale la “Natura ama nascondersi”), se ne dovrebbero ricercare distinte cause efficienti, come p.e. un diretto intervento divino (sopra-nnaturale o para-normale). Si registrerebbe, insomma, quella violazione delle leggi di natura che non dovrebbe, invece, registrarsi; per lo meno una violazione delle leggi che presiedono alla distribuzione statistica degli esiti di processi, al fondo, indeterministici.

Insomma, ciò che Dio desidera per noi ovvero il Bene (ciò a cui ogni cosa mira come al proprio fine) deve potersi compiere come se fosse del tutto casuale.

  • E perché? Di nuovo: mi sembra un modo “furbo”, quello che proponi, per sottrarre l’azione divina o “sottile” alla verifica sperimentale!

Di nuovo: la prospettiva va rovesciata. Supponi, per assurdo, che si potesse rilevare sperimentalmente, senza ambiguità interpretative, l’azione di un’energia (che, in quanto strumentalmente rilevabile, sarebbe “grossolana”, non più “sottile”) responsabile di un determinato fenomeno in violazione delle leggi fisiche note. Tale azione sarebbe senz’altro ascrivibile nel novero delle cause efficienti di tale fenomeno, giusto?

  • Senz’altro, dal momento che tale azione determinerebbe, senz’ombra di dubbio, il verificarsi del fenomeno.

Esattamente. Ma noi ci chiedevamo come potessero “agire” le cause finali e formali, non quelle efficienti, ricordi? Esse devono agire in modo sottile, proprio perché non possono essere ridotte a cause efficienti; non possono, cioè, cambiare, per così dire, pelle.

  • E perché tali cause finali non potrebbero, come dici, “cambiare pelle”? Altrove suggerisci, mi pare, che esse possano non essere altro che cause efficienti a freccia del tempo invertita…

Certo, ma l’inversione della freccia del tempo non è gratuita. Essa richiede, in ultima analisi, l’azione di una mente. Uno “scopo” può attrarre a sé un processo se qualcuno glielo assegna.  Dio, nell’ordinare la Natura ai fini che Egli le assegna (essenzialmente il fine di evolvere nella forma che da sempre e per sempre essa custodisce in potenza), nasconde tali fini, per nascondere Se stesso.

  • E perché mai Dio dovrebbe nascondersi, così come dovrebbe nascondere il finalismo cosmico?

Possiamo paragonare Dio a un drammaturgo. La tragedia che egli mette in scena (perché si tratta proprio di una tragedia, dal momento che l’ingrediente che non manca mai in tutto ciò che accade, suscitando drammatici interrogativi, è proprio il male) deve apparire “realtà”. Gli stessi attori che recitano la parte loro assegnata, cioè noi, devono credere di essere i personaggi che incarnano (secondo il metodo Stanislavskij, verrebbe da dire!) per risultare credibili a se stessi e agli altri.  A questo fine un bravo drammaturgo, così come un bravo romanziere, deve nascondere la propria mano, deve fare apparire ogni cosa come se non dipendesse da lui, ma dal caso (o, comunque, da un intreccio di forze diverse e indipendenti l’una dall’altra).

Possiamo evocare, al riguardo, la distinzione, risalente ai fratelli Schlegel e a Schelling, ma rilanciata e resa celebre da Nietzsche, tra apollineo e dionisiaco, invertendo, tuttavia, il suo senso (qual era suggerito dallo stesso Nietzsche).

  • In che modo?

Per Nietzsche, in ultima analisi, dalla “realtà” (supposta tale anche da Schopenhauer e dai nichilisti di ogni tempo) di un mondo irrimediabilmente caotico, dionisiaco,  ci si può difendere rifugiandosi nell’illusione di un mondo ordinato, orientato a un “lieto fine” (apollineo), facendo del dionisiaco un oggetto di fruizione estetica, quasi che ci collocassimo in una prospettiva salvifica che, per il fatto di poterlo contemplare, ce ne sottraesse.

  • Mi sembra una buona intuizione…

Lo è senz’altro, in un orizzonte radicalmente nichilistico. Ma, se le cose stessero diversamente?

  • Ossia?

Il lieto fine potrebbe essere realmente implicito nel divenire cosmico, ma potrebbe nascondersi dietro l’apparenza di una radicale indeterminazione “dionisiaca”.

Questa interpretazione, che costituisce anche, se ci si riflette, una soluzione del problema dell’origine del male, è suggerita anche, tra gli altri, da Proclo, quando, nell’accostarsi ai miti sugli dèi, invita a distinguere l’invenzione drammaturgica dalla verità che tale invenzione nasconde (p.e. storie che ci rappresentano gli dèi dotati dei peggiori vizi “umani troppo umani” come uno schermo che cela la loro perfezione morale) [cfr. Proclo, Teologia platonica, I, 4, 22 e ss,]. Se, infatti, come in un orizzonte (neo)platonico è senz’altro lecito  fare, interpretiamo il mondo di cui facciamo esperienza (misto di essere e di non essere, di bene e di male) come una sorta di opera d’arte, una tragedia nel senso non solo comune, ma anche tecnico del termine, possiamo intravedere come il lato oscuro di tale condizione tragica sia illusorio. In questa prospettiva il “liberato in vita”, il jivanmukta del Vedanta, come il sophòs, il “sapiente” greco-romano,  non sarebbe se non colui che è in grado di cogliere il lato comico di ciò che è destinato ad apparire, altrimenti, tragico.

N. B. Che in un orizzonte (neo)platonico si possa considerare il mondo come un’opera teatrale è noto. Si può evocare al riguardo il seguente, un po’ inquietante passo di Plotino:

È necessario che gli animali si divorino tra loro [...] Il morire è un cambiare di corpo, come l'attore cambia di abito [...] Gli uomini si armano gli uni contro gli altri perché sono mortali; e i loro ordinati combattimenti che assomigliano a danze pirriche, ci mostrano che gli affari degli uomini sono semplicemente dei giochi (παιδιαι) e che la morte non è nulla di terribile [...] Come sulle scene del teatro, così dobbiamo contemplare le stragi, le morti [...] come fossero tutti cambiamenti di scena e di costume, lamenti e gemiti teatrali [...] Non è la vera anima interiore, ma un'ombra dell'uomo esteriore quella che si lamenta e geme e sostiene le sue parti su questo vario teatro che è la terra tutta. Tali sono le azioni dell'uomo che sa vivere soltanto una vita inferiore ed esteriore e non sa che le sue lacrime e i suoi affari sono un puro gioco [...] Coloro che non conoscono ciò che è serio prendono sul serio i loro giochi e sono giocattoli essi stessi [...] Anche i fanciulli piangono e si lamentano per cose che non sono mali.
[Plotino, Enneadi, II, 2, 15. Sulla vita come spettacolo teatrale di cui il demiurgo è il poeta o artefice (ποιητης) cfr. anche ivi, II, 2, 17]
  • Ammettiamo che le cause finali e formali si mimetizzino “teatralmente” in modo tanto abile da simulare che gli eventi che esse determinano (si tratta pur sempre di “cause”,  no?) risultino frutto del puro “caso“. Ma come potrebbero agire, allora? Come potremmo distinguerle, appunto, dal puro caso?

Su basi statistiche, come si è detto. Considerando l’elevata improbabilità che certe forme siano emerse del tutto casualmente dal caos.

Ma anche giocando sullo stesso fondo di indeterminabilità della Natura: le cause finali, infatti, agirebbero in modo “olistico”, dando luogo a eventi che costituiscono la risultante di un numero di fattori così grande da sfuggire a qualsiasi tentativo di riduzione a grandezze computabili.

  • Puoi essere più chiaro?

Ti faccio un esempio. Perché Napoleone riuscì (sorprendentemente, imprevedibilmente ecc.) a conquistare mezza Europa e a diffondervi i principi giuridici della Rivoluzione Francese? Un fenomeno storico non è riducibile a un insieme chiuso di cause, perché è la risultante di fattori complessi che, in ultima analisi, risalgono all’origine dell’universo e solo ritrovano un punto di unità (l’azione di Napoleone va ricondotta a processi psicologici, economici, politici, sociali, nel rispetto di vincoli di ordine fisico – ecco il richiamo all’origine dell’universo, in cui si costituirono gli elementi fondamentali di quella che sarebbe stata la “materia” -, chimico, biologico ecc., all’interno di una sommatoria di coincidenze più unica che rara, dunque per definizione non replicabile in laboratorio o altrove – neppure se disponessimo di un pianeta gemello su cui organizzare le cose in modo da simulare ciò che è accaduto sulla Terra durante il periodo napoleonico -). Si tratta di quelle che Leibniz chiamava “verità di fatto”, la cui catena causale (nel senso della sommatoria vettoriale delle cause efficienti che le determinano) è nota solo “a Dio” (in questo senso si tratta di alcunché di “incomputabile”).

  • E come distinguere questi eventi “destinali” o (storicamente) “provvidenziali” dagli eventi semplicemente “casuali”, se essi ne sono, di fatto, indistinguibili, dal momento che gli uni e gli altri sono irriducibili a una spiegazione “meccanica”?

Non altrimenti che per il loro significato, ossia per il fine che sembrano avere per qualcuno o qualcosa. Certo, il giudizio circa il valore di tali eventi non può che essere soggettivo, “riflettente” (come direbbe Kant), piuttosto che oggettivo o “determinante”. Ciò vale tanto per l’intera evoluzione delle specie viventi, quanto per l’illuminazione o intuizione che posso aver avuto l’altra notte: non si sa al fondo che cosa abbia determinato in ogni dettaglio ciò che si è “rivelato”, non saremmo, dunque, in grado di spiegarlo, ma possiamo cercare di comprenderne il significato.

  • Se ho ben inteso, tu ricondurresti anche il fantomatico campo morfogenetico, che renderebbe conto dello sviluppo del vivente dal genotipo al fenotipo, a un’azione sottile di questo tipo? In altre parole tale campo non agirebbe come causa efficiente di tale sviluppo, ma solo come causa finale e formale?

Finora tali campi non sono stati “rilevati” strumentalmente, né forse lo saranno mai. Se sono dotati di qualche tipo di energia, si tratta senz’altro di energia debolissima. Infatti, essi sono solo la “mente” dello sviluppo dell’organismo, mentre il “braccio” resta quello costituito dai “normali” (e noti, entro certi limiti) processi metabolici delle cellule, descrivibili attingendo al repertorio della fisica e della chimica. Sotto questo profilo si potrebbe intendere che il campo morfogenetico si limiti ad assegnare il fine a cui ciascuna cellula deve mirare nel suo sviluppo (in quanto cellula potenzialmente nervosa, epiteliale ecc.), lasciando ai normali processi metabolici “il lavoro sporco”, ossia di recuperare i “mezzi” idonei al fine. Supponendo che tali processi “grossolani” siano sufficientemente complessi da far emergere un numero sufficiente di “catastrofi” (nel senso di René Thom), ossia di “punti critici” dopo i quali – indeterministicamente – lo sviluppo potrebbe prendere strade diverse, se non fosse “teleguidato”, appunto, dal campo morfogenetico, quest’ultimo potrebbe agire “nell’ombra” proprio come una causa finale e formale. Tuttavia…

  • Tuttavia?

Tale interpretazione non rende conto dell’efficacia sistematica del campo morfogenetico: la probabilità che esso conduca alla forma attesa si avvicina a 1, deponendo a sfavore del fatto che si tratti di risultato raggiunto secondo regole di distribuzione meramente statistiche. Nel caso dei viventi lo sviluppo dall’embrione all’adulto, l’assunzione, cioè, da parte di un organismo della sua forma adulta corretta, costituisce la regola, non l’eccezione (come quelle rappresentate, viceversa, da  “miracoli” quali la remissione spontanea dei tumori ecc., dai fenomeni di sincronicità ecc.).

  • E allora?

Allora, il campo morfogenetico va probabilmente postulato come effetto di una vera e propria interazione fondamentale, quali sono quelle elettromagnetica e gravitazionale, per intenderci. Proprio come queste interazioni, da un lato esso “spiega”, possibilmente su basi matematiche (il campo morfogenetico dovrebbe essere un campo vettoriale complesso, costruito in modo tale che ogni suo punto di applicazione vincoli ciò su cui si esercita – fondamentalmente il DNA delle cellule coinvolte – a inibire o meno questo o quel determinato gene, secondo “matrici” ben precise), come si svolgono determinati fenomeni, dall’altro lato (e in modo certo più evidente che nel caso delle altre interazioni fondamentali) tende a ben precisi “effetti di forma” (nel caso della forza gravitazionale l’effetto è la forma sferica di stelle e pianeti o quella  a spirale di certe galassie; nel caso dell’interazione elettromagnetica l’effetto è la forma p.e. dei cristalli), mettendo, quindi, in luce la “componente” formale e finale della propria “causalità”.

  • Ma così una causa formale agirebbe direttamente attraverso una causa efficiente! Cosa che tu, prima, vietavi.

È qui che entra in gioco il darwinismo! Esso offre un’interpretazione meccanicistica dell’emergere delle forme viventi (per selezione naturale). Gli stessi campi morfogenetici potrebbero essersi selezionati naturalmente, casualmente (lo stesso Sheldrake, che non segue il “platonismo” di Goodwin e altri, indulge a credere che i campi morfogenetici si siano evoluti e modificati nel tempo, essendo “soggetti alla selezione naturale” [!] e conservando memoria di tali trasformazioni [cfr, p. 343 e ss.]), dando solo l’impressione di perseguire determinati “fini”.

  • E tu sei d’accordo?

No, credo che questi campi di forza biologica perseguano davvero il fine di dare all’organismo di cui sono campi la forma migliore possibile nel determinato contesto. Ma, come argomentato fin qui, credo anche che, proprio in quanto le cause formali e finali “attraggono” a sé il vivente (e il non vivente) in modo “occulto”, pena la loro trasformazione in “cause efficienti”, i campi morfogenetici debbano apparire essi stessi come effetti di un’evoluzione casuale.

 

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di Giorgio Giacometti