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La realtà è illusoria?

intelligenza

Il volume di Donald Hoffman, The Case Against Reality. How Evolution Hid the Truth from Our Eyes (2020), che ho letto nella traduzione italiana L’illusione della realtà. Come l’evoluzione ci inganna sul mondo che vediamo, Bollati Boringhieri, Milano 2022, propone due teorie sulla coscienza e sulla realtà, tra loro legate, ma non dipendenti l’una dall’altra, altrettanto rivoluzionarie quanto in gran parte convincenti. Si tratta di teorie altamente speculative, ma che Hoffman espone ai controlli caratteristici del metodo scientifico, di cui è assertore. Diversi esperimenti, evocati da Hoffman, sembrano compatibili soprattutto con la prima della due teorie.

Secondo la teoria dell’interfaccia percettiva (TIP) il mondo che percepiamo non è oggettivo, né ha qualche somiglianza con il mondo oggettivo. Non solo le classiche “qualità secondarie”, come colori, suoni, sapori, ma anche le classiche “qualità primarie”, come le grandezze di spazio e tempo, dipenderebbero più dal nostro sistema percettivo che dalla “realtà oggettiva”. Si tratterebbe del modo attraverso il quale codifichiamo la nostra esperienza. Gli oggetti che percepiamo sarebbero icone sul desktop della nostra percezione e non corrisponderebbero in alcun  modo ad alcunché  di reale. Per sostenere questa tesi, per la quale egli opportunamente evoca Kant, Hoffman invoca il c.d. teorema “fitness batte verità”, dimostrato ricorrendo alla teoria dei giochi. Secondo questo teorema quanto più complesso è un organismo (in termini di “stati” interni corrispondenti a ipotetici “stati” del mondo esterno), tanto meno è probabile che il mondo che esso percepisce sia reale, se l’organismo deve conservarsi e riprodursi con la necessaria efficienza. Insomma, la selezione naturale favorirebbe gli organismi che percepiscono il mondo in modo “utile” piuttosto che in modo “vero”.  Spazio e tempo sarebbero così “condannati”, in linea con certe interpretazioni della meccanica quantistica.

Questa teoria mi sembra assolutamente convincente nella misura in cui mette in luce il carattere soggettivo del mondo come ci appare. I riferimenti alla fisica sono senz’altro pertinenti (e corrispondono in gran parte a quelli che faccio anch’io su questo sito per giungere a conclusioni simili a quelle a cui giunge Hoffman; interessante in particolare il riferimento al cosiddetto QBism, interpretazione “bayesiana” radicale della meccanica quantistica).

Meno convincente appare il modo in cui Hoffman ricorre alla teoria dell’evoluzione per selezione naturale. Poiché sembra che la selezione naturale richieda tempo, ma il tempo risulta alla fine illusorio, non è chiaro “dove” e “quando” l’evoluzione possa verificarsi. Inoltre, Hoffman allude spesso al fatto che i viventi debbano consumare “energia” per procurarsi risorse. Ma non è chiaro che cosa “resti” di ciò che intendiamo come energia (una grandezza corrispondente al prodotto della forza applicata a un corpo per lo spostamento che questo subisce nello spazio) se spazio e tempo sono aboliti.

Nella mia prospettiva il ragionamento di Hoffman portato alle sue estreme conseguenze mostra il carattere in ultima analisi autocontraddittorio della teoria dell’evoluzione per selezione naturale: se la teoria fosse vera, noi percepiremmo un mondo falso; ma, se il mondo fosse falso, la stessa teoria dell’evoluzione che conosciamo sarebbe falsa, in quanto essa presuppone entità illusorie, come lo spazio e il tempo.

Hoffman si cautela in un passaggio affermando che la sua teoria mette in discussione soltanto la nostra percezione del mondo e non, invece, p.e. la nostre capacità logico-matematiche (sulle quali si basa la teoria dei giochi, sulla quale, a sua volta, egli basa il suo teorema “fitness batte verità”). Tuttavia, se l’evoluzione ci avesse selezionati per individuare ciò che ci è utile per sopravvivere e per riprodurci piuttosto che per comprendere la verità, non è chiaro perché questa cecità nei confronti della verità non debba riguardare anche la verità matematica. È vero che possedere una matematica di base “corretta” potrebbe essere vantaggioso per la nostra sopravvivenza, ma non si tratta certamente della matematica avanzata di cui Hoffman ha bisogno per la sua teoria (di cui ad es. i nostri cugini primati non saprebbero certamente che farsi).

In generale la fiducia che giustamente Hoffman nutre per il metodo scientifico non può fondarsi sull’evoluzione casuale della nostra “mente” (non dico del “cervello” che, nella prospettiva di Hoffman, è solo un’icona della mente). Tale evoluzione non garantirebbe la veridicità della scienza, neppure come insieme di ipotesi fallibili, ma per il momento convincenti. Bisogna supporre un rapporto più immediato e diretto tra la nostra mente e la verità.

Con questi limiti epistemologici la teoria dell’interfaccia percettiva di Hoffman appare in ogni caso convincente, almeno come metafora, e consonante con quanto su questo sito argomento circa la soggettività di spazio e tempo.

La seconda teoria che Hoffman introduce, a completamento della prima, ma come teoria non dipendente da essa, è la teoria del c.d. realismo conscio.  Rispetto alla TIP si tratta di una teoria molto più speculativa, di un vero e proprio programma di ricerca che Hoffman lancia, rispetto al quale, tuttavia, egli si attende che possano prima o poi venire effettuati controlli empirici.

Secondo questa teoria è impossibile risolvere il problema dell’origine della coscienza adottando un approccio fisicalistico, cioè cercando di capire come la coscienza possa derivare dalla “materia”, cioè da una realtà oggettiva, fatta di quark, atomi, molecole, neuroni ecc., preesistente alla coscienza stessa. Lo hard problem (perché siamo coscienti anziché no) non può essere risolto per questa via. Su questo punto il mio accordo con Hoffman è totale.

Hoffman propone quindi che non sia la coscienza a derivare dalla “materia”, ma il contrario o, per meglio dire, che tutto sia costituito da una “rete” di “agenti coscienti”.

Pieno accordo sul fatto che la coscienza sia alcunché di originario, ma ciò che mi lascia perplesso è che la coscienza debba essere “moltiplicata” in innumerevoli agenti coscienti (riedizione delle monadi di Leibniz) che pervaderebbero l’universo dai livelli della scala di Plank fino a “Dio”, un’ipotetica super-coscienza cosmica costituita (“istanziata”)  dagli agenti coscenti di livello via via inferiore (fino, appunto, alla scala di Plank).

Il meno che si possa dire è che questa teoria sembra violare quel rasoio di Ockham che Hoffman, invece, invoca come criterio guida.

Perché tutti questi “agenti coscienti”? Hoffman parte dal fatto che, se mi guardo allo specchio, dietro all’icona del mio viso c’è un mondo di sentimenti ed emozioni, tradite magari da un sorriso ecc. Così anche, probabilmente, c’è un simile mondo dietro l’icona del volto della mia amata, dei miei amici. Anche uno scimpanzè può tradire emozioni ecc. Se scendendo nella scala dei viventi, provo sempre minore “empatia”, secondo Hoffman, non è perché questi viventi siano meno “coscienti”, ma perché il loro modo di essere coscienti sarebbe diverso. Si arriva così rapidamente agli elettroni e alla scala di Planck!

Dunque, se guardo una montagna, ciò che guardo sarebbe un brulicare di agenti coscienti le cui “azioni” costituirebbero per me altrettante “esperienze”.

Hoffman elabora anche una matematica del modo in cui gli agenti coscienti farebbero esperienza e reagirebbero “liberamente” alla stessa, conservandone memoria. A questo fine egli suppone che gli agenti coscienti funzionino come macchine di Turing universali e che facciano scelte interpretabili come passaggi attraverso kernel markoviani in spazi misurabili (le cui dimensioni fondamentali sarebbero quella delle esperienze e quella delle azioni ad esse corrispondenti).

In questo modo Hoffman cerca di ricondurre i meccanismi “visibili” della selezione naturale a un loro ipotetica radice “matematica” nella “cosa in sé”. Tuttavia, le perplessità sopra avanzate sull’uso che Hoffman fa della teoria dell’evoluzione rimangono. Infatti, questi agenti coscienti sembrano richiedere “tempo” per poter operare. Forse si tratta di un tempo diverso da quello illusorio? Eppure questo tempo, per funzionare, dovrebbe essere altrettanto lineare e orientato nella direzione passato-futuro di quello illusorio…

Anche il meccanismo con cui questi agenti scelgono non è chiaro. Si tratta di scelte casuali, “migliorate” per prova ed errore? Hoffman intende così reinterpretare il libero arbitrio? E perché questo meccanismo dovrebbe essere cosciente anziché no? Lo hard problem è veramente risolto?

N. B. È interessante il passaggio in cui Hoffman distingue tra esperienze per definizione coscienti e azioni che ne seguirebbero, intrinsecamente inconsce, ma delle quali faremmo indirettamente esperienza (cosciente) per i loro effetti, inducendoci a correggere via via il tiro.  Ciò mi ispira alcune idee sull’eterogenesi dei fini che potrei sfruttare per migliorare il mio modello.

Inutile dire che, secondo me, se davvero spazio e, soprattutto, tempo sono “condannati”, cioè, per la precisione, vengono intesi come manifestazione della stessa coscienza e non qualcosa di antecedente ad essa, questa proliferazione di agenti coscienti che si potrebbero o meno associare per “istanziarne” altri di livello superiore è del tutto superflua (oltre che contraddittoria, in quanto sembra presupporre, se non uno spazio, almeno un “tempo” in cui tale “rete” possa svilupparsi).

Se spazio e tempo non hanno carattere oggettivo, nulla mi separa “realmente” da te, mio lettore. Mi sembra sufficiente postulare che la coscienza sia, di volta in volta, una sola, quella che possiamo attribuire all’universo stesso. Guardando mia moglie indovino dietro al suo sorriso nient’altro che una forma che la coscienza dell’universo assunse o assumerà in una fase diversa da questa, in cui la coscienza universale abita in me.

Non è affatto necessario attribuire coscienza agli elettroni, come non è necessario attribuirla alle cellule del mio corpo. Si tratta di parti dell’icona (per usare la terminologia di Hoffman) dietro la quale si nasconde, di volta in volta, la sola unica coscienza, la quale assume le forme più diverse.  Anche il mio corpo che dorme di sonno profondo (o il mio sistema immunitario) è parte dell’icona. Se spazio e tempo sono soggettivi, ciò che appare separato nello spazio e nel tempo può benissimo essere parte della figura complessiva che di volta in volta la coscienza assume (“io dico l’universo”, visto come nastro di Moebius in cui percezioni ed emozioni non sono che due facce della stessa medaglia).

About Being you

frattale

Anil Seth’s book, Being you. A New Science of Consciousness, Faber & Faber, London 2021, proposes an intriguing theory of consciousness that seems quite convincing, although it explicitly refuses to confront the hard problem of consciousness, as David Chalmers calls it, and so evades the crucial question in my opinion.

What, then, are the main reasons for the volume’s interest?

The basic interpretation of the consciousness that Seth provides is convincing: it would be a system that, based on a predictive approach (“bayesian”), “hallucinates” a “functional” reality, not necessarily similar to the “true reality” (Seth himself in the epilogue recalls the Kantian distinction between phenomenon and noumenon and alludes to the possibility that even the three-dimensional fabric of space – unfortunately he does not speak of time, which is very close to my heart, – can be a “perceptive effect”).

Within certain limits it also convinces the “naturalistic” point of view adopted by Seth, who assigns more relevance to the “real problem” of consciousness, as he calls it, than to the “hard problem”. I intend this as follows: any interpretation of the functioning of consciousness must be consistent with empirical data: although consciousness, as a subjective experience, is not the brain, nothing prevents (indeed everything suggests) that there is a close correlation between consciousness and brain (or body), between “inside” and “outside”. So it is right to “naturalize” the problem of the consciousness not assuming only a “transcendental” perspective (This “naturalization” does not exclude such a trascendental perspective: phenomenological analysis, simply, cannot be incongruous with the empirical data: e.g. it cannot be that I perceive a cat if my brain sends the waves typical of deep sleep).

It must be said that, although Seth is a neuroscientist, his theory appears more speculative than “scientific”. Seth certainly takes inspiration from observations and experiments of his own and of others, but what gives meaning to the volume is an overall interpretation that is certainly authorized by empirical data, but is not the only possible.

In my point of view a problem, as mentioned, is that Seth, despite his speculative “drift”, claims to evade the “hard problem”.

He claims to distinguish what he calls real problem  (the problem of explaining “scientifically” consciousness) from “easy problems”, as Chalmers calls them, which would concern the “functioning” of consciousness.  Yet, in the end, Seth also explains consciousness functionally (with his Bayesian theory) taking for granted the phenomenology of consciousness. But this phenemology is exactly what distinguishes consciousness as first-person experience. This should have been a matter of explaining. But Seth doesn’t follow this way.

Seth ultimately fails to “justify” the very existence of consciousness. Why couldn’t its effective Bayesian functioning be implemented by an unconscious system, as are, according to Seth, some different forms of artificial intelligence?

The reductionist approach, in general, to nature is useful but not exclusive (as Seth presents it with epistemological fallacy in my point of view).

Let’s consider the reductionist approach to life in modern biology, which Seth considers paradigmatic. It merely shifts the “hard problem” (what life is and why it exists), doesn’t dissolve it into a cloud of metaphysical smoke, as Seth thinks.

The same applies to the problem of the existence of consciousness (Chalmers’ hard problem, in fact). If I am a self-regulating system whose goal is to survive, why do I need to be conscious? You can build systems that self-regulate themselves based on the inputs they receive without being alive and conscious.

The right distinction that Seth makes, in the last chapter before the epilogue, between consciousness and intelligence suggests (cf. the pages on which he guesses unlikely that a machine capable of “predictive processing” is aware) that this “predictive processing”, which according to him characterizes consciousness, can characterize also simply an intelligent system capable of self-regulation, but unconscious.

Seth also discusses the interesting paradox of teleportation: if a certain Eva entered, here on Earth, into a teleportation machine that would disintegrate her and then rebuild her elsewhere, e.g. on Mars,  could you say that Eva is always Eva? Would her consciousness be the same? And if, due to a machine failure, the “terrestrial” Eva survives and a second Eva, identical to the first, is reproduced on Mars, which one would Eva be? (Seth also evokes somewhere the “split brain” and the interesting real case of the Siamese twins united by the brain).

In all these cases, in my opinion, we continue to escape the problem. It is not enough to say “both women are Eva”. You who have entered the machine, will you find yourself on Mars or on Earth? My answer is: on Earth . On Mars there is a clone (with your memory). It cannot be physical identity that determines the continuity of consciousness. If anything, the opposite. Everyone who enters a transporter machine dies instantly even if no one notices.

Likewise the representation of a “diffused” consciousness in the octopus, which Seth presents in the last chapter, does not seem justified to me. Seth can recognize that parts of the octopus move with great autonomy and intelligence (after all, our heart and our immune system do too). But a consciousness that is not “one” is unthinkable. Whatever it was, it would not be what we mean by consciousness.

Attention: I don’t’ claim that whoever is conscious (someone in particular or the universe itself) must conceive of himself or of herself necessarily as one and as a body. This may well be a hallucination. One can identify himself or herself with this or that, but who identifies himself or herself  with this or that – suppose erroneously  – cannot but have one consciousness if he or she has consciousness. It makes no sense to say that he or she can have two or more “consciousnesses” or a “diffused” consciousness, whatever this means. If two people had the same consciousness, exactly as two parts of an animal, they can simultaneously perceive themselves suppose both in Rome and in London: they must have only one consciousness with two or more perceptions (as I now see more colors). If they have this “consciousness” at different times, they still has only one consciousness that simply moves and becomes filled in time with different contents.

Seth roots consciousness in life rather than intelligence. Interesting and plausible. But how to prove it?
It’s just a conjecture.
Many living activities, even human and even very complex ones, take place unconsciously. Perhaps the function of consciousness is linked to the possibility of experiencing pleasure and pain to orient oneself in the world between opportunities and dangers? But even an unconscious mechanism emulated by a robot could do it…

About function of plesure and pain see my recent post.

We come, finally, to the epistemologically pivotal issue, in my opinion.

If everything is controlled hallucination, including external objects, even the limbic system or the cerebellum or the neurocortex are hallucinations, even the living body is a hallucination that seems to us to occupy a three-dimensional space, even space and time  themselves: Seth assigns them a role just because he needs to believe that they exist as external objects in order to survive (as a neuroscientist rather than as a mystic?). It is the “mise en abime” that distinguishes every radical naturalism (taken to its extreme consequences) that ends up making it an idealism.

For the truth, on page 272 Seth seems to apply his theory of consciousness to itself: as consciousness works as predictive, not “objective”, so also a theory of consciousness works if it obeys a Bayesian epistemology. But it is like saying that his theory can safely be also false! In short, it does not fall into the paradox of the liar?

In this “idealistic” perspective I can agree with Seth that the self is a hallucination, not unlike other “objects”: maybe the One (God, Shiva etc.) identifies himself erroneously with me and with you (and with Seth and so on).
But Seth seems to think that “who” is wrong in these identifications is not the One, but my or your or his “living body”, This is because, in my opinion, he ends up committing the same mistake that he unmasked, assigning to a phantom living body a fundamental reality, while on the basis of its own criteria and results it must be considered a hallucination, a construct functional to life.

In general, however, this book is really very interesting and inspiring, everyone should read it.

But with a warning: as mentioned above, many of Seth’s theories (e.g. that consciousness is linked to life or is predictive), as many other intriguing theories that Seth cites (e.g. Friston’s Free Energy Theory), are not immediately derived from experiments but seem speculative interpretations of experiments (which is fine to me, I find it inevitable) and provoke further speculative hypotheses.


 

With a pun you could say that the theory of predictive consciousness is not itself… predictive (controllable by experiments that could falsify it). Too much Bayesianism, after all, can inebriate, as Popper argued!

Is consciousness born as evaluative (emotional) experience?

polpo

In the pre-print The Origins of Consciousness or the War of the Five Dimensions, Walter Veit develops an interesting theory of consciousness. Having adopted the evolutionary paradigm, he believes that a whole series of “additions” characteristic of human consciousness can be “peeled”. He posits that animals, in which consciousness would originally have appeared, are endowed with a consciousness reduced to the perception of their own emotions, in particular of pleasure and pain, which have an evident biological function (are useful for the conservation and reproduction of the organism that is endowed with it).

I find the idea that consciousness cannot be grasped either with an externalist approach or with an internalist approach strong and agreeable. Consciousness would not originally have to do with the “self” nor would it be reduced to a mere environmental effect (according to a crude stimulus-response model). For different reasons than Veit’s, these are conclusions that I have also come to.

I find Veit’s criticism of the autopoietic approach quite instructive. In Veit he is represented by Evan Thompson. According to the autopoietic “tradition” an organism is conceived as a totality without an outside, as I tend to imagine too, when I maintain that it is an envelope of the universe itself. If so, however, the peculiarity of the living organism is lost, that is, the ability to zero in itself the increase of entropy (character that, in my opinion, is connected with the emergence of consciousness). If there is no border between inside and outside, how can this peculiarity be highlighted? It would be necessary to imagine a sort of “entropic wave” that rises progressively after the big bang and then falls as life evolves on Earth, without introducing solutions of continuity…

I agree with Veit’s discarding a “diachronic” model of consciousness. I can imagine myself having Alzheimer’s and losing all or part of this kind of consciousness (exactly as a self-awareness).

But I do not agree with Veit’s discarding a synchronic model of consciousness, a model based  (correctly, in my opinion) on the idea of the unity of consciousness. The usual example of the “diffuse” or “multiple” consciousness of the octopus does not convince me at all. First of all none of us is an octopus and we cannot know what we would experience if we were an octopus (this is a more general limitation of Veit’s approach). Secondly, assuming that an octopus tentacle does not know what goes through the brain of the octopus and vice versa (as the right part of my brain would not know what the left one thinks in the case of resection of my corpus callosum), this would simply mean that there would be as many synchronic occurrences of consciousness as there are tentacles or independent parts of the nervous system (or brain) of a person or an animal. A multiple consciousness is contradictory to the notion of consciousness as a subjective experience. Two people probably have “two” occurrences of consciousness (like the octopus tentacle and its brain in hypothesis), but neither of them is directly conscious of the other (each makes an inference from himself or herself to the other, in the sense that each assumes for a number of reasons that the other person is also conscious). If one of the two occurrences of consciousness were also directly aware of the other, it would be seen e. g. a view in which the roofs of London would be confused with those of New York (if the two people resided respectively in these two cities) and, again, it would be experienced only one consciousness (in only one time). I see no alternative.

As for overcoming the notion of sensory consciousness, I agree with Veit that we should not associate it exclusively with seeing. But from this I do not understand how the value of the phenomenological dimension can be diminished. Even if people, unlike philosophers, think that consciousness has to do with evaluative issues related to affectivity and admitted and not allowed that this dimension can evade the hard problem, the stubborn philosopher can alone continue to wonder how the phenomenal experience is possible, even if by linguistic convention he agrees to call “consciousness” something else, what precisely people would call so.

For the truth Veit seems aware of this “right” of the philosopher and, in fact, not relying exclusively on the thesis of the “experimental philosophers of the mind”, he concludes in the following way (it seems to me his fundamental thesis):

“Hedonic value of a stimulus or a bodily state seems to be an evaluation of its expected value to the organism” . There doesn’t appear to be an additional problem of why there is valence. This makes the evaluative side of experience a compelling target for an attempt to bridge the gap between matter and mind. To have a phenomenological experience is to have an evaluative experience. To naturalize the puzzling notion of ‘qualia’ is simply to explain how and why organisms have such an evaluation. Phenomenal states simply are explained within the context of an affect-based model of phenomenological experience.

Now, if Veit intends to argue that the evaluative experience (in fact the “affective one”) is at the root of the evolutionary phenomenological consciousness I have no objections of merit (but only of method: how does he prove this?). If by “root” we do not mean “cause”, but only the beginning in time of the experience of consciousness (like saying, in my model, that a zebra’s consciousness has more affective character than visual or intellectual) there is no problem.
Just recently I wrote a new page of my site, in which I recognize the functional value (for survival and reproduction) of “pleasure” and “pain” and other emotions. I consider these emotions as ways in which the body communicates/reminds the consciousness of its needs.
But how to center the consciousness in the affective experience helps to overcome the “gap between matter and mind” (to solve the hard problem) is obscure for me.

Why should what we and probably many other animals live as pleasure and pain be precisely “lived“? If a certain perception activates certain substances in the brain (let’s say endorphins) that push towards a certain behavior, why should all this be perceived as pleasure? The hard problem seems to me to remain intact.

From the epistemological point of view, as mentioned, I wonder how the literature widely cited by Veit can safely (or cheerfully) attribute “consciousness” to non-human organisms. I am deeply convinced that consciousness is spread beyond the “sapiens” (e.g. in anthropomorphic apes). But how to prove it? Is it a metaphysical option? I certainly see how animals behave, but how can I know what and if they “feel”?
E.g. Veit evokes at some point the fact that even very primitive animals, such as sponges, etc. are able to distinguish themselves from each other. But even our immune system detects possible “invading” organisms. That doesn’t make our immune system conscious!

Veit’s argument seems to me to be circular. He invites us not to make “human” consciousness the paradigm of reference. Then he goes to look for in “nature” the precursor of this consciousness in some structure. Obviously it must be something simpler. He imagine that this precursor is done in a certain way “simplifying” to the extreme the human consciousness and “projects” this imagination on nature.  But at the end, in my opinion, it is anyway from the human consciousness that we must start (and also Veit must do), not because we are “special”, but only because the human consciousness is the only one we experience. And since consciousness is characterized precisely as a “subjective experience” it seems difficult to ignore it.

Further Veit rejects the “biopsychism”, as he calls it, that is, the idea that life and consciousness evolve at the same time, even if at all costs he want to adopt the Darwinist paradigm (which he takes for granted) also for consciousness. I seem to understand that Veit imagines a sort of “delay” between the evolution of life and the evolution of consciousness, while maintaining that both evolve gradually.
But by what “signs” can he recognize in the non-human living the appearance of the primordial consciousness? How can he tell them apart from unconscious reflexes?

It seems to me that Veit’s paper is an eloquent example of how often the empirical approach, which tend to “naturalize consciousness”, which is proposed as scientific, is inadequate.
We need to know philosophically what can be meant by consciousness, how it can be recognized that also other animals are equipped with it, how we can verify or falsify our assumptions in this field, on what grounds the Darwinist approach can be considered scientific and not merely speculative, and so on.

Otherwise we risk taking a seriously “scientific” attitude against the philosophical chatter while falling into the opposite error: we make speculation with the aggravating circumstance of a lack of awareness to make it.

La coscienza sorge come esperienza affettiva?

Veit

Nell’articolo The Origins of Consciousness or the War of the Five Dimensions Walter Veit (nella foto) sviluppa un’interessante teoria della coscienza. Adottato il paradigma evoluzionistico, egli ritiene che si possano “sbucciare” tutta una serie di “aggiunte” caratteristiche della coscienza umana e rinvenire negli animali, nei quali la coscienza si sarebbe originariamente affacciata, una coscienza ridotta alla percezione delle proprie emozioni, segnatamente di piacere e dolore, dall’evidente funzione biologica (utile alla conservazione e riproduzione dell’organismo che ne è dotato).

Trovo ficcante e condivisibile l’idea che la coscienza non possa essere colta né con un approccio esternalista né con un approccio internalista. La coscienza non avrebbe a che fare originariamente col “self“, inteso come individuale, riferito al determinato organismo, né si ridurrebbe a un mero effetto ambientale (secondo un modello rozzo stimolo-risposta). Per motivi diversi da quelli di Veit sono conclusioni a cui sono giunto anch’io.

Ho trovato abbastanza istruttiva la critica all’approccio autopoietico, che pure in generale trovo convincente. In Veit è rappresentato da Evan Thompson. Effettivamente, se si fa dell’organismo una totalità senza esterno, come sostiene la “tradizione” dell’autopoiesi e tenderei a immaginare anch’io, quando sostengo che si tratta di un inviluppo dell’universo stesso, si perde la peculiarità dell’organismo vivente, cioè la capacità di azzerare in se stesso l’incremento dell’entropia (carattere che, pure secondo me, è connesso con l’emergere della coscienza). Se manca un confine tra dentro e fuori come si può mettere in evidenza questa peculiarità? Bisognerebbe immaginare una sorta di “onda entropica” che si innalza progressivamente dopo il big bang per poi calare via via che la vita evolve sulla Terra, senza tuttavia introdurre soluzioni di continuità…

Sono d’accordo nello scartare un modello di coscienza “diacronica”. Posso immaginare di avere l’Alzheimer e di perdere in tutto o in parte questa consapevolezza (come lo stesso “io” o “self“).

Non sono invece d’accordo nello scartare la coscienza sincronica, se ho ben capito quello che sostiene Veit. Il solito esempio della coscienza “diffusa” o “multipla” del polpo non mi convince affatto. In primo luogo nessuno d noi è un polpo e non possiamo sapere che cosa esperiremmo (questo è un limite più generale dell’approccio di Veit). In secondo luogo ammesso che un tentacolo del polpo non sappia cosa passa per il cervello del polpo e viceversa (come la parte destra del mio cervello non saprebbe che cosa pensa quella sinistra nel caso di resecazione del mio corpo calloso), questo significherebbe semplicemente che ci sarebbero tante coscienze sincroniche quanti sono i tentacoli o le parti indipendenti del sistema nervoso / cervello di una persona o di un animale. Un coscienza multipla è contraddittoria con la nozione di coscienza come esperienza soggettiva. Due persone hanno  verosimilmente “due” coscienze (come il tentacolo del polpo e il suo cervello in ipotesi), ma nessuna delle due è cosciente direttamente dell’altra (ciascuno effettua un’inferenza da sé all’altro, nel senso che ciascuno suppone per una serie di ragioni che anche l’altra persona sia cosciente). Se una delle due coscienze fosse direttamente cosciente anche dell’altra, si vedrebbe un panorama in cui i tetti p.e. di Udine si confonderebbero con quelli p.e. di Milano (se le due persone risiedessero rispettivamente in queste due città)  e, di nuovo, si registrerebbe UNA coscienza. Non vedo alternative.

Per quanto riguarda il superamento della nozione di coscienza percettiva o sensoriale, sono d’accordo con Veit che non si debba esagerare la metafora della “visione”. Ma da questo non capisco come si possa diminuire il valore della dimensione fenomenologica. Anche se il “folk”, a differenza dei filosofi, pensa che la coscienza abbia a che fare con questioni valutative legate all’affettività e ammesso e non concesso che questa dimensione possa dribblare lo hard problem, il “filosofo” testardo può solitariamente continuare a chiedersi come sia possibile l’esperienza fenomenica, anche se per convenzione linguistica accettasse di chiamare “coscienza” qualcos’altro, quello che appunto il “popolo” chiamerebbe così.

Ora Veit sembra consapevole di questo “diritto” del filosofo e, infatti, non appoggiandosi in modo esclusivo alla tesi dei “filosofi sperimentali della mente”, conclude nel modo seguente (mi sembra la sua tesi fondamentale):

“Hedonic value of a stimulus or a bodily state seems to be an evaluation of its expected value to the organism” . There doesn’t appear to be an additional problem of why there is valence. This makes the evaluative side of experience a compelling target for an attempt to bridge the gap between matter and mind. To have a phenomenological experience is to have an evaluative experience. To naturalize the puzzling notion of ‘qualia’ is simply to explain how and why organisms have such an evaluation. Phenomenal states simply are explained within the context of an affect-based model of phenomenological experience.

Ora, se Veit intende sostenere che l’esperienza valutativa (di fatto quella “affettiva”) sia alla radice evoluzionisticamente della coscienza fenomenologica non ho obiezioni di merito (ma solo di metodo: come fa a dimostrare una cosa del genere?). Se per “radice” non intendiamo “causa”, ma solo l’inizio nel tempo dell’esperienza della coscienza (come dire, nel mio modello, che quando l’Uno si incarna in una zebra la sua esperienza ha più carattere affettivo che visivo o intellettuale) non c’è problema.
Proprio di recente ho scritto una nuova pagina del mio sito, in cui riconosco il valore funzionale (per sopravvivenza e riproduzione) di “piacere” e “dolore” e delle altre emozioni. Considero queste emozioni come modi attraverso cui il corpo comunica/ricorda alla coscienza i propri bisogni.
Ma come centrare la coscienza nell’esperienza affettiva aiuti a superare il “gap between matter and mind” mi risulta oscuro.

Perché ciò che noi e probabilmente molti altri animali viviamo come piacere e dolore debba essere appunto “vissuto”? Se una certa percezione attiva certe sostanze nel cervello (poniamo: endorfine) che spingono verso un certo comportamento perché il tutto deve essere percepito come piacere? Lo hard problem mi sembra rimanere intatto.

Dal punto di vista epistemologico, come accennato, mi chiedo come la letteratura ampiamente citata da Veit (a cui Veit attinge) possa tranquillamente (o allegramente) attribuire “coscienza” a organismi non umani. Sono profondamente convinto che la coscienza sia diffusa al di là dei “sapiens” (p.e. nelle scimmie antropomorfe). Ma come dimostrarlo? È un’opzione metafisica? Vedo certamente come gli animali si comportano, ma come posso sapere che cosa e se “sentono”?
Ad es. Veit evoca a un certo punto il fatto che anche animali molto primitivi, come spugne ecc., sono in grado di distinguere se stessi dall’altro da sé. Ma anche il nostro sistema immunitario individua eventuali organismi “invasori”. Non per questo il nostro sistema immunitario è cosciente!

L’operazione di Veit mi sembra circolare. Da un lato invita a non fare della coscienza “umana” il paradigma di riferimento. Poi va a cercare in “natura” il precursore di questa coscienza in qualche struttura. Ovviamente deve trattarsi di qualcosa di più semplice. “Immagina” che questa “cosa” sia fatta in un certo modo “semplificando” all’estremo la coscienza umana e “proietta” questa sua immaginazione sulla natura.  Ma in ultima analisi è sempre dalla coscienza umana che bisogna partire, non perché noi siamo “speciali”, ma soltanto perché la coscienza umana è la sola di cui facciamo esperienza. E poiché la coscienza è caratterizzata proprio come “esperienza soggettiva” mi sembra difficile prescinderne.

Tuttavia Veit rifiuta il “biopsichismo”, come lo chiama, cioè l’idea che vita e coscienza evolvano di pari passo, pur volendo a tutti costi adottare il paradigma darwinistico (che dà per scontato) anche per la coscienza. Mi sembra di capire che Veit immagini una sorta di “delay” tra evoluzione della vita ed evoluzione della coscienza, pur sostenendo che entrambe evolvano per gradi.
Ma da quali “segni” egli pensa di riconoscere nel vivente non umano l’apparire dei primordi della coscienza? Come fa a distinguerli da riflessi inconsci?

Mi sembra che quello di Veit sia un esempio eloquente di come spesso l’approccio empirico (“naturalizzante”), che si propone come scientifico, sia del tutto inadeguato.
Mancando una chiarificazione filosofica a monte di quello che si possa intendere per coscienza, di come si possa riconoscere che un ente diverso da noi stessi ne sia dotato, finanche di come si possano verificare o falsificare le proprie assunzioni in tal senso, su quali basi si possa considerare scientifico e non meramente speculativo l’approccio darwinistico, si rischia di assumere un atteggiamento seriosamente “scientifico” versus il chiacchiericcio filosofico mentre si cade nell’errore contrario: si fa speculazione con l’aggravante di una mancanza consapevolezza di farla.

Olarchia

Che cosa implica il fatto che nell’ordine esplicato l’incremento generale del disordine, misurato dall’entropia, sia in qualche modo compensato dal sorgere di “isole di ordine”,…

Being you

Beingyou

Il libro di Anil Seth, Being you. A New Science of Consciousness, Faber & Faber, Londra 2021, propone una ficcante teoria della coscienza che sembra piuttosto convincente, anche se, rifiutando esplicitamente di confrontarsi con lo hard problem della coscienza, come lo chiama David Chalmers, (perché essa esista) elude la questione decisiva.

 

In che cosa, dunque, consistono i motivi principali di interesse del volume?

 

Appare “filosoficamente” convincente l’interpretazione di fondo che Seth fornisce della coscienza: si tratterebbe di un sistema che, sulla base di un approccio predittivo “bayesiano”, “allucina” una realtà “funzionale” e non necessariamente simile alla “realtà vera” (lo stesso Seth nell’epilogo richiama la distinzione kantiana tra fenomeno noumeno e allude alla possibilità che lo stesso tessuto tridimensionale dello spazio – purtroppo non parla del tempo, che mi sta molto a cuore, – possa essere un “effetto percettivo”).

 

Entro certi limiti convince anche l’istanza “naturalistica”  (implicita nella rilevanza che Seth assegna a quello che chiama “real problem” della coscienza rispetto allo “hard problem“): bisogna che qualsiasi interpretazione del funzionamento della coscienza sia coerente con i dati empirici: anche se la coscienza, in quanto esperienza soggettiva, non è il cervello, nulla vieta, anzi tutto suggerisce che vi sia una stretta correlazione tra coscienza e cervello (o corpo), tra “interno” ed “esterno”. Quindi è giusto “naturalizzare” il problema e non limitarsi ad assumere una prospettiva esclusivamente “trascendentale”, pura, sul tema (questa non esclude quella: l’analisi fenomenologica, semplicemente, non può essere incongrua con il dato empirico: ad es. non può essere che io percepisca un gatto se il mio cervello manda le onde tipiche del sonno profondo).

 

Va detto che, nonostante Seth sia un neuroscienziato, la sua teoria appare, in ultima analisi, più speculativa che “scientifica”: Seth prende certamente spunto da osservazioni ed esperimenti suoi e di altri, ma ciò che dà senso al volume è una complessiva interpretazione che è certamente autorizzata dai dati empirici, ma non è l’unica possibile.

 

Il limite, come accennato, è che Seth, nonostante la sua “deriva” speculativa, pretende di eludere lo “hard problem“.

 

Afferma di distinguere quello che chiama real problem  (il problema di spiegare “scientificamente” la coscienza) dagli easy problems” , come li chiama ancora Chalmers, che riguarderebbero il “funzionamento” della coscienza.  Eppure, alla fine, anche Seth spiega la coscienza funzionalisticamente (con la sua teoria bayesiana) dando per scontata quella fenomenologia della coscienza, che è invece esattamente quello che contraddistingue la coscienza come coscienza in prima persona e che si trattava di spiegare (cosa che Seth non fa), se si prende sul serio lo hard problem.

 

Seth non riesce in ultima analisi a “giustificare” l’esistenza stessa della coscienza. Perché il suo efficace funzionamento bayesiano non potrebbe essere implementato da un sistema inconscio, come sono, secondo lo stesso Seth, diverse forme di intelligenza artificiale?

L’approccio riduzionistico, in generale, alla natura è utile ma non esclusivo (come lo presenta Seth con fallacia epistemologica). Consideriamo l’approccio riduzionistico alla vita proprio della biologia moderna, che Seth considera paradigmatico. Esso non fa che spostare lo “hard problem”  (che cosa sia e perché esista la vita), non lo dissolve in una nuvola di fumo metafisico, come pensa Seth. Lo stesso si verifica per il problema dell’esistenza della coscienza (lo hard problem di Chalmers, appunto). Se io sono un sistema che si autoregola per sopravvivere che bisogno ho di essere cosciente? Si possono costruire sistemi che si autoregolano in base agli input che ricevono senza che per questo questi siano vivi e coscienti.

 

La stessa giusta distinzione che Seth fa, nell’ultimo capitolo prima dell’epilogo, tra coscienza intelligenza dovrebbe aiutarlo a comprendere (cfr. le pagine in cui intuisce improbabile che una macchina capace di “predictive processing” sia cosciente) che questo “predictive processing“, che secondo lui caratterizza la coscienza, si adatta a rappresentare anche semplicemente un sistema intelligente capace di autoregolazione, ma inconscio.

 

Passiamo ora a rilievi più specifici.

 

La teoria dell’energia libera di Friston sembra molto intrigante: in ultima analisi vi si argomenta che un organismo sarebbe in grado di limitare drasticamente i suoi potenzialmente numerosi gradi di libertà (alta entropia), che lo porterebbe a una rapida decomposizione.
Non è un altro modo di dire che un vivente è governato da un campo morfogenetico o anche che si contraddistingue come sistema autopoietico (teoria di Maturana e Varela che mi sembra molto ficcante)?
La questione è come il vivente riesca in questa sorprendente riduzione che sembra violare il secondo principio della termodinamica.

 

Non deve avere necessariamente una fisica diversa da quella di un sasso, certo. Eppure una fisica, che, globalmente, arriva a tanto, è forse un po’ diversa da quella c.d. meccanicistica a cui si pensa comunemente. Può darsi che vi abbiamo un ruolo principi nuovi, forze sconosciute, cause finali o attrattori strani.

 

Insomma naturalismo e fisicalismo anche sì, ma “very very enlarged“.

 

Seth discute anche l’interessante paradosso del teletrasporto: se una certa Eva entrasse, qui sulla Terra, in una macchina per il teletrasporto che la disintegrasse per poi ricostruirla altrove, p.e. su Marte,  si potrebbe dire che Eva è sempre Eva, la sua coscienza sarebbe la stessa? E, se per un guasto della macchina, la Eva “terrestre” sopravvivesse e venisse comunque riprodotta una seconda Eva, identica alla prima, su Marte, quale delle due sarebbe Eva? (Seth evoca qua e là anche lo “split brain” e l’interessante caso reale dei gemelli siamesi uniti per il cervello).

 

In tutti questi casi, secondo me, si continua a sfuggire al problema. Non basta dire “entrambe le donne sono Eva”.

 

Tu che sei entrata nella macchina, ti ritroverai su Marte o sulla Terra? La mia risposta è: sulla Terra . Su Marte c’è un clone (con la tua memoria). Non può essere l’identità fisica che determina la continuità della coscienza, semmai il contrario. Tutti quelli che entrano in una macchina del teletrasporto muoiono all’istante anche se nessuno se ne accorge (neanche loro se ne accorgerebbero, se la morte fosse un passare nel nulla, ma non perché si ritroverebbero altrove col proprio corpo, ma appunto perché morirebbero: naturalmente nella mia ipotesi di fondo costoro si troverebbero sì altrove, ma senza il loro corpo).

 

Anche la rappresentazione di una coscienza “diffusa” nel polpo, che Seth presenta nell’ultima capitolo, non mi sembra giustificata. Seth può riconoscere che parti del polpo di muovono con grande autonomia e intelligenza (del resto anche il nostro cuore e il nostro sistema immunitario lo fanno). Ma una coscienza che non sia “una” è impensabile. Qualunque cosa fosse, non sarebbe quello che intendiamo per coscienza.

 

Attenzione: non si sostiene che “chiunque” sia cosciente (nessuno in particolare ovvero l’universo stesso) debba concepire se stesso necessariamente come uno e come un corpo. Questa è senz’altro un’allucinazione. Ci si identifica che questo o con quello, ma si è senz’altro altro da quello che si crede di essere e si percepisce di sé (vedi oltre). Tuttavia questo altro non può che avere UNA coscienza se ha coscienza. Non ha senso dire che ne può avere due. Se le ha simultaneamente (ad es. si percepisce sia a Udine sia in Lussemburgo) ha una sola coscienza con due o più percezioni (come ora io vedo più colori). Se ha queste “coscienze” in tempi diversi, ancora ne ha una sola che, semplicemente, si sposta e diviene riempiendosi nel tempo di contenuti diversi.
Seth radica la coscienza nella vita piuttosto che nell’intelligenza. Interessante e sensato. Ma come dimostrarlo?
È una sua congettura.
Molte attività viventi anche nostre e anche molto complesse si svolgono inconsciamente. Forse la funzione della coscienza è legata alla possibilità di provare piacere e dolore per orientarsi nel mondo tra opportunità e pericoli? Ma anche un meccanismo inconscio emulabile da un robot potrebbe farlo….

 

Arriviamo alla questione epistemologicamente cardine, a mio parere.

 

Se tutto è allucinazione controllata, compresi gli oggetti esterni, anche p.e. il sistema limbico o il cervelletto o la neurocorteccia sono allucinazioni, anche il corpo vivente è un’allucinazione che ai nostri occhi e alla nostra mente sembra occupare uno spazio tridimensionale, anche gli stessi spazio e tempo: Seth assegna a loro un ruolo solo perché ha bisogno di credere che esistano come oggetti esterni al fine di sopravvivere (come neuroscienziato piuttosto che come mistico?). È la “mise en abime” che contraddistingue ogni naturalismo radicale (portato alle estreme conseguenze) che finisce per farne un idealismo.

 

A p. 272 Seth sembra applicare la sua teoria della coscienza a se stessa: come la coscienza funziona in quanto predittiva, non “oggettiva”, così anche una teoria sulla coscienza funziona se obbedisce a un’epistemologia bayesiana. Ma è come dire che la sua teoria può tranquillamente essere anche falsa! Insomma non si cade nel paradosso del mentitore?

 

In questa prospettiva “idealistica” si può essere d’accordo con Seth che il sé sia un’allucinazione, non diversamente dagli altri “oggetti”: l’Uno si identifica erroneamente in me e in te.
Ma, se Seth pensa che “chi” sbaglia in queste identificazioni non sia l’Uno, bensì il mio o il tuo o il suo “corpo vivente”, è perché finisce per commettere lo stesso errore che ha smascherato, assegnando a un fantomatico corpo vivente una realtà fondamentale, mentre sulla base dei suoi stessi criteri e risultati bisogna considerarlo un’allucinazione, un costrutto funzionale alla vita di che se lo rappresenta (nella mia ipotesi l’Uno-tutto, chi altri se no?).

 

Come accennato all’inizio, infine, molte teorie di Seth (ad es. che la coscienza sia legata alla vita o sia predittiva) non sono immediatamente ricavate da esperimenti ma sembrano interpretazioni speculative di esperimenti (il che a me va benssimo, lo trovo inevitabile, ma a te?). Con un gioco di parole si potrebbe dire che la teoria della coscienza predittiva non è a sua volta… predittiva (controllabile mediante esperimenti che potrebbero falsificarla). Troppo bayesianesimo, del resto, può dare alla testa, come argomentava Popper!

Coscienza e causalità

Un articolo interessante, di ispirazione cognitivistica, difende l’ipotesi che gli “eventi causali” arrivino alla coscienza (awareness) più velocemente di quelli “non causali”. Purtroppo questo articolo, a causa delle assunzioni implicite da cui muove, non ci aiuta, se non tangenzialmente, a rispondere alla domanda “Che cos’è la coscienza?”.

Si tratta di Causal events enter awareness faster than non causal events di Pieter Moors, Johan Wagemans e Lee De-Wit.

Intanto un’osservazione sullo stesso titolo dell’articolo.

A rigore non si dovrebbe parlare di “eventi causali”, ma bisognerebbe dire che eventi che simulano una connessione come quelle tipiche di eventi che noi interpretiamo come causalmente connessi (per esempio nel caso di “lanci”) entrano più rapidamente nella coscienza degli eventi che non simulano tale connessione.

Tale risultato non dovrebbe, comunque, stupire. In una prospettiva evoluzionistica sembra abbastanza verosimile che gli uomini, come senza dubbio anche gli animali superiori (Schopenhauer attribuiva anche al suo cane la capacità di interpretare i fenomeni attingendo alla categoria kantiana di “causa-effetto”), abbiano imparato abbastanza presto, per sopravvivere, ad anticipare certi eventi (pericolosi o, viceversa, appetibili) sulla base dei loro “prodromi” abituali. Eventi del tutto casuali non potevano ovviamente rientrare in sistemi previsionali efficienti (informaticamente si potrebbe dire che una sequenza di eventi totalmente casuali non è traducibile in sequenze di bit comprimibili sulla base di algoritmi, mentre, se ogni volta che c’è un lampo, segue necessariamente un tuono, è possibile costruire un algoritmo di compressione dell’informazione che semplifica la vita di chi contempla il duplice fenomeno).

Niente di strano che tale “apprendimento” si svolga a una livello abbastanza “inconscio” o radicato in strutture cognitive “basse”, come la percezione. Né che, per la sua utilità, quando una sequenza “apparentemente causale” si verifica, se ne abbia, in apparente contraddizione con il livello in cui essa viene registrata, più rapidamente coscienza.

Quello che si può trarre da questo articolo riguarda la funzione della coscienza. Tale funzione sembrerebbe proprio connessa a esigenze di sopravvivenza (sono più rapidamente consapevole di certi eventi “apparentemente causali” perché mi potrebbero interessare più di altri a fini di sopravvivenza). Il che propone la questione della “causalità” della stessa coscienza (probabilmente il modello da cui noi deriviamo la nozione stessa di “causalità” che poi proiettiamo sugli altri viventi o, addirittura, sugli esseri inanimati). Se la coscienza ha potere causale (come la sua ipotetica “emergenza” evolutiva sembra suggerire), per esempio mi “fa fuggire” più rapidamente (dell’istinto) da sequenze (pseudo-causali) di eventi interpretate come pericolose, come può reggere una prospettiva fisicalistica?

Da un altro punto di vista, però, gli esperimenti discussi da questo secondo articolo non hanno molto a che fare con la questione “metafisica” della causalità. Hume potrebbe continuare ad avere ragione. Certe correlazioni più frequenti o più “forti” vengono interpretate da qualcosa in noi (si tratti di coscienza o di percezione) come “causali” e arrivano prima alla coscienza. E allora? A meno di non ammettere che siamo noi stessi a generare i fenomeni che interpretiamo (come in una prospettiva idealistica), tutto questo dice ben poco circa la natura effettiva di tali correlazioni.

Si tratta di causalità a tutti gli effetti simulata, nel contesto dell’esperimento.  Si potrebbe fare esperimenti con animali superiori per vedere se la sequenza “lampo-tuono” (che non è a rigore causale, perché si tratta di due percezioni dello stesso evento, non di due eventi causalmente connessi) “arriva prima alla coscienza” di sequenze (in apparenza) puramente casuali. Ma non sono di questo genere i classici esperimenti pavloviani sui (poveri) cani (parenti forse di Atman, il cane di Schopenhauer)? A stimoli associati seguono risposte abbastanza prevedibili. Disgraziatamente non possiamo interrogare i cani per sapere se sono anche “coscienti”!

In generale, se paragoniamo la coscienza a una macchina fotografica, agli autori di questi articoli sembra interessare di più la domanda come sia possibile ottenere immagini degli oggetti esterni, esaminando parametri collegati all’obiettivo della “macchina fotografica” (tempo di esposizione, diametro dell’apertura, inclinazione rispetto alle sorgenti luminose ecc.).

A me, invece, acclarato che l’apparato collegato all’obiettivo in qualche modo funziona, interessa piuttosto sapere dove si formano le immagini: una pellicola o un nastro magnetico o un sistema digitale o qualcosa di simile a un occhio umano ecc.

Fuori di metafora, la mia domanda è “Che cos’è la coscienza?”. Rispetto a questa domanda, una domanda “guida” potrebbe essere, più ancora di “Come funziona?”, “Perché ce l’abbiamo?” (dove si scontrano modelli evoluzionistici e anti-evoluzionistici).

La domanda “Come funziona?” (p.e. “In modo discreto o continuo?”) ha un interesse relativo. Certamente, il funzionamento della coscienza è legato alla sua essenza (p.e. l’ipotesi di Penrose sulla sua natura quantistica – così come le ipotesi di matrice cognivistica – non sarebbe una buona ipotesi di partenza, se si evidenziasse sperimentalmente che la coscienza funziona  – poniamo – come un “continuo”), ma tale funzionamento non è sufficiente a determinare quale tra le ipotesi ontologiche relative alla sua essenza è quella vera (o anche solo più verosimile).

Vige, infatti, quella che in epistemologia si chiama “sottodeterminazione”. Se una certa teoria ha conseguenze compatibili con quello che si osserva (poniamo un funzionamento discreto della coscienza), tale teoria (p.e. il framework degli autori dell’articolo) non è necessariamente più vera dì altre teorie (p.e. l’ipotesi di Penrose o quella olografica), le quali potrebbero “salvare” gli stessi fenomeni (che, quindi, sottodeterminano la teoria in esame).

D’altra parte, anche se un solo fenomeno incongruente sembrerebbe poter smentire una teoria, come sostiene Popper, neppure questo è del tutto vero se ci collochiamo nella prospettiva della cosiddetta “tesi di Duhem-Quine”: la stessa “incongruenza” del determinato fenomeno ” può essere rilevata solo a partire da ulteriori assunzioni e, in ogni caso, non è mai possibile determinare che cosa esattamente tale incongruenza  confuti.