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Being you

Beingyou

Il libro di Anil Seth, Being you. A New Science of Consciousness, Faber & Faber, Londra 2021, propone una ficcante teoria della coscienza che sembra piuttosto convincente, anche se, rifiutando esplicitamente di confrontarsi con lo hard problem della coscienza, come lo chiama David Chalmers, (perché essa esista) elude la questione decisiva.

 

In che cosa, dunque, consistono i motivi principali di interesse del volume?

 

Appare “filosoficamente” convincente l’interpretazione di fondo che Seth fornisce della coscienza: si tratterebbe di un sistema che, sulla base di un approccio predittivo “bayesiano”, “allucina” una realtà “funzionale” e non necessariamente simile alla “realtà vera” (lo stesso Seth nell’epilogo richiama la distinzione kantiana tra fenomeno noumeno e allude alla possibilità che lo stesso tessuto tridimensionale dello spazio – purtroppo non parla del tempo, che mi sta molto a cuore, – possa essere un “effetto percettivo”).

 

Entro certi limiti convince anche l’istanza “naturalistica”  (implicita nella rilevanza che Seth assegna a quello che chiama “real problem” della coscienza rispetto allo “hard problem“): bisogna che qualsiasi interpretazione del funzionamento della coscienza sia coerente con i dati empirici: anche se la coscienza, in quanto esperienza soggettiva, non è il cervello, nulla vieta, anzi tutto suggerisce che vi sia una stretta correlazione tra coscienza e cervello (o corpo), tra “interno” ed “esterno”. Quindi è giusto “naturalizzare” il problema e non limitarsi ad assumere una prospettiva esclusivamente “trascendentale”, pura, sul tema (questa non esclude quella: l’analisi fenomenologica, semplicemente, non può essere incongrua con il dato empirico: ad es. non può essere che io percepisca un gatto se il mio cervello manda le onde tipiche del sonno profondo).

 

Va detto che, nonostante Seth sia un neuroscienziato, la sua teoria appare, in ultima analisi, più speculativa che “scientifica”: Seth prende certamente spunto da osservazioni ed esperimenti suoi e di altri, ma ciò che dà senso al volume è una complessiva interpretazione che è certamente autorizzata dai dati empirici, ma non è l’unica possibile.

 

Il limite, come accennato, è che Seth, nonostante la sua “deriva” speculativa, pretende di eludere lo “hard problem“.

 

Afferma di distinguere quello che chiama real problem  (il problema di spiegare “scientificamente” la coscienza) dagli easy problems” , come li chiama ancora Chalmers, che riguarderebbero il “funzionamento” della coscienza.  Eppure, alla fine, anche Seth spiega la coscienza funzionalisticamente (con la sua teoria bayesiana) dando per scontata quella fenomenologia della coscienza, che è invece esattamente quello che contraddistingue la coscienza come coscienza in prima persona e che si trattava di spiegare (cosa che Seth non fa), se si prende sul serio lo hard problem.

 

Seth non riesce in ultima analisi a “giustificare” l’esistenza stessa della coscienza. Perché il suo efficace funzionamento bayesiano non potrebbe essere implementato da un sistema inconscio, come sono, secondo lo stesso Seth, diverse forme di intelligenza artificiale?

L’approccio riduzionistico, in generale, alla natura è utile ma non esclusivo (come lo presenta Seth con fallacia epistemologica). Consideriamo l’approccio riduzionistico alla vita proprio della biologia moderna, che Seth considera paradigmatico. Esso non fa che spostare lo “hard problem”  (che cosa sia e perché esista la vita), non lo dissolve in una nuvola di fumo metafisico, come pensa Seth. Lo stesso si verifica per il problema dell’esistenza della coscienza (lo hard problem di Chalmers, appunto). Se io sono un sistema che si autoregola per sopravvivere che bisogno ho di essere cosciente? Si possono costruire sistemi che si autoregolano in base agli input che ricevono senza che per questo questi siano vivi e coscienti.

 

La stessa giusta distinzione che Seth fa, nell’ultimo capitolo prima dell’epilogo, tra coscienza intelligenza dovrebbe aiutarlo a comprendere (cfr. le pagine in cui intuisce improbabile che una macchina capace di “predictive processing” sia cosciente) che questo “predictive processing“, che secondo lui caratterizza la coscienza, si adatta a rappresentare anche semplicemente un sistema intelligente capace di autoregolazione, ma inconscio.

 

Passiamo ora a rilievi più specifici.

 

La teoria dell’energia libera di Friston sembra molto intrigante: in ultima analisi vi si argomenta che un organismo sarebbe in grado di limitare drasticamente i suoi potenzialmente numerosi gradi di libertà (alta entropia), che lo porterebbe a una rapida decomposizione.
Non è un altro modo di dire che un vivente è governato da un campo morfogenetico o anche che si contraddistingue come sistema autopoietico (teoria di Maturana e Varela che mi sembra molto ficcante)?
La questione è come il vivente riesca in questa sorprendente riduzione che sembra violare il secondo principio della termodinamica.

 

Non deve avere necessariamente una fisica diversa da quella di un sasso, certo. Eppure una fisica, che, globalmente, arriva a tanto, è forse un po’ diversa da quella c.d. meccanicistica a cui si pensa comunemente. Può darsi che vi abbiamo un ruolo principi nuovi, forze sconosciute, cause finali o attrattori strani.

 

Insomma naturalismo e fisicalismo anche sì, ma “very very enlarged“.

 

Seth discute anche l’interessante paradosso del teletrasporto: se una certa Eva entrasse, qui sulla Terra, in una macchina per il teletrasporto che la disintegrasse per poi ricostruirla altrove, p.e. su Marte,  si potrebbe dire che Eva è sempre Eva, la sua coscienza sarebbe la stessa? E, se per un guasto della macchina, la Eva “terrestre” sopravvivesse e venisse comunque riprodotta una seconda Eva, identica alla prima, su Marte, quale delle due sarebbe Eva? (Seth evoca qua e là anche lo “split brain” e l’interessante caso reale dei gemelli siamesi uniti per il cervello).

 

In tutti questi casi, secondo me, si continua a sfuggire al problema. Non basta dire “entrambe le donne sono Eva”.

 

Tu che sei entrata nella macchina, ti ritroverai su Marte o sulla Terra? La mia risposta è: sulla Terra . Su Marte c’è un clone (con la tua memoria). Non può essere l’identità fisica che determina la continuità della coscienza, semmai il contrario. Tutti quelli che entrano in una macchina del teletrasporto muoiono all’istante anche se nessuno se ne accorge (neanche loro se ne accorgerebbero, se la morte fosse un passare nel nulla, ma non perché si ritroverebbero altrove col proprio corpo, ma appunto perché morirebbero: naturalmente nella mia ipotesi di fondo costoro si troverebbero sì altrove, ma senza il loro corpo).

 

Anche la rappresentazione di una coscienza “diffusa” nel polpo, che Seth presenta nell’ultima capitolo, non mi sembra giustificata. Seth può riconoscere che parti del polpo di muovono con grande autonomia e intelligenza (del resto anche il nostro cuore e il nostro sistema immunitario lo fanno). Ma una coscienza che non sia “una” è impensabile. Qualunque cosa fosse, non sarebbe quello che intendiamo per coscienza.

 

Attenzione: non si sostiene che “chiunque” sia cosciente (nessuno in particolare ovvero l’universo stesso) debba concepire se stesso necessariamente come uno e come un corpo. Questa è senz’altro un’allucinazione. Ci si identifica che questo o con quello, ma si è senz’altro altro da quello che si crede di essere e si percepisce di sé (vedi oltre). Tuttavia questo altro non può che avere UNA coscienza se ha coscienza. Non ha senso dire che ne può avere due. Se le ha simultaneamente (ad es. si percepisce sia a Udine sia in Lussemburgo) ha una sola coscienza con due o più percezioni (come ora io vedo più colori). Se ha queste “coscienze” in tempi diversi, ancora ne ha una sola che, semplicemente, si sposta e diviene riempiendosi nel tempo di contenuti diversi.
Seth radica la coscienza nella vita piuttosto che nell’intelligenza. Interessante e sensato. Ma come dimostrarlo?
È una sua congettura.
Molte attività viventi anche nostre e anche molto complesse si svolgono inconsciamente. Forse la funzione della coscienza è legata alla possibilità di provare piacere e dolore per orientarsi nel mondo tra opportunità e pericoli? Ma anche un meccanismo inconscio emulabile da un robot potrebbe farlo….

 

Arriviamo alla questione epistemologicamente cardine, a mio parere.

 

Se tutto è allucinazione controllata, compresi gli oggetti esterni, anche p.e. il sistema limbico o il cervelletto o la neurocorteccia sono allucinazioni, anche il corpo vivente è un’allucinazione che ai nostri occhi e alla nostra mente sembra occupare uno spazio tridimensionale, anche gli stessi spazio e tempo: Seth assegna a loro un ruolo solo perché ha bisogno di credere che esistano come oggetti esterni al fine di sopravvivere (come neuroscienziato piuttosto che come mistico?). È la “mise en abime” che contraddistingue ogni naturalismo radicale (portato alle estreme conseguenze) che finisce per farne un idealismo.

 

A p. 272 Seth sembra applicare la sua teoria della coscienza a se stessa: come la coscienza funziona in quanto predittiva, non “oggettiva”, così anche una teoria sulla coscienza funziona se obbedisce a un’epistemologia bayesiana. Ma è come dire che la sua teoria può tranquillamente essere anche falsa! Insomma non si cade nel paradosso del mentitore?

 

In questa prospettiva “idealistica” si può essere d’accordo con Seth che il sé sia un’allucinazione, non diversamente dagli altri “oggetti”: l’Uno si identifica erroneamente in me e in te.
Ma, se Seth pensa che “chi” sbaglia in queste identificazioni non sia l’Uno, bensì il mio o il tuo o il suo “corpo vivente”, è perché finisce per commettere lo stesso errore che ha smascherato, assegnando a un fantomatico corpo vivente una realtà fondamentale, mentre sulla base dei suoi stessi criteri e risultati bisogna considerarlo un’allucinazione, un costrutto funzionale alla vita di che se lo rappresenta (nella mia ipotesi l’Uno-tutto, chi altri se no?).

 

Come accennato all’inizio, infine, molte teorie di Seth (ad es. che la coscienza sia legata alla vita o sia predittiva) non sono immediatamente ricavate da esperimenti ma sembrano interpretazioni speculative di esperimenti (il che a me va benssimo, lo trovo inevitabile, ma a te?). Con un gioco di parole si potrebbe dire che la teoria della coscienza predittiva non è a sua volta… predittiva (controllabile mediante esperimenti che potrebbero falsificarla). Troppo bayesianesimo, del resto, può dare alla testa, come argomentava Popper!

Coscienza e causalità

Un articolo interessante, di ispirazione cognitivistica, difende l’ipotesi che gli “eventi causali” arrivino alla coscienza (awareness) più velocemente di quelli “non causali”. Purtroppo questo articolo, a causa delle assunzioni implicite da cui muove, non ci aiuta, se non tangenzialmente, a rispondere alla domanda “Che cos’è la coscienza?”.

Si tratta di Causal events enter awareness faster than non causal events di Pieter Moors, Johan Wagemans e Lee De-Wit.

Intanto un’osservazione sullo stesso titolo dell’articolo.

A rigore non si dovrebbe parlare di “eventi causali”, ma bisognerebbe dire che eventi che simulano una connessione come quelle tipiche di eventi che noi interpretiamo come causalmente connessi (per esempio nel caso di “lanci”) entrano più rapidamente nella coscienza degli eventi che non simulano tale connessione.

Tale risultato non dovrebbe, comunque, stupire. In una prospettiva evoluzionistica sembra abbastanza verosimile che gli uomini, come senza dubbio anche gli animali superiori (Schopenhauer attribuiva anche al suo cane la capacità di interpretare i fenomeni attingendo alla categoria kantiana di “causa-effetto”), abbiano imparato abbastanza presto, per sopravvivere, ad anticipare certi eventi (pericolosi o, viceversa, appetibili) sulla base dei loro “prodromi” abituali. Eventi del tutto casuali non potevano ovviamente rientrare in sistemi previsionali efficienti (informaticamente si potrebbe dire che una sequenza di eventi totalmente casuali non è traducibile in sequenze di bit comprimibili sulla base di algoritmi, mentre, se ogni volta che c’è un lampo, segue necessariamente un tuono, è possibile costruire un algoritmo di compressione dell’informazione che semplifica la vita di chi contempla il duplice fenomeno).

Niente di strano che tale “apprendimento” si svolga a una livello abbastanza “inconscio” o radicato in strutture cognitive “basse”, come la percezione. Né che, per la sua utilità, quando una sequenza “apparentemente causale” si verifica, se ne abbia, in apparente contraddizione con il livello in cui essa viene registrata, più rapidamente coscienza.

Quello che si può trarre da questo articolo riguarda la funzione della coscienza. Tale funzione sembrerebbe proprio connessa a esigenze di sopravvivenza (sono più rapidamente consapevole di certi eventi “apparentemente causali” perché mi potrebbero interessare più di altri a fini di sopravvivenza). Il che propone la questione della “causalità” della stessa coscienza (probabilmente il modello da cui noi deriviamo la nozione stessa di “causalità” che poi proiettiamo sugli altri viventi o, addirittura, sugli esseri inanimati). Se la coscienza ha potere causale (come la sua ipotetica “emergenza” evolutiva sembra suggerire), per esempio mi “fa fuggire” più rapidamente (dell’istinto) da sequenze (pseudo-causali) di eventi interpretate come pericolose, come può reggere una prospettiva fisicalistica?

Da un altro punto di vista, però, gli esperimenti discussi da questo secondo articolo non hanno molto a che fare con la questione “metafisica” della causalità. Hume potrebbe continuare ad avere ragione. Certe correlazioni più frequenti o più “forti” vengono interpretate da qualcosa in noi (si tratti di coscienza o di percezione) come “causali” e arrivano prima alla coscienza. E allora? A meno di non ammettere che siamo noi stessi a generare i fenomeni che interpretiamo (come in una prospettiva idealistica), tutto questo dice ben poco circa la natura effettiva di tali correlazioni.

Si tratta di causalità a tutti gli effetti simulata, nel contesto dell’esperimento.  Si potrebbe fare esperimenti con animali superiori per vedere se la sequenza “lampo-tuono” (che non è a rigore causale, perché si tratta di due percezioni dello stesso evento, non di due eventi causalmente connessi) “arriva prima alla coscienza” di sequenze (in apparenza) puramente casuali. Ma non sono di questo genere i classici esperimenti pavloviani sui (poveri) cani (parenti forse di Atman, il cane di Schopenhauer)? A stimoli associati seguono risposte abbastanza prevedibili. Disgraziatamente non possiamo interrogare i cani per sapere se sono anche “coscienti”!

In generale, se paragoniamo la coscienza a una macchina fotografica, agli autori di questi articoli sembra interessare di più la domanda come sia possibile ottenere immagini degli oggetti esterni, esaminando parametri collegati all’obiettivo della “macchina fotografica” (tempo di esposizione, diametro dell’apertura, inclinazione rispetto alle sorgenti luminose ecc.).

A me, invece, acclarato che l’apparato collegato all’obiettivo in qualche modo funziona, interessa piuttosto sapere dove si formano le immagini: una pellicola o un nastro magnetico o un sistema digitale o qualcosa di simile a un occhio umano ecc.

Fuori di metafora, la mia domanda è “Che cos’è la coscienza?”. Rispetto a questa domanda, una domanda “guida” potrebbe essere, più ancora di “Come funziona?”, “Perché ce l’abbiamo?” (dove si scontrano modelli evoluzionistici e anti-evoluzionistici).

La domanda “Come funziona?” (p.e. “In modo discreto o continuo?”) ha un interesse relativo. Certamente, il funzionamento della coscienza è legato alla sua essenza (p.e. l’ipotesi di Penrose sulla sua natura quantistica – così come le ipotesi di matrice cognivistica – non sarebbe una buona ipotesi di partenza, se si evidenziasse sperimentalmente che la coscienza funziona  – poniamo – come un “continuo”), ma tale funzionamento non è sufficiente a determinare quale tra le ipotesi ontologiche relative alla sua essenza è quella vera (o anche solo più verosimile).

Vige, infatti, quella che in epistemologia si chiama “sottodeterminazione”. Se una certa teoria ha conseguenze compatibili con quello che si osserva (poniamo un funzionamento discreto della coscienza), tale teoria (p.e. il framework degli autori dell’articolo) non è necessariamente più vera dì altre teorie (p.e. l’ipotesi di Penrose o quella olografica), le quali potrebbero “salvare” gli stessi fenomeni (che, quindi, sottodeterminano la teoria in esame).

D’altra parte, anche se un solo fenomeno incongruente sembrerebbe poter smentire una teoria, come sostiene Popper, neppure questo è del tutto vero se ci collochiamo nella prospettiva della cosiddetta “tesi di Duhem-Quine”: la stessa “incongruenza” del determinato fenomeno ” può essere rilevata solo a partire da ulteriori assunzioni e, in ogni caso, non è mai possibile determinare che cosa esattamente tale incongruenza  confuti.

La coscienza funziona in modo discreto?

Nell’articolo Time Slices: What Is the Duration of a Percept? di Michael H. Herzog, Thomas Kammer, Frank Scharnowski, nel quale si prova ad argomentare un presunto funzionamento “discreto” della coscienza.

L’articolo è senz’altro interessante. Le (presunte – vedi oltre -, ma non meno interessanti) evidenze sperimentali relative a un funzionamento “discreto”, piuttosto che “continuo”, della mente, ad esempio, evocano quelle sulla base delle quali il fisico teorico Roger Penrose ha ritenuto di elaborare la sua teoria quantistica della mente (che non faccio mia completamente, perché, secondo me, presenta alcuni problemi, ma che si avvicina alla mia prospettiva).

[Secondo Penrose si registrerebbero singoli, discreti, “eventi” di coscienza mediamente 40 volte al secondo (una frequenza non lontana da quella congetturata dagli autori dell’articolo). Penrose, tuttavia, li interpreta come eventi determinati dal collasso della funzione d’onda (per effetto di gravità quantistica) associata al comportamento di un numero sufficiente di tuboline contenute nei microtubuli che si trovano nei neuroni del cervello. In questa interpretazione la “coscienza” sarebbe una sorta di “interfaccia” tra il campo di punto zero (la schiuma quantistica rilevabile al di sotto della lunghezza di Planck) e l’universo “classico” di cui facciamo esperienza. In virtù di altre assunzioni e ipotesi (che non mi sono del tutto chiare) secondo Penrose questo campo di punto zero (che a noi appare dissipato nello spazio, ubiquo, ma sarebbe, in realtà, per la sua coerenza interna, un’unica entità ben definita, esistente in una dimensione astratta parallela) sarebbe paragonabile a un mondo platonico di enti perfetti. La coscienza “medierebbe” tra questo mondo platonico e il mondo percepito dai sensi…]

Ma quali sono i problemi epistemologici posti da questo articolo?

Gli autori stessi distinguono molto chiaramente  i “recent experiments” sulla base dei quali argomentano le loro tesi e il “conceptual framework” che essi si limitano a proporre (il loro 2-Stage Model).

Al fondo operano con evidenza una serie di assunzioni tipiche dell’approccio cognitivistico, ossia la metafora portante del computer (per cui la “mente” opererebbe come un “computer”, processando informazioni che le provengono da input sensoriali, mediante “moduli” che assolvono funzioni diverse ecc.). Le assunzioni cognitivistiche influenzano anche l’interpretazione degli esperimenti.

Le evidenze sperimentali evocate dagli autori dell’articolo che cosa dimostrano, in effetti?

Esse sembrano dimostrare soltanto che la nostra coscienza è temporalmente “sfasata” rispetto agli eventi di cui è coscienza. Essa, cioè, ha il tempo di rielaborarli e di ricostruirli secondo determinati criteri. Ma questo basta a dimostrare che essa sia discreta, come pretendono gli autori dell’articolo?

La sequenza degli eventi da riorganizzare potrebbe essere continua, quasi-continua (o anche discreta, se consideriamo che il tempo sia fisicamente quantizzato) e le operazioni ricostruttive della coscienza (per cui, p.e. alla “luce” di un determinato disco rosso, percepito nel tempo 2, credo di “aver visto” anche il disco verde, percepito nel tempo 0, cambiare colore, nel tempo 1) potrebbero, a loro volta, essere sia continue (come sembrano) sia discrete.

Infatti, i criteri attraverso i quali una coscienza ipoteticamente continua potrebbe rielaborare  le percezioni potrebbero implicare, ad esempio, che determinate percezioni debbano essere unificate: ciò potrebbe rendere conto del fatto (rilevato durante gli esperimenti descritti nell’articolo) che “we perceive only one, static, fused vernier, which does not change over time”, invece che “first the first vernier offset, then a mixture of the two, and then the second vernier offset”, senza bisogno di postulare che la coscienza funzioni globalmente in modo discreto.

L’interpretazione (degli autori dell’articolo) che vuole che la coscienza funzioni sempre in modo discreto (ad entrambi i livelli previsti dal 2-Stage Model) dipende più dal paradigma computazionale assunto nel leggere gli esperimenti che dai dati sperimentali stessi.

Nulla vieta, ad esempio, di interpretare i dati sperimentali sulla base di altri paradigmi, ad esempio sulla base dell’ipotesi evocata da Karl Pribram (secondo me ancora migliore di quella di Penrose) che la mente operi piuttosto come un ologramma che come un computer. Ciò potrebbe condurre a risultati diversi (come nell’esempio dell’interpretazione di Penrose).

Nella mia prospettiva, la coscienza più che “continua” (il che presupporrebbe che essa “scorra”, in qualche modo, nel “tempo”) è “fissa” (“eterna”), è ciò che fondamentalmente “è”, rispetto a cui il “resto” potrebbe darsi in modo più o meno discreto o continuo. Gli esperimenti effettuati dagli autori dell’articolo non possano né confermare, né smentire questa mia prospettiva.

Certo, un supplemento di indagine dovrebbe essere fatto con riguardo a termini come “consciousness“, “awareness” o, perfino, “awakeness“.

Gli studi empirici non possono che concernere ciò che lo sperimentatore (o un soggetto cavia) può descrivere verbalmente come esperienza vissuta, dopo che essa si è svolta, dunque alcunché di già impastato con la memoria, mentre la coscienza “pura”, in quanto immediata, difficilmente può essere fatta oggetto di sperimentazione in questo modo (mentre sono cosciente di vedere un certo colore non so ancora di doverne rendere conto ad altri o a me stesso; quando ne rendo conto a qualcuno, già non lo vedo più e me lo ricordo).

La coscienza non può essere l’effetto di alcunché

A me sembra che la coscienza possa essere adeguatamente spiegata assumendo il paradigma meccanicistico (che, in “filosofia della mente”, come sai, assume il nome di…