La causalità a sua volta implica la vita

L’evoluzione, in particolare quella della vita, sembra dunque implicare cause finali. Ma, a ben vedere, è vero anche l’inverso: non si dànno cause, se non in rapporto ad alcunché di vivente; e queste “cause”, anche quando appaiono meccaniche, non possono che essere associate a cause finali.

La causalità, dunque, implica la vita. Dunque l’evoluzione dell’universo non implica solo la coscienza che ne dovrebbe scaturire, ma, circolarmente, la stessa vita che pure ne dovrebbe derivare (come tappa intermedia).

  • A me sembra che si possano individuare benissimo cause anche di fenomeni o processi nei quali non è coinvolta la vita!

La nozione di “causa”, a ben vedere, se ci pensi, implica una rottura di simmetria e l’emergere di processi irreversibili, come quelli che contraddistinguono eminentemente i viventi.

Possiamo, infatti, rilevare che qualcosa è causa di qualcos’altro

  1. se si presuppone che si dia un tempo in cui questo rapporto possa darsi [tempo che, a sua volta, sembra presupporre la coscienza*];
  2. se l’effetto è in qualche modo in nuce nella causa come nella generazione o anche in quelle “generazioni artificiali” o produzioni nelle quali è comunque coinvolto un vivente come artefice (nella cui mente è presente, come un germe, il modello del prodotto).
  • Spiegati meglio

Comunemente si sostiene quanto segue.

Dopo la rivoluzione scientifica del Seicento, con la nascita della filosofia moderna, nell’interpretazione dei fenomeni naturali, non si è più fatto ricorso a cause finali e formali, ma ci si è limitati a spiegare ciò che accade sulla base di cause efficienti (le forze in gioco) e materiali (le masse in gioco), successivamente unificate nel concetto generale di energia.


Questa ricostruzione non dice tutto. Ciò che è accaduto, in Occidente, è qualcosa di più profondo e radicale. Comprenderlo è fondamentale per intendere il senso dell’impresa scientifica contemporanea e i limiti della sua interpretazione meccanicistica (spesso opera degli scienziati stessi).

Il gesto attraverso cui Cartesio inaugura il pensiero moderno non  è tanto, come si scrive, la riduzione delle cause a (soltanto) quelle efficienti e materiali, quanto la loro completa abolizione, almeno in linea di principio.

La natura diventa nella sua prospettiva pura geometria quadridimensionale, lungo una direttrice ermeneutica che troverà in Albert Einstein il più geniale e fedele interprete.

In questo quadro, coerentemente, quella che viene messa in discussione è la stessa nozione di forza, tanto nel caso delle forze che sembrano agire a contatto, quanto, e a maggior ragione, nel caso della forze che agiscono a distanza. La forza, infatti, appare ai filosofi moderni solo più il residuo della nozione “meta-fisica” di “anima”, alcunché di “magico”, se non di “occulto”, da espungere recisamente dall’immagine “scientifica” del mondo.

Parallelamente viene meno anche la classica nozione di causa, non solo per quanto riguarda le cause finale e formale, ma anche per quanto riguarda la causa efficiente: non c’è qualcosa prima che fa (sì) che qualcosa dopo accada, ma tutto è già ab aeterno predeterminato in un sistema a quattro  assi cartesiani (che potranno anche moltiplicarsi p.e. nelle contemporanee “teorie delle stringhe”), all’interno dei quali trovano la loro collocazione (in termini di coordinate spaziotemporali) i punti-evento che costituiscono l’universo.

  • Ma il termine “causa” continua a ricorrere presso gli autori moderni…

Vero, ma alla fine esso, dopo la radicale critica a cui tale concetto viene sottoposto da parte di David Hume, con Ernst Mach e Ernst Cassirer, dovrà cedere il campo alle più precise nozioni di “legge” e “funzione”. L’obiettivo, infatti, fin dall’inizio è quello di una radicale matematizzazione della fisica.

  • Perché tale matematizzazione dovrebbe implicare l’abolizione della nozione di causa?

Partiamo da una considerazione.

Nella prospettiva dei classici (soprattutto, ma non solo, per i [neo]platonici), gli effetti devono sempre assomigliare alle loro cause, essere simili ad esse.

Cfr. Proclo. Elementi di teologia, XXVIII-XXIX:

Ogni ente produttivo crea gli effetti simili a se esso, prima che i dissimili. [...] È necessario che il causato partecipi della causa, poiché di lì trae
la sua essenza. [...] Ogni progressione si effettua mediante una similitudine delle nature secondarie con le primarie ecc.

Cfr. anche Proclo, Teologia platonica, VI, 4, 22,25-23,9

È per il tramite della somiglianza che tutte le cose si uniscono le une alle altre e si comunicano reciprocamente le potenze di cui dispongono e che gli esseri superiori fanno risplendere con generosità il loro dono su quelli inferiori, e gli effetti, dal canto loro, sono saldamente stabiliti nelle loro cause, e inoltre che si contempla nel cosmo un intreccio [symploké, oggi si direbbe: entanglement, in senso quantistico] indissolubile, una connessione universale tra tutti gli esseri e un legame tra gli esseri attivi e quelli passivi. E infatti per mezzo della somiglianza sono venuti a sussistere negli effetti i principi causali che li hanno generati e, nella forma del comprendere in sé, sono venuti a sussistere nei principi causali i prodotti generati che procedono a partire da questi principi causali; e così tutte le cose sono presenti le une nelle altre; e a riunire fra loro tutte le cose è la somiglianza.
  • Perché mai le cause dovrebbero assomigliare ai loro effetti?  Forse questo vale per i neoplatonici, ma non per Aristotele e per la sua celebre dottrina delle quattro cause. Nel caso di una casa mi sembra che, ad esempio, la causa efficiente (l’architetto) sia del tutto diverso dalla cosa prodotta, la casa! Anche la materia (causa materiale) di cui è fatta la casa (i mattoni) è diversa da essa e perfino il fine (causa finale) per cui essa viene edificata può essere dei più diversi, ad esempio per venire, invece che – poniamo – abitata, affittata a terzi.

Così potrebbe sembrare. Tuttavia, se si approfondisce la natura di tali cause sugli stessi testi aristotelici, esse  si rivelano assai più simili l’una all’altra, così come al loro effetto, di quel che non sembri in prima istanza.

Aristotele, infatti, chiarisce:

Ogni sostanza [ousìa] si genera da un'altra che porta lo stesso nome [dunque le è simile]. E questo vale sia per le sostanze naturali, sia per le altre. Le sostanze, infatti, si generano o per arte o per natura [...]. L'arte è principio di generazione estrinseco alla cosa generata, la natura è, invece, principio di generazione intrinseco alla cosa generata (l'uomo, infatti, genera l'uomo) etc. [ma - sembra suggerire Aristotele - in entrambi i casi resta vero che "ogni sostanza si genera da un'altra che porta lo stesso nome"].
[Aristotele, Metafisica, XII, 3, 1070a4-8]

Dunque tanto le cause che intervengono in natura, cioè nella generazione in senso proprio (quella che tocca ai viventi), quanto le cause che intervengono nell’arte, cioè nella produzione (pòiesis, come altrove la chiama Aristotele, p.e.  di una statua ecc.), proprio come per Proclo, devono essere simili a (portare lo stesso nome di) ciò che è generato o prodotto.

Se l’esempio dell’uomo che genera l’uomo  è eloquente per quanto riguarda la generazione “in natura” (in cui il “padre” è causa insieme formaleefficiente e finale del “figlio”, in quanto entrambi sono similmente uomini, condividono la stessa “essenza”), può sorgere qualche dubbio nel caso della generazione artificiale o produzione, in particolare per quanto riguarda la causa efficiente o, come anche Aristotele la denomina, motrice. Come tu supponevi, infatti, si potrebbe ritenere che p.e. causa (efficiente o motrice) di una casa sia l’architetto (che assomiglia ben poco alla casa). Ma Aristotele, proprio nel caso p.e. della casa, dichiara che la sua causa motrice è non l’architetto o il muratore, come si potrebbe pensare, bensì l’arte edile (oikodomiké, lett. “casale”), cfr. Metafisica, XII, 4, 1070b29, giungendo addirittura ad affermare:

La forma della cosa è, in un certo senso, la stessa arte edile [come] è l'uomo che genera l'uomo.
[Aristotele, Metafisica, XII, 4, 1070b33-34]
  • Ma che significa?

Può significare una cosa sola. L’arte “edile” è tale perché chi ne è “titolare”, l’architetto, sa che cosa è una casa, ne ha in mente il disegno o progetto, il quale non è altro, in ultima analisi, che la forma della casa nella sua mente (il “concetto”, diremmo noi, l’ènnoia, simile o identico all’ “idea” eterna o êidos della cosa di cui è concetto). Ecco, dunque, come anche in Aristotele la causa motrice o efficiente risulti, in ultima analisi, simile o identica alla causa formale e, dunque, in definitiva, alla cosa di cui è causa, al suo effetto.

In generale si può facilmente mostrare come anche la celebre dottrina aristotelica delle quattro cause muova dal presupposto di una similitudine tra causa ed effetto.

  1. Innanzitutto, converrai che una casa è simile alla sua causa formale, ossia all’idea (pre-esistente allo stesso architetto) a cui attinge l’architetto prima di dare forma alla sua opera… In effetti, non hai potuto evocare questo tipo di causa tra quelle che non sarebbero simili al loro effetto…
  2. Certo, come hai sostenuto, la causa finale della determinata casa (la ragione per cui la casa viene costruita, p.e. per essere affittata) sembra assai diversa dalla casa stessa. Ma, se consideriamo la causa finale non in senso accidentale, bensì fondamentale, ossia il fine proprio di tutte le case in quanto tali, in quanto case (o, come anche si dice, “abitazioni”), esso non può che esprimere un aspetto essenziale della causa formale, una funzione propria di tutte le case in quanto tali (ossia quella di venire abitate, di proteggere i propri abitanti dalle intemperie ecc.), che rende ragione della loro forma; insomma la ragione, qualunque essa sia, per cui, in generaleesistono case, ragione senza di cui non esisterebbero né case, né la stessa “idea” di casa.
  3. Infine, la causa efficiente della casa sembra, a sua volta, molto diversa dalla casa stessa, se consideriamo, come hai fatto tu, che tale sia l’architetto (un uomo), l’agente. Ma più propriamente causa efficiente è il “disegno” o il “progetto” che l’architetto ha in mente della casa che costruisce – o fa costruire – (mentre l’architetto stesso non è che lo strumento mediante il quale la casa viene costruita); disegno o progetto che è, a sua volta, immagine dell’idea “eterna” di “casa”. Tale progetto, come l’idea, è senz’altro simile alla casa (se non fosse tale, non se ne potrebbe ricavare alcuna casa).
  4. La causa materiale (p.e. i mattoni) sembra, anch’essa, del tutto diversa dalla casa che ne viene ricavata. Tuttavia, non ogni forma può essere estratta da ogni materia. Una casa non può essere fatta p.e. d’aria o di fuoco. In questo senso anche la materia (in quanto materia seconda, dotata a propria volta di una specifica forma, p.e. cotto, marmo, legno ecc.), di cui è fatta una cosa, ha qualcosa di simile alla cosa di cui la cosa è fatta, p.e. la solidità, l’impermeabilità ecc. Non a caso in Aristotele la materia è potenza della forma che se ne ricava, così come presso i platonici si sostiene che la materia debba contenere la traccia o l’orma o il seme della forme che se ne possono trarre.

In senso classico (aristotelico, neoplatonico ecc.), dunque, non si dà causa che non sia simile all’effetto.

  • Già, ma tu dovevi convincermi che l’esistenza di “cause” è incompatibile con la matematizzazione del cosmo…

Un po’ di pazienza. Esplicitiamo quanto è implicito nell’intuizione che ogni causa è simile a proprio effetto…

Modello di ogni “causalità” è l’azione che “qualcuno” compie per conservare se stesso, la propria forma o, appunto, una forma simile alla propria, attraverso quelli che gli etologi chiamano “atti di consumo”, come bere o mangiare, oppure, in modo più fondamentale, attraverso la propria riproduzione.

La generazione del vivente, infatti, o “riproduzione”, in Aristotele come nei platonici, costituisce il modello delle altre forme di  “causazione”, in particolare della “produzione” tecnica. Nei viventi appare chiaramente la similitudine o “connaturalità” (synghèneia) delle loro quattro cause: quest’uomo è generato da un altro uomo (causa efficiente), sulla base della specie uomo (causa formale), in vista della riproduzione di altri uomini (causa finale), mediante sostanze (carne, sangue ecc.) adatte (causa materiale), le stesse di cui sono fatti tutti gli uomini. Nel caso dei viventi, insomma, è del tutto evidente che solo il simile può generare il simile

In generale, non si dà relazione causale che non implichi l’azione di un’anima: tanto nel caso della generazione, p.e. di un uomo in cui è coinvolta direttamente un’anima che si riproduce, quanto nel caso della produzione di artefatti, p.e. di una casa, in cui è comunque coinvolto necessariamente un vivente (che ha “in mente” l’idea della casa) come strumento o veicolo.

In quest’ultimo caso il “simile” è un “disegno” o “progetto” nella mente di qualcuno sulla base di una forma “eterna” (un’idea pre-esistente) che l’anima stessa, che vi attinge, in qualche modo realizza o, come diremmo oggi, implementa nella materia.

Ecco perché nella concezione classica della “causa” (aitìa, àition) non si dà mai causa senza che un vivente, ossia un’entità a cui è attribuita un’anima, un principio autonomo di movimento, orientato a un fine, agisca in ragione di tale “causa” (divenendo, perciò, anche responsabile delle proprie azioni, che gli possono venire per l’appunto imputate, all’interno di quel procedimento giudiziario che, a sua volta, prende il nome di “causa”).

In questo quadro si comprende meglio il senso delle dottrine del tardo (neo)platonismo, come la concezione procliana secondo la quale ogni entità spirituale procede da un’altra, antecedente, ad essa simile, che permane, a cui la cosa che procede si converte (ripresa nel Liber de causis discusso da Tommaso d’Aquino, ispirato a Proclo e ispirazione delle dottrine dello stesso Tommaso).

Possiamo rileggere in questa chiave la teoria di Rupert Sheldrake secondo la quale gli organismi si formerebbero e apprenderebbero (sviluppando non solo il loro fenotipo, ma anche le loro abitudini, i loro istinti) sulla base di una cosiddetta risonanza morfica, per cui il campo morfogenetico di un organismo sarebbe fatto vibrare all’unisono, anche a distanza, da quello di un altro organismo, “padre” o “paradigma”, che “trasmetterebbe” al primo, in tutto e in parte, i propri tratti. Questa risonanza morfica possiamo interpretarla, dal lato di ciò che è fatto risuonare, come un esercizio di imitazione  o mimesi, tale per cui, a volta a volta, un organismo “si converte” a un altro organismo – o al carattere di un altro organismo – che funge da modello o paradigma, lo imita o lo copia e, in questo senso, “procede” idealmente da lui, assimilandovisi per divenire ciò che è.

Se ci pensi, anche nella versione del moderno meccanicismo, chi pretende ancora di parlare di “cause”, volendo fornire spiegazioni degli eventi cosmici, senza limitarsi a una mera descrizione matematica degli stessi, a che cosa fa riferimento?

  • A che cosa?

A cause cosiddette “meccaniche”, le antiche cause efficienti e materiali.

  • Appunto, escludendo le cause finali e formali, il moderno meccanicista può escludere, dalle sue spiegazioni, alcunché di vivente. L’universo gli appare come una gigantesca macchina, spesso paragonata a un orologio cosmico, messo in movimento da ingranaggi che operano ciecamente, senza scopo alcuno, secondo regole meccaniche.

Proprio la metafora della macchina ci conduce nella giusta direzione. Non si conoscono macchine che non sia state costruite, programmate e messe in movimento da viventi, in particolare da viventi intelligenti, quali sono gli esseri umani. Quelle cause finali che sembravano escluse dai meccanismi ciechi delle “macchina” cosmica si rivelano implicate nella programmazione della medesima macchina. Ma c’è di più…

  • Che cosa?

Come evitare che le stesse cause efficienti siano ridotte ad antecedenti meramente temporali, come argomentava David Hume nella sue celebre critica alla nozione di “causa”, all’interno di sequenze di eventi completamente descritte da equazioni algebriche?

  • Come?

Per salvare non solo le cause finali ma anche quelle efficienti, in quanto cause in senso proprio, bisogna attingere alla teoria manipolativa della causalità, dunque, di nuovo, all’azione, quanto meno implicita o potenziale, di un vivente.

  • Cioè?

L’idea è questa: in tanto posso distinguere la causa di un evento da un suo mero antecedente temporale, in quanto, ricorrendo a un esperimento, posso accertare che il determinato evento non avrebbe luogo in assenza dell’ipotetica causa; insomma ricorrendo a (o anche solo immaginando) un esempio controfattuale. Questo, pero, richiede che io, essere vivente, possa agire determinando o meno l’evento in questione. L’ipotetica causa efficiente dell’evento, anche se apparentemente inanimata (p.e. fuoco che dà luogo a fumo), viene riconosciuta in quanto riconducibile all’azione di un vivente che ne sperimenta l’efficacia. Nota che in questa interpretazione la causa efficiente dipende dalla causa finale; come nell’esempio aristotelico, evocato sopra, dell’arte edile, oikodomiké, che, nella mente dell’architetto, “contiene”, in immagine, le cause efficiente, formale e finale delle case che ne sono prodotte, simili al “disegno” da cui sono state tratte.

  • D’accordo. Ammesso che la nozione classica di causa implichi l’azione di un vivente e la similitudine tra causa ed effetto, che cosa se ne ricava?

Quello che si doveva mostrare: l’incompatibilità della nozione di causa, pensata a fondo, in ogni sua declinazione (dunque anche come causa efficiente o materiale), con la moderna descrizione matematica del cosmo come proiezione multidimensionale di un'(immaginaria) equazione ipercomplessa.

  • E perché questa descrizione sarebbe incompatibile con la nozione di causa?

Perché ciò che sembra accadere nello spazio-tempo sarebbe già tutto virtualmente implicato nella menzionata equazione, senza alcun bisogno di postulare che determinati eventi scaturiscano da determinate cause, cioè siano opera di alcunché di vivente e, meno che mai, si producano sulla base di un’ipotetica similitudine tra ciò che viene prodotto e la rispettiva causa.

  • Che c’è di male in tutto questo?

Assolutamente niente. Il sogno che si realizza, come ben intuiva Galileo (quando, nel Saggiatore, scriveva che il libro dell’universo era scritto “in lingua matematica”), è proprio il sogno pitagorico e platonico di un’interpretazione del mondo naturale guidata dal “mondo delle idee” (eterne); anzi: il sogno di ridurre il sensibile all’intelligibile, immergendovelo completamente, in una prospettiva radicalmente monistica e immanentistica, precisata in età moderna da Cusano e, soprattutto, Giordano Bruno.

Tuttavia, questo tentativo , nella versione cartesiana, fallisce.

[N. B. La nozione di causa presuppone, in verità, oltre la vita, anche la coscienza, come Cartesio ben comprese: la coscienza (che, sotto un altro profilo, in quanto coscienza p.e. di Cartesio o di Einstein è condizione di possibilità di questo tentativo medesimo), oltre che, come abbiamo visto, la vita.

Infatti, mentre posso immaginare che un cane o un gatto siano solo “automi” (immagini di funzioni matematiche) che simulano una vita solo illusoriamente da loro posseduta, mi viene assai più difficile ammettere che la mia stessa coscienza sia un’illusione, come lo stesso Cartesio ha originariamente chiarito con la celebre dimostrazione: “cogito ergo sum“.

  • Perché la tua coscienza non potrebbe essere a sua volta parte dell’universo reinterpretato come un sistema di assi cartesiani?

Nel momento in cui io scrivessi l’equazione corrispondente alla “curva” ipercomplessa costituita dai punti-eventi che formano l’universo (e ne prendessi, quindi, coscienza) potrei modificarla, anzi violarne l’apparente necessità, alzando un braccio o facendo qualsiasi altra cosa non descritta dall’equazione stessa.

Più in generale, ciascuno di noi, in quanto è cosciente di quello che via via gli appare, fa esperienza di qualcosa che non può per costruzione appartenere all’ipotetica equazione-universo:

  1. la prospettiva o angolazione da cui l’universo gli appare;
  2. il tempo presente, in quanto distinto da passato e futuro;
  3. il movimento delle “cose” che gli appaiono (fenomeni);
  4. la “propria” (apparente) libertà d’azione;
  5. le proprie cogitationes (sensazioni, sentimenti, ricordi, fantasie, pensieri ecc.).]
  • Ma tutto questo che cosa implica?

Implica il fatto di salvare la prospettiva secondo la quale si dànno causalità e vita dall’oblio nella quale essa è stata gettata da quando è stata formulata l’ipotesi che l’universo sia rappresentabile come un insieme di punti-evento all’interno di un sistema di assi cartesiani.

Nota che la prospettiva secondo la quale si dànno causalità e vita è anche quella secondo la quale soltanto si dànno propriamente tempo, movimento, azione.

[Tale prospettiva si dà solo per la coscienza (che è una sola alla volta e non è se non la coscienza che l’universo, di volta in volta, ha di se stesso). È infatti solo per la coscienza che i “cammini” che percorrono gli eventi (i punti nello spaziotempo di Cartesio-Einstein, in se stessi “figure di interferenza” in una sorta di “lastra olografica” cosmica) appaiono “animati” (come i “cartoni” della televisione), tali, cioè, da presupporre l’azione di un’anima “alle loro spalle”. È in quanto rispecchiano la coscienza (ne sono simboli, come diceva Leibniz, nella Monadologia, dei composti rispetto alle semplici monadi, cfr. art. 61: “Et les composés symbolisent en cela avec les simples“) che corpi o, più in generale, i processi a cui tali “punti” spaziotemporali dànno origine (nella nostra coscienza) appaiono, entro certi limiti, coerenti e stabili nel tempo, orientati, cioè, a conservare e riprodurre la propria forma.

  • Puoi essere più chiaro?

Soggettivamente percepiamo processi, del più diverso tipo, come, ad esempio, il volo di uno stormo di rondini, il riscaldarsi di un radiatore, il crescere della nostra eccitazione sessuale, la maturazione della nostra volontà di interrompere un’azione come se tali processi scaturissero da una “spinta” in qualche modo coerente e orientata a un fine, sia che pensiamo che tale fine sia “nostro” (negli ultimi due esempi e, in particolare, nell’ultimo), sia che pensiamo che esso sia esterno a noi. Ci identifichiamo o meno con “colui che prova desiderio” o con “lo stormo di uccelli” (o con il “calciatore che sta per segnare un rigore”, identificazione, quest’ultima, reinterpretabile “fisicalisticamente” come effetto dei nostri neuroni-specchio).

Sotto questo profilo le diverse “anime” che popolano l’universo, percepite come più o meno interne o esterne a “noi”, scaturiscono dall’interazione, per così dire, della coscienza con ciò di cui la coscienza è coscienza o, per meglio dire, da quello “sfregamento” dell’universo con se stesso le cui “scintille” originano ciò che chiamiamo “coscienza”.

In questo quadro anche le “cause” che attribuiamo ai processi, in quanto sono necessariamente associate alle “anime” in gioco, scaturiscono da tale “sfregamento”, in assenza del quale, come già osservato, avremmo solo un’anonima distesa spaziotemporale senza centro e senza periferia, senza prospettiva, senza presente e senza “cuore”,

Della causalità, del resto, in quanto si tratta, in ultima analisi, sempre della “mimesi” di un’idea,  da parte di un vivente, facciamo esperienza in prima persona, cioè abbiamo coscienza, quando facciamo qualcosa.

Sappiamo molto bene, ad esempio, come imitando i volatili abbiamo progettato e costruito velilvoli, imitando i cetacei abbiamo progettato e costruito i sommergibili ecc.

Per analogia interpretiamo altri processi naturali (fenomeni che si sviluppano nel tempo, un tempo che si trova soltanto nella nostra coscienza) in termini di causa-effetto.

Ecco, dunque, come al fondo di tutto si situi la “coscienza”, senza di cui non si darebbero non solo tempo, movimento, percezione, azione desiderio ecc., ma neppure… cause (di alcun tipo).

Non a caso in Aristotele (cfr. De anima, III, 2, 425b26) il passare di qualcosa dalla potenza all’atto è sempre inestricabilmente frutto di un’evoluzione sia della cosa stessa (che p.e. da seme diviene pianta) sia della nostra percezione della cosa (in quanto disponiamo della nozione di “pianta”, che rimane, tuttavia, in potenza, sorta di “seme” nella nostra mente, finché non vediamo la pianta). Del resto una cosa è in atto (energèiâ) sempre solo qui e ora, sicché per spiegare (causalmente) perché essa “ci sia” occorre richiamarsi tanto a ciò che ha determinato l’evolvere della cosa dalla propria radice, quanto a ciò che ci consente di percepirla qui e ora.

In generale , la coscienza (o, se si vuole, questo “sfregamento” dell’universo con se stesso), radice della separazione originaria tra sfera soggettiva e sfera oggettiva, non è alcunché di accidentale, ma è essenziale all'”esistenza” stessa dell’universo (universo che non sarebbe alcunché se nessuno ne fosse cosciente e la cui ricostruzione “cartesiana”, matematizzata, è essa stessa frutto di un’operazione intellettuale di astrazione, dunque è “figlia” e non certo “madre” della coscienza).

Perciò anche le anime e le connesse cause, nonché il tempo, i moti ecc., (in una parola, l’immagine del mondo che ci è restituita dall’antica tradizione – e “fantasia” – filosofica; così come le analoghe immagini restituite da diverse tradizioni e “fantasie” religiose, p.e. quella hindu), insieme l’intero ordine psichico,  non sono alcunché di accidentale, ma sono qualcosa di altrettanto “vero” ed essenziale delle leggi della natura scoperte e messe in luce dalla scienza moderna (quello che chiamo ordine paradigmatico o dianoetico),

  • Insomma: niente soggettività (anima e coscienza): niente causalità?

Esattamente. Oggettivamente (nell’ordine dianoetico o paradigmatico) si danno solo leggi e funzioni che legano punti-eventi in spazi matematici, ma questa stessa “realtà oggettiva” non è che l’altra faccia della medaglia della “realtà soggettiva” (dell’ordine psichico), secondo la quale, con la parole del primo filosofo che Aristotele ricordi, Talete,

tutto è pieno di dèi. [cfr. Aristotele, De anima, A 5 411]]

In ultima analisi non ci sono cause efficienti senza cause finali, né cause materiali senza cause formali.

In generale le forme delle cose (a cominciare dalle galassie), che implicano caratteristiche “rotture di simmetria”, non possono essere spiegate su basi puramente meccaniche o casuali, ma richiedono cause finali e anche cause efficienti, le quali, tuttavia, possono essere riconosciute propriamente come tali (non come cause apparenti, quali sarebbero se fossero cause meccaniche) solo in quanto correlate a cause finali.

N. B. Se di tutti i possibili cammini l’evoluzione (dell’universo, della vita e dell’embrione) “sceglie” quello che implica il decremento qui o là dell’entropia, questo operare, non riducibile una semplice combinazione di caso e necessità (che potrebbe portare a qualsiasi altro risultato, essendo estremamente improbabile questo decremento di entropia), può essere interpretato come se fosse orientato a un fine, come se si trattasse di un operare intelligente (inconscio). In quanto tale azione è efficace, se da un lato il fine a cui tende può venire inteso come causa finale, dall’altro lato essa stessa, come desiderio o amore, può essere intesa come causa efficiente.

Analogamente, se per “materia” intendiamo l’infinito dei possibili (il campo di punto zero, l’Uno ecc.), possiamo interpretare come “forma” ogni fase relativamente compiuta (p.e. l’emergere di una struttura dissipativa o di un organismo vivente) della sua evoluzione, determinata da coppie di cause efficiente e finale, nella direzione dell’emergere della coscienza (cioè del compiuto passaggio all’atto). Non si dànno, dunque, cause materiali se non in rapporto a cause formali e viceversa.

[La produzione della forma non implica l’emergere della coscienza in ciò che assume quella determinata forma (un pianeta, un’ameba), che diviene, come tale, “oggetto”, ma solo nell’osservatore di tale forma.

Nondimeno le forme sono precursori della coscienza.]

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di Giorgio Giacometti