Chi era Gesù?

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La ricerca storico-critica ha ricostruito in modo abbastanza attendibile la figura storica di Gesù. Tuttavia, anche l’immagine di Gesù di Nazareth che risulta dalla ricerca storica non può rimanere indifferente al modo in cui concepiamo teologicamente (e filosoficamente) la sua figura (p.e. quella di un uomo che è anche Dio), noi stessi e l’intero universo. Vediamo perché.

Gli storici, come Bart D. Ehrman, argomentano, in generale, che, se si vuole rimanere sul terreno propriamente storiografico, si dovrebbero ammettere come attendibili solo quei fatti e quei detti, riferiti a Gesù, che risultino verosimili o probabili, come si farebbe nel caso di Romolo, Cesare o Apollonio di Tiana; escludendo a priori, dunque, i miracoli e, nel caso di Gesù, il miracolo supremo, da cui è scaturita la religione cristiana: la sua (o Sua) resurrezione.

Per la precisione, il criterio dovrebbe essere questo: se un testo può essere compreso ricorrendo a una spiegazione più verosimile e probabile, ossia più vicina al modo in cui per lo più accadono le cose di cui abbiamo esperienza, tale spiegazione va preferita ad altre meno verosimili e probabili.

Ora, ceteris paribus, i presunti miracoli compiuti da qualcuno sono, in generale, più probabilmente apparenti (trucchi illusionistici, allucinazioni, effetti placebo ecc.) che reali, soprattutto là dove non si possano effettuare rigorosi controlli per escludere che si tratti di alcunché di illusorio, come è tipicamente il caso di (pretesi) miracoli avvenuti nel passato.

Ehrman, tuttavia, come molti altri storici, forse per evitare lo scontro con teologi e religiosi, sostiene che questo criterio di discriminazione, tra ciò che è verosimile e ciò che non lo è, sia valido solo se si vogliono ricostruire “storicamente” gli eventi. Nulla quaestio, dunque, per eventuali “atti di fede” verso fenomeni “paranormali” come la resurrezione di Cristo o, più in generale, verso le interpretazioni di tipo teologico di questo genere di (presunti) eventi.

Ma delle due l’una: o l’interpretazione teologica è “irrazionale”, basata su qualcosa come un tertullianeo “credo quia absurdum“, oppure è giustificabile, ad esempio filosoficamente. Nel primo caso essa stessa dichiara la propria inverosimiglianza e improbabilità, dunque non si comprende su quali basi possa essere considerata degna di fede, degna, cioè, di quella stessa fede su cui pretende di fondarsi (o che pretende di fondare). Ma se, come è invece necessariamente il caso, la teo-logia rivendica la propria natura di scienza delle cose divine, fondata, se non su prove inoppugnabili (ma quale scienza lo è?), almeno su indizi convincenti, essa stessa deve fondare la “fede” nell’attendibilità delle proprie asserzioni su argomentazioni che ci mostrino come verosimile e probabile quanto, a una prima analisi, appare magari inverosimile e improbabile. Ora, se questo è il caso, uno storico dovrebbe poter attingere a tale “sapere” non diversamente da come attinge, nel ricostruire ambienti, scenari, eventi, a saperi “strumentali” come l’economia, la demografia, l’antropologia culturale e via discorrendo.

Dunque, in primo luogo, occorre chiedersi quale interpretazione teologica della figura di Gesù sia attendibile (non necessariamente quella corrente, apparentemente “ortodossa”), quali ne siano i fondamenti filosofici (la giustificazione) e come tale interpretazione possa essere compatibile con i documenti di cui disponiamo ed, eventualmente, con le ipotesi più plausibili avanzate dalla stessa ricerca storica (forse solo apparentemente in contraddizione con tale interpretazione).

Se, ad esempio, accettassimo, (neo)platonicamente, che tutto fosse uno e che, quindi, ciascuno di noi, in un certo senso, fosse Dio, magari dimentico della propria essenza, non avremmo difficoltà a riconoscere in Gesù stesso Dio, magari – ecco l’ipotesi che sembra smentita dalla ricerca storica – un Dio consapevole (o progressivamente consapevole?) di essere tale.

La ricerca storica, invece, sembra suggerire che Gesù “si limitasse” a pensarsi, non già come Dio o come Figlio unigenito di Dio, bensì come un “semplice” profeta, annunziante l’imminente avvento del regno di Dio, anche se di un Dio vissuto affettuosamente come “Padre”, come Qualcuno di molto prossimo a lui stesso (ma non solo a lui, bensì anche a  tutti coloro che, fidando in Gesù, si fossero pentiti per tempo); forse Gesù concepiva se stesso anche come il futuro re d’Israele, in questo senso “Unto” dal Signore o, in ebraico, “messiah” o, in greco, “Christòs (coadiuvato, nel suo futuro regnare, dai suoi Dodici, uno per ciascuna tribù di Israele).

Eppure già da queste premesse si potrebbe evidenziare che il “salto” tra l’autocomprensione che Gesù dovette avere del proprio ruolo e la successiva attribuzione a lui di una natura “divina” non è poi così grande, come Sanders, Ehrman e altri storici moderni sembrano credere.

Un punto che gli stessi studiosi, che hanno ricostruito la pretesa “autocoscienza” di Gesù, non hanno forse abbastanza evidenziato, ma che scaturisce dalle loro stesse indagini, è che Gesù doveva concepirsi anche come il futuro re del mondo, dal momento che il “regno di Dio” che Gesù annunciava aveva carattere apocalittico e universale (avrebbe raccolto, come nelle profezie di Isaia, tutte le “nazioni”).

Inoltre il “regno di Dio” che Gesù annunziava sarebbe stato “retto” non direttamente da Dio, ma da lui, da Gesù stesso, il Messia: un regno di Dio che sarebbe stato, dunque, di fatto, il regno di Gesù (per conto di Dio). Se lo consideriamo “regno di x“, possiamo sostituire a quella x tanto Dio quanto Gesù, a riprova di una sorta di implicita “unità” del Padre e del Figlio fin dalla predicazione messianico-apocalittica di Gesù, così come è storicamente ricostruibile.

Anche la tesi, cara p.e. a Ehrman, che Gesù distinguesse da se stesso il “figlio dell’uomo”, figura “semidivina”, destinato ad arrivare “tra le nubi” contestualmente all’avvento del regno di Dio, appare problematica: una volta instaurato, il “regno”, in questa ricostruzione, sarebbe stato “governato”  da almeno tre figure distinte: Gesù, il “figlio dell’uomo” e Dio… forse un po’ troppe per un solo regno!

Ma esaminiamo meglio, da un’altra prospettiva, questo “regno di Dio”, così come annunciato da Gesù nella ricostruzione degli storici. Ehrman insiste molto, ad esempio, sul fatto che vi si sarebbe registrato un completo rovesciamento (reversal) dei ruoli, compendiato dalla celebre sentenza: “Gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi”. Ma non solo: sarebbe stata sconfitta la morte, oltre che, più in generale, il male e il peccato (ecco perché la successiva credenza nella resurrezione di Gesù avrebbe fatto credere ai suoi seguaci che il regno avesse avuto inizio).

Di che regno si tratta? Gli storici insistono: anche se in Matteo ricorre la denominazione “regno dei cieli” (e nel Padre nostro si invoca  che la volontà di Dio “sia fatta come in cielo così in terra”), il regno di Dio non avrebbe avuto alcunché da spartire con il “Paradiso”, con un regno interiore, il regno della nostra salvezza individuale (come appare già p.e. nel Vangelo di Giovanni), ma sarebbe stato alcunché di “storico”, anzi di “materiale”, di molto concreto, anche se “futuro” (ma di un futuro molto prossimo, alcunché di imminente, talmente imminente che proprio il suo mancato avvento avrebbe costretto i primi “cristiani” a una profonda ristrutturazione delle loro credenze, per sopravvivere come gruppo religioso). Un regno concreto? Sì, ma anche davvero molto strano: una “terra senza il male”, per evocare il titolo di un libro di Umberto Galimberti, senza morte, senza peccato ecc. Qualcosa di molto diverso da ciò che consideriamo “storico”, talmente diverso che sarebbe senz’altro considerato, dai nostri storici, assunti i criteri sopra evocati, altamente “improbabile” e “inverosimile”! Un simile “regno” sembra davvero poco più di una metafora del mondo spirituale, il platonico “mondo delle idee”, disincarnato, in cui si suppone che Dio viva e che ciascuno di noi potrebbe conseguire post mortem, libero dai lacci della corporeità.

Certo, forse tale metafora non era compresa fino in fondo come tale neppure da chi la proclamava, come Gesù di Nazareth. Questo potrebbe essere il “nucleo di verità” della ricostruzione che gli storici hanno fatto dalla sua autocomprensione. Da “ebreo” Gesù, che non era platonico o pitagorico, forse si rappresentava il divino a tinte “storiche”, non distinguendo precisamente la sfera spirituale da quella corporea. Forse immaginava un enorme cataclisma (come quelli delineati nel libro dell‘Apocalisse) che avrebbe portato, prima dell’avvento del regno (cioè dei “nuovi cieli” e delle “nuove terre”), a una distruzione del mondo così come lo conosciamo (non dichiara forse, in un celebre passo, che perfino le stelle sarebbero cadute, cfr. Mt 24, 29?). Ma proprio in questa luce come rappresentarsi il “regno di Dio” dopo tanta distruzione materiale? Se le stelle cadono, se l’universo materiale si annienta, non si tratterà di un regno, in ultima analisi, puramente spirituale? Chi potrebbe sopravvivere a tanta distruzione se non un’anima disincarnata? E chi potrebbe regnare su un simile regno se non Dio stesso? Non saremo forse, come dichiara Paolo (che per un certo tratto, almeno, dichiaratamente si fa portavoce di un “credo” apocalittico) compenetrati da un Dio “tutto in tutto”, divinizzati (resi immortali) e retti da un Cristo ancora più penetrato nei misteri di un Padre, per il fatto stesso di “sedere alla sua destra” e di condividere con Lui il regno?

Infine, gli storici ammettono che Gesù volesse realizzare con il suo gruppo di discepoli una prefigurazione del regno: tra i discepoli doveva vigere amore fraterno, i beni avrebbero dovuto essere dati ai poveri ecc. Ma come sopravvivere, in un mondo in cui predomina il male (l’avidità, il denaro, l’interesse), in questa anticipazione del regno, se non contando, per così dire, sulle proprie risorse spirituali? Forse l’etica di Gesù non è fine a se stessa, ma è davvero orientata all’avvento del regno, come argomentano gli storici. Ma questo che cosa significa, in ultima analisi? Che ciascuno deve “fare regno” in se stesso, per così dire, attingere alla propria dimensione “immortale” o (evocando una nozione troppo greca per essere pronunciata dal Gesù storico, ma forse nelle sue stesse corde) alla propria anima.

Insomma i discepoli di Gesù, non diversamente dai discepoli dei grandi filosofi greci, così come quelli dei maestri ebrei (esseni, terapeuti, farisei ecc.), per essere all’altezza delle elevatissime richieste del loro maestro, dovevano necessariamente praticare un’ascesi che faceva probabilmente vedere loro le stesse cose con occhi nuovi (“cieli nuovi e terre nuove”). Per esercitare una simile “maieutica” Gesù doveva essere un maestro con bel altri “carismi” (spirituali) che quello di semplice profeta di un futuro regno di Dio.

Ma, poi, siamo così sicuri che Gesù, in quanto ebreo, non distinguesse carne e spirito, corpo e anima? Non dimentichiamo  che Gesù era contemporaneo di Filone d’Alessandria, il celebre filosofo e teologo ebreo, interprete “platonico” della Bibbia (a lui dobbiamo l’interpretazione della Sapienza divina come Lògos, dunque la lontana ispirazione del Prologo del Vangelo di Giovanni), così come probabilmente, forse tramite Giovanni Battista, Gesù conosceva gli esseni.  Se nella tradizione platonica la distinzione tra anima e corpo, mondo intelligibile e mondo sensibile è nettissima, non meno netta è l’opposizione di “luce” e “tenebre” presso gli esseni o, il che è lo stesso, tra “verità” e “menzogna” (opposizione che ricorda certe antitesi ancora del Vangelo di Giovanni, come quella tra una “resurrezione di vita” e una “resurrezione di condanna”).

La fonte prima di tale opposizione è verosimilmente nel dualismo iranico dello zoroastrismo, religione che per la prima volta, forse, nella storia umana, distingue nettamente una sfera spirituale e una sfera materiale, un regno del bene e un regno del male, un principio del bene e un principio del male (con le corrispettive angelologie e demonologie), in lotta tra loro, lotta destinata a concludersi con la finale apocastatasi a favore del bene: evidente prefigurazione delle analoghe dottrine non solo apocalittiche, ma anche angelologiche e demonologiche ebraiche, della stessa rinnovata teologia ebraica dopo la liberazione degli Ebrei ad opera dei Persiani dalla cattività babilonese, con la fondazione del tempio (libri di Neemia ed Esdra) e l’elevazione di Jahvè, Dio degli eserciti, un dio fondamentalmente etnico, a “Dio del cielo” (sulla falsariga di Ahura Mazdah).

N.B. Allo stretto rapporto tra cristianesimo e zoroastrismo (originario? risalente a Gesù? ricostruito dai primi cristiani?) allude l’episodio, in se stesso certamente leggendario, della visita dei magi. Come è stato osservato, p.e. da Franco Cardini, difficilmente “Matteo”, cioè l’autore del Vangelo che riporta il celebre episodio, era al corrente del fatto che nell’Avesta, il libro sacro persiano, si preannunciasse l’avvento di un salvatore (saoshyans) nato da una vergine (dal seme di Zarathustra)…

Ma, ecco il punto, lo stesso Ehrman sottolinea il  dualismo caratteristico delle sette apocalittiche ebraiche, come quella degli stessi esseni, di Giovanni Battista e, infine,  di Gesù. Come espungere, allora, dalla contrapposizione tra bene e male, tra Dio e Satana, certamente predicata da Gesù, secondo gli storici, la contrapposizione tra “luce” e “tenebre”, spirito e materia? Siamo così certi che Gesù non comprendesse la natura eminentemente spirituale del suo regno? Forse si esprimeva in modo “grossolano” per farsi intendere dai suoi ascoltatori, che non “masticavano” cultura greca e/o iranica, ma il suo messaggio avrebbe potuto davvero avere un contenuto “esoterico”…

Numerosi, del resto, sono i passi dei Vangeli in cui Gesù distingue tra il modo che ha di esprimere certe verità rivolgendosi al popolo, tipicamente: in “parabole” o in “gesti” eloquenti (miracoli intesi come “segni” ecc.), dal modo in cui rivela le cose ai “suoi”. Si tratta di un’invenzione posteriore per accreditare dottrine che non erano originarie di Gesù o dell’eco di una reale distinzione tra dottrine essoteriche e dottrine esoteriche all’interno dell’originario messaggio gesuano?

Sotto questo profilo bisognerebbe chiedersi, davvero, quanto siano “risalenti” certi testi gnostici, come il Vangelo di Tommaso, che riprende certamente detti di Gesù autentici o molto simili a quelli originari, interpretandoli, tuttavia, spesso in modo fortemente “spiritualizzato”, mistico. Sembra, inoltre, che una gnosi “ebraica” sussistesse durante e prima dello stesso ministero di Gesù (quel genere di mistica che, successivamente, tramite il Sefer Jezirah e, quindi, lo Zohar, avrebbe dato origine alla qabbalah). Possiamo davvero escludere che Gesù fosse partecipe di questa diffusa cultura “gnostica”? Che la gnosi cristiana sia sorta solo successivamente, tardivamente, per influenza della filosofia greca?

In ultima analisi, sotto il profilo filosofico, non è decisivo che Gesù, il Gesù storico, fosse completamente, soggettivamente consapevole dalla potenziale portata del proprio messaggio: esso sembra comunque contenere implicitamente, come alcuni teologi hanno rilevato, gli sviluppi successivi fino al dogma niceno, come il granello di senape della celebre parabola contiene già, in nuce, in potenza, l’albero che diverrà.

Si è osservato, infine, che è con la resurrezione, creduta, supposta, di Gesù che il messaggio originario del Cristo è stato trasfigurato: si sarebbe passati dalla religione (apocalittica) di Gesù  (profeta del regno imminente) a una religione su Gesù (redentore dei peccati del mondo), come è stato detto. Ma proprio coloro che (come le contraddizioni tra i racconti dei Vangeli suggeriscono di fare) dubitano che la resurrezione sia da intendere alla lettera, che si tratti davvero di prendere sul serio la storia della “tomba vuota” e di quel che ne consegue, devono poi domandarsi come l’ipotesi stessa della resurrezione (o, se si vuole, la sua “allucinazione”) si sia potuta produrre.

Di nuovo: Ehrman riconosce che tale “ipotesi” è in perfetta continuità con l’apocalittica gesuana: Gesù non sarebbe che il primo dei risorti all’avvento del regno.

Ma di nuovo: se ammettiamo che il messaggio originario sia più “spirituale” di quello che sembra, anche la resurrezione sarà tale, da intendersi in senso spirituale piuttosto che letterale. Gesù, del resto, appare in visione a molti in luoghi diversi e contraddittori, con un corpo che non è un corpo (un corpo di luce, un corpo spirituale, come dirà Paolo), in uno spazio “immaginale” in cui la stessa distinzione tra “realtà” e “allucinazione” perde qualsiasi significato.

N.B. Questi rilievi non tolgono alcunché al mistero insondabile della sindone di Torino. Nell’ipotesi, tutt’altro che peregrina, che si tratti effettivamente del doppio lenzuolo che avvolse Gesù e che il disegno del suo corpo impressovi sia il frutto di un evento incomprensibile, rimangono intatte le contraddizioni del Vangeli sui luoghi, i tempi e i modi in cui il Risorto apparve. Tali contraddizioni si possono comporre solo ammettendo che il corpo di Gesù (nell’ipotesi che la sindone sia “vera”) si sia dissolto (in un lampo di luce?), lasciando, appunto, la propria traccia “fotografica” sul telo sindonico, e che ciò che apparve ora a Maddalena, ora ai Dodici, ora a Gerusalemme, ora a Emmaus, ora in Galilea, ora a Paolo, ora nel cielo dell’Ascensione, sia un corpo “glorioso” riconosciuto da testimoni in una sfera “immaginale” o “spirituale”, al di qua della distinzione tra realtà e sogno.

Forse, in ultima analisi, la “resurrezione di Gesù” non è che l’illuminazione dei suoi discepoli, che, finalmente, comprendono a fondo a che cosa Gesù intendeva alludere con la profezia  dell’avvento del regno di Dio: un regno che non è di questo mondo, né mai lo sarà, ma che inizia fin d’ora (di volta in volta: per questa generazione) per chi “vi mette piede” fin d’ora, per chi è capace di “trasfigurarsi”, di “metamorfosarsi”, di riconoscersi tutt’uno col Principio, come, forse, sul Tabor o altrove, fece Gesù stesso…

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di Giorgio Giacometti