La coscienza è contingente e indeterminata

indeterminazione

  • Nel tuo modello, che mutui dal David Bohm, è tutto simultaneamente già dato nell’ordine implicato. Ciò sembra suggerire un rigoroso determinismo nello svolgersi degli eventi.

Il modo in cui tutto è simultaneamente dato nell’ordine implicato, contrariamente a quello che si potrebbe credere, non comporta affatto che nell’ordine esplicato viga una forma di determinismo, se per determinismo intendiamo la proprietà di un sistema tale che ogni sua parte sia derivabile logicamente da altre.

  • Come è possibile, se “tutto è già scritto”, se tutto è già “detto”, se tutto è fatum?

Supponi di contemplare un cubo da una certa distanza con un certo angolo visuale. Tutte le proprietà del cubo sono determinate e immutabili. Non c’è nulla che tu possa fare per modificarle. Tuttavia, se cambia la tua prospettiva lo puoi contemplare in infiniti modi diversi. Nessuna delle proprietà del cubo vincola il tuo spostamento. Si potrebbe dire: puoi costruire il cubo geometricamente in infiniti modi diversi, a condizione che rispetti alcune invarianti topologiche .

  • Ma non sono parte io stesso del “cubo”? In ultima analisi anche il mio corpo, attraverso cui agisco, appartiene all’universo…

Si, certamente: il tuo corpo e quello degli altri che immagini dotati di coscienza appartengono al tutto di cui sei cosciente. Il limite dell’immagine del cubo guardato in diverse prospettive è proprio questo: anche l’occhio che lo guarda in un certo modo ne è parte.

  • E come (letteralmente) se ne esce? Non si riproduce a quest’altezza una forma di determinismo?

Da un lato è proprio così, le cose non potrebbero essere diverse da quello che sono, tutto è “scritto” come intreccio di figure di interferenza nella nostra immaginaria “lastra olografica”, di cui l’universo percepito è la proiezione, l’ologramma.

Dall’altro lato, tuttavia, la coscienza, pur essendo necessaria, in quanto tale (ciò che esiste non può non apparire a se stesso in qualche modo), non può essere determinata (causata) da qualcosa, e precisamente non può essere determinato il modo in cui, di volta in volta, l’universo si manifesta a se stesso,

  • E per quali ragioni?
  1. perché ciò che è esiste, in assenza (o “prima”) della coscienza, sarebbe soltanto possibile, ma la coscienza, in quanto reale, anzi necessaria, non può essere determinata da qualcosa di soltanto possibile;
  2. perché la coscienza, facendo dell’universo oggetto di se stesso, non può essere derivata in modo coerente dal tutto che percepisce, ma di cui è anche parte (antinomie dell’autoreferenzialità).

Esaminiamo meglio questo secondo caso.

A.  Se l’universo fosse cosciente di tutto ciò che è simultaneamente (l’ordine esplicato coincidesse con l’ordine implicato) tale coscienza sarebbe incoerente, poiché conterrebbe almeno l’antinomia consistente nel dover essere coscienza di tutto bensì, ma di non poterlo essere, non potendo essere coscienza del proprio medesimo atto (o, come altrimenti si potrebbe intendere: dovendo l’universo scindersi in attività percipiente e in cosa percepita, restando tuttavia uno e dovendo percepire, dunque, contraddittoriamente, come oggetto anche il proprio stesso soggettivo percepirsi).

B.  Supponi di riuscire a scrivere l’equazione H (molto complessa) che descrive il comportamento di tutte le particelle dell’universo in ogni istante (il cui co-dominio o la cui immagine è rappresentata dalla “curva” estremamente complessa disegnata in un sistema a più assi che descrive tale comportamento).

Chiamiamola “equazione universo”.

Ora, tra queste particelle (il cui comportamento è dettagliatamente descritto dall’equazione) non ci sono anche quelle che formano il tuo corpo? In qualsiasi istante puoi compiere un gesto, p.e. alzare un braccio, che viola quanto quell’equazione prevedeva

  • Questo esperimento immaginario che cosa ci suggerisce?

Si direbbe: non si può scrivere un’equazione del genere. Ma in realtà la difficoltà puramente tecnica a scriverla non deve fare velo a un’impossibilità logica.

Se l’evoluzione di tutto ciò che accade fosse descrivibile come immagine di una funzione, per quanto enormemente complicata (tecnicamente: una “hamiltoniana”, funzione delle coordinate generalizzate e dei momenti coniugati di tutte le particelle dell’universo), questa dovrebbe poter essere scritta: ma nel momento in cui se ne prendesse coscienza, se ne facesse un oggetto, la si potrebbe anche sempre violare, a riprova dell’irriducibilità della coscienza a funzioni (in senso matematico) di cui essa stessa possa prendere… coscienza (mise en abime: dovrei poter scrivere un’altra funzione che rappresenti la mia presa di coscienza della prima, ma, se ne prendessi coscienza, dovrei poi poter scrivere un’altra funzione ancora ecc.).

Se un universo (sorta di gigantesco nastro di Moebius) è fatto in modo tale che un pezzo di se stesso (tu) può tentare di descriverlo (o di descriversi), questo universo cade nell’indeterminazione. Nessuna parte di qualcosa può oggettivare il tutto di cui è parte, senza residui.

Il rapporto tra l’universo e la coscienza che esso ha di se stesso è indecidibile.

C. A tali conclusioni si può giungere anche evocando il celebre doppio teorema di Goedel. Il doppio teorema afferma che è sempre possibile costruire proposizioni scritte nel linguaggio di un sistema assiomatico indecidibili all’interno dello stesso sistema, come la proposizione G “io sono non sono dimostrabile” o “G non è dimostrabile” o “questa proposizione non è dimostrabile”.

Il gesto che possiamo compiere in violazione dell’immaginaria equazione universo assomiglia alla proposizione G.

Per un verso si tratta di un movimento che dovrebbe essere deducibile “matematicamente” dall’equazione stessa, che – ricordo – ha per co-dominio o immagine l’insieme dei punti-eventi che costituiscono tutte le particelle dell’universo. Il movimento è dunque “derivabile logicamente” dal sistema rappresentato dall’universo e dalle sue leggi.

Per altro verso si tratta di un’azione (non di un movimento) spontanea, irriducibile all’equazione “nel cui linguaggio è scritta” (perché è associata, in ultima analisi, a una certa quantità di energia cinetica), proprio perché “chi” la compie (in ultima analisi l’universo stesso in una certa prospettiva), avendo l’equazione ipoteticamente come un oggetto, la trascende, ne è al di fuori.

Ma non è neppure necessario evocare un gesto deliberato.

Se esprimiamo ciò di cui la coscienza è coscienza con una proposizione (ad es. “vedo rosso”), questa deve essere vera, perché una percezione in quanto tale non può mai essere falsa. Ora, affinché il sistema assiomatico a cui si può supporre di poter ridurre l’insieme delle altre proposizioni che esprimono tutti gli altri stati percepibili dell’universo osservabile possa restare coerente, (cioè affinché si possa pensare di dedurre tutte queste proposizioni da un numero finito di assiomi, come in un’ipotetica “teoria del tutto”), la proposizione che esprime ciò che ora percepisco deve essere indecidibile, cioè non deve essere deducibile dal sistema.

Un’implicazione dei teoremi di Goedel, infatti, è che perché un sistema assiomatico sia coerente, occorre che non sia completo e che, in particolare, vi sia almeno una proposizione vera non deducibile dal sistema: questa, nel nostro caso, può essere solo “vedo rosso”, dal momento che tutte le altre, per ipotesi, sono deducibili da un numero finito di assiomi e tra loro coerenti.

Anche da questo punto di vista, dunque, il rapporto tra l’universo e la coscienza che esso ha di se stesso, espresso da una tale proposizione, è indecidibile.

D. A conclusioni identiche possiamo pervenire evocando l’altrettanto celebre antinomia di Russell.

Se l’universo fosse un insieme, sarebbe un insieme che, in quanto cosciente di sé, contiene (come oggetto) se stesso.

In quanto contiene “me” e “te”, ad esempio, è un insieme che contiene se stesso, perché tu e io, come ogni altro organismo cosciente, non siamo che l’universo stesso in una determinata prospettiva.

Ora, un sistema logico che ammette insiemi che contengono se stessi incorre nell’antinomia di Russell.

Infatti, un sistema logico che ammette insiemi che contengono se stessi, ammette, tra questi, anche il “celebre” insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi: anche tale insieme, infatti, deve contenere se stesso, perché, se fosse un insieme che, viceversa, non contenesse se stesso, essendo appunto l’insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi, dovrebbe contraddittoriamente contenere se stesso. Tuttavia, anche se, per ipotesi, consideriamo tale insieme come tale da contenere se stesso, per “dribblare” la precedente antinomia, vi ricadiamo: se contiene se stesso, infatti, non può più essere l’insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi.

Ma un sistema logico che può cadere anche in una sola antinomia è incoerente, dunque è tale che all’interno di esso non si può derivare (determinare) coerentemente alcunché.

Affinché vi si possano effettuare inferenze coerenti, bisogna dunque vietare espressamente (come fece Bertrand Russell con la sua “teoria dei tipi”) ogni forma di auto-referenzialità, dunque che un insieme possa contenere se stesso e, più in generale, che una cosa possa riferirsi a se stessa. L’universo, dunque, non può riferirsi a se stesso attraverso la coscienza che ha di sé, se deve restare coerente.

Ma questo auto-riferimento è proprio quello che contraddistingue questo universo! L’universo si riferisce a se stesso (altrimenti non potremmo neppure indicarlo come “questo”). L’universo ha coscienza di se stesso. La coscienza è vera (ne facciamo esperienza), ma spezza, per così dire, la coerenza del tutto (dell’universo) di cui è coscienza.

In generale, si direbbe che quando un sistema ha per oggetto se stesso, si riferisce a se stesso, il sistema diventa instabile, indecidibile in tutte le sue implicazioni, indeterminabile.

Ma l’universo, essendo presente a se stesso, in una determinata prospettiva, attraverso la coscienza, è appunto un sistema che ha per oggetto se stesso, che si riferisce a se stesso. Dunque esso risulta indeterminato.

Se ci rifletti, la mia congettura (circa il fatto che l’universo, nel tentare di descriversi, si “indetermina”) ricorda il paradosso del nonno.

  • Ossia?

Immagina di salire sulla macchina del tempo: attraverso un wormhole spaziotemporale giungi al momento in cui tuo nonno stava per coniugarsi con tua nonna, lo uccidi e, così, cessi simultaneamente di esistere. Il che determina il paradosso: se non sei mai esistito, come avresti potuto uccidere il nonno? ma, se l’hai potuto uccidere, perché non dovresti esistere ora? e, se esisti, perché non potresti, di nuovo, ucciderlo? e così via.
Oppure bisogna supporre che nasca un universo parallelo, in cui tu non esisti più perché tuo nonno fu ucciso da te, accanto all’universo in cui tu esisti ancora e il nonno, in realtà, non è stato mai ucciso.

Ora,  l’istante presente, determinato da quello sfregamento dell’universo con se stesso che chiamiamo coscienza (e che richiede quel grumo di cellule che rende possibile tale sfregamento), è una specie di piccolo wormhole. Tu uccidi continuamente te stesso, cioè tue possibilità d’azione: vai a destra invece che a sinistra. Agisci sul tuo passato (il tuo corpo) per creare un tuo futuro che non c’è nessuna macchina che potrebbe calcolare e prevedere prima che si verifichi.

La coscienza agisce sul tuo corpo come tu, nel viaggio immaginario, potresti agire su tuo nonno. Cambia le carte in tavola in modo imprevedibile. Ma non perché “sotto” la coscienza ci sia una volontà razionale, responsabile ecc. No, il fatto stesso di aprire gli occhi al mondo, di osservarlo, ti precipita nell’abisso della libertà e dell’indeterminazione.
La coscienza (che l’universo ha di se stesso), dunque, pur essendo necessaria, deve dunque apparire a se stessa come qualcosa di contingente (indeducibile).

E. Alle stesse conclusioni si può giungere riflettendo sul problema dell’origine del presente, dal momento che il presente è il tempo della coscienza.

Come ha osservato una volta il fisico David Bohm, il vero problema su cui si infrange la fisica contemporanea, tanto nella versione della relatività di Einstein, quanto in quella della meccanica quantistica, è l’origine del presente.

Dice Bohm (in un fondamentale dialogo con Rupert Shedrake):

Stranamente, la fisica al momento non ha alcun contatto con la nozione di attualità. [...] Nella fisica quantistica, non c'è nessuna concezione di una qualsiasi attualità, visto che la fisica quantistica sostiene che le sue equazioni non descrivono niente di attuale, esse descrivono semplicemente la probabilità di ciò che un osservatore potrebbe vedere se possedesse uno strumento di un certo tipo, e quest'ultimo è pertanto supposto essere necessario per l'attualità del fenomeno ecc.

Le equazioni, elaborate dalla fisica dei quanti (ma questo vale anche per la relatività di Einstein), che consentono di interpretare i fenomeni osservabili, non permettono, in ultima analisi, di “distinguere” il presente in cui l’osservazione stessa si svolge dalle altre “estasi” (Heidegger) o “distensioni” (Agostino) temporali.

Per la precisione: il presente figura come un presupposto a partire dal quale le equazioni possono essere scritte (poiché per scriverle è necessario prendere le mosse da osservazioni [p.e. dalle figure di interferenza che appaiono su uno schermo su cui è proiettato un fascio di luce nel tempo t0]), ma il tempo “presente”, in quanto tale (p.e. come tempo contraddistinto dall’osservabilità dei fenomeni), non può venire mai “dedotto” o “derivato” da un sistema di equazioni (almeno all’interno degli attuali modelli di universo).

quanti

Il presente, dunque, sembra sfuggire a qualsiasi “predeterminazione”. Esso è incalcolabile. Per la precisione: non è incalcolabile la velocità raggiunta “ora” da questo determinato oggetto, se si ha un numero sufficiente di informazioni riguardo allo stesso oggetto – poniamo – un secondo fa. Quello che resta indeterminato è perché tale velocità debba essere raggiunta proprio “adesso”. Ciò che resta indeterminato è il presente in quanto presente, non in quanto “luogo” in cui si manifestano determinati effetti di determinate cause.

Tutto questo, però, non implica che la “coscienza” sia assolutamentelibera“. Essa soltanto appare a se stessa tale, cioè indeterminabile.

Io non posso sapere che cosa io stesso “farò” (o il mio corpo “farà”) tra un istante, né posso prevedere con certezza gli eventi che mi appaiono “esterni” (nella misura in cui vi sono sempre a qualche titolo implicato, cioè vi è implicata la coscienza che appare a se stessa come un “io”). Da tale parvenza di libertà scaturisce la nozione di “libero arbitrio”.

Nondimeno non si può escludere che tutto ciò che mi sembra di “fare” e che, in generale, accade sia “destinato”, in modo tale che sia “necessario” (eventualmente anche “provvidenziale” in senso stoico), che tutto sia “scritto”, fatum, come proponevi tu stesso, senza tuttavia che esso sia “computabile”.

In particolare che viga una sorta di super-determinismo è suggerito

  1. sia dai paradossi della meccanica quantistica, la quale suggerisce che tutte le particelle di cui appare costituito l’universo non siano affatto separate nello spazio e nel tempo come appaiono, ma, in quanto entangled, si muovano, per così dire, “in sincrono”;
  2. sia dall’ipotesi che l’universo assuma di volta in volta coscienza di sé da prospettive diverse. Queste, infatti, devono essere tra loro necessariamente “coerenti” (deve vigere un’harmonia praestabilita), tali che non possa mai accadere che ciò che mi sembra di “fare” liberamente sia diverso da ciò che a un altro “io” (a un altro sapiens dotato di coscienza) apparirà o è apparso che io abbia liberamente “fatto”.

Sotto questo profilo il paradosso del nonno  è superato e spiegato dal principio di autoconsistenza di Novikov.

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di Giorgio Giacometti