Che spazio e tempo siano “illusori” e, pertanto, tutto sia, in se stesso, uno, è suggerito, come è noto, anche da talune interpretazioni della meccanica quantistica.
I risultati degli esperimenti (mentali e non) sull’entanglement quantistico, alla luce del teorema della diseguaglianza di Bell (o, se vogliamo, del teorema di Kochen-Specker), possono essere interpretati soltanto facendo “saltare” o il principio di località o il principio di oggettività: il fatto che due o più particelle, separate da spazio e/o da tempo, conservino tra loro un “intreccio” (entanglement), tale che le proprietà di ciascuna e di tutte rimangono interdipendenti e tra loro coerenti, esclusa una comunicazione a distanza con ruolo causale (perché ciò violerebbe il limite della velocità della luce), può essere spiegato
- o supponendo che, nell’atto dell’osservazione, di due o più universi in sovrapposizione di stati, “collassando la funzione d’onda”, ne rimanga uno solo (interpretazione di Copenhagen, in particolare secondo Wigner), caratterizzato da coerenza quantistica (tale che le particelle entangled conservino proprietà coerenti tra loro e con quelle di uno “stato iniziale” che ci si può anche rappresentare come “retrocausato” dall’osservazione medesima);
- o ammettendo che esista un sistema di riferimento (un framework) relativo alle particelle in questione (o, più ampiamente, un “unfolded order”, un ordine implicato, esteso quanto lo stesso universo, in cui le particelle esistono), al di qua dello spazio e del tempo da noi percepiti (cioè dell’ordine esplicato), in cui esse sarebbero ancora unite o in contatto (teoria di Bohm).
Si può mostrare che le due interpretazioni convergono, se si riconosce che tutto è (potenzialmente) uno, ma si manifesta come molteplice soltanto se e perché lo si osserva o, il che è lo stesso, se ne prende coscienza.
- In che modo?
Come sai, non posso conoscere sia la velocità (o la quantità di moto) sia la posizione di una particella per il principio di indeterminazione di Heisenberg. Se determino l’una mediante un’osservazione per l’altra posso solo avere una distribuzione di probabilità.
Si può tentare di interpretare questo tipo di indeterminazione come se si trattasse di una questione epistemica, cioè legata alla tecnica dell’osservazione: l’atto di osservazione, trattandosi di particelle subatomiche, influirebbe sul comportamento delle particelle, rendendo inevitabile un margine di errore, misurato dalla formula di Heisenberg.
Tuttavia, si può mostrare che tale interpretazione, che fu data originariamente dallo stesso Heisenberg, non regge. Si deve viceversa ammettere (come sostiene la c.d. “interpretazione di Copenhagen”, in particolare nella versione di Wigner), se si vuole salvare il principio di località (cioè il postulato che gli eventi si verificano nello spazio e nel tempo e interagiscono attraverso segnali che non possono superare la velocità della luce) che la realtà microfisica, almeno in certi casi, esiste in sovrapposizione di stati contraddittori (p.e. una particella ha simultaneamente una polarizzazione orizzontale e verticale o uno spin di un tipo e del tipo opposto ecc.) finché non viene osservata. A questo punto assume una certa configurazione, come se l’osservatore stesso l’avesse determinata. L’indeterminazione, insomma, sarebbe ontologica, non epistemica: riguarderebbe la stessa realtà che sussisterebbe, per così dire, in forma “sfocata”, in assenza di osservazioni.
- Ho letto, però, che per spiegare il fenomeno dell’entanglement tra particelle separate nello spazio e nel tempo possiamo immaginare che esistano interi “universi” in stati simultanei contraddittori, indipendenti dalla nostra osservazione.
Tu alludi all’interpretazione “a molti mondi” di Hugh Everett III.
Innanzitutto, tale interpretazione, francamente barocca e farraginosa, sembra violare il rasoio di Ockham, perché invoca innumerevoli universi inosservabili per spiegare ciò che osserviamo.
Inoltre, se ci rifletti, questi innumerevoli universi, in sovrapposizione di stati, distesi in uno spazio a più dimensioni e contenenti innumerevoli oggetti (particelle, stringhe ecc.), sarebbero comunque virtuali in assenza di osservazione. La tua osservazione (chiunque tu sia e a qualunque universo tu appartenga) “costringerebbe”, per così dire, a esistere (a passare dal virtuale al reale) solo quello, tra altri potenziali universi, che fosse coerente con quanto osservato. Anche in questa ipotesi, dunque, l’universo “osservabile” dipenderebbe interamente dal fatto di venire osservato.
Versioni più recenti dell’interpretazione di Copenhagen vanno nella stessa direzione: non è possibile separare la cosiddetta “realtà” dalla prospettiva di chi la guarda o, il che è lo stesso, il realismo locale è falso.
Secondo la teoria della complementarità degli orizzonti, ad esempio, le “cose” (non solo particelle elementari in sovrapposizione di stati, ma anche oggetti macroscopici come stelle o galassie) possono essere diverse a seconda dell’orizzonte degli eventi in cui siamo immersi (divergenza che riguarda non solo i dintorni di un buco nero, ma anche, in generale l’universo che appare necessariamente diverso a seconda il punto di vista dal quale lo osserviamo).
La teoria della complementarità degli osservatori di Raphael Bousso va ancora più a fondo:
Gli esperimenti di ciascuno osservatore ammettono una descrizione coerente, ma una descrizione simultanea di entrambi gli osservatori diventa incoerente. Ne deriva una conclusione affascinante, che denomino complementarità degli osservatori. [...] La complementarità degli osservatori prevede che una descrizione fondamentale della natura debba descrivere solo gli esperimenti coerenti con la causalità. [...] La complementarità degli osservatori implica che debba esserci una teoria per ogni diamante causale [la porzione di spaziotempo che può interagire con ciascun osservatore], ma non necessariamente per le regioni dello spazio non contenute in alcun diamante causale. [Observers Complementarity Upholds the Equivalence Principle, pp. 1-2]
- D’accordo. Ma tu hai evocato la teoria di Bohm, che non sembra affatto richiedere questa moltiplicazione di universi virtuali, ma, introducendo nella teoria quantistica le c.d. “variabili nascoste”, secondo la proposta di Einstein, riconduce tutto a spiegazione deterministica nella quale non assolve più alcun ruolo causale l’atto di osservazione.
Come sai, nell’interpretazione di David Bohm il caso delle due particelle entangled sarebbe indice di una verità più generale: tutto sarebbe unito, intrecciato con tutto, in ciò che Bohm denomina “unfolded order“, ordine implicato: “tutto è in tutto“, “pànta en pasin“, come avrebbe detto Anassagora di Clazomene. Il prezzo da pagare, dunque, per ripristinare determinismo e oggettività sarebbe quello di far saltare il principio di località.
Nell’interpretazione di Bohm la realtà è già univocamente determinata (vige una forma di determinismo come per la relatività di Einstein e la fisica classica), ma non è locale (Bohm parla di “ordine implicato”). Bohm sarebbe riuscito a “raddrizzare” la meccanica quantistica introducendo le famigerate “variabili nascoste” per rendere conto dei fenomeni osservabili, ma a un prezzo: ammettere che in se stessi i fenomeni (o meglio le “cose” dietro quelli che ci appaiono come fenomeni) sarebbero “non locali”. Per la cosiddetta diseguaglianza di Bell si può raddrizzare in senso deterministico la meccanica quantistica solo facendo saltare il postulato della località.
Ad esempio, se quando osservo una particella nel famoso esperimento EPR (che una volta era solo immaginario, ma che è stato poi effettivamente realizzato da Aspect e altri), anche la particella “sorella” assume certe proprietà in funzione di quella assunte dalla particella osservata, questo misterioso “entanglement” si spiegherebbe non perché (come nell’interpretazione di Copenhagen) la “coscienza” (Wigner) o la “misurazione” (Bohr) determinerebbero quale tra diversi universi possibili in sovrapposizione di stati è quello vero, ma semplicemente perché agendo su una particella simultaneamente agisco anche sull’altra come se le due particelle che mi appaiono molto distanti fossero ancora unite nell'”ordine implicato”.
- D’accordo. Mi sembra, quindi, che, ripristinando il rigido determinismo proprio anche della relatività, Bohm non conceda alcuna funzione alla “coscienza”, come avviene ad es. nell’interpretazione di Wigner della meccanica quantistica…
Non è esattamente così. Bohm ammette che la sua teoria (e in generale le meccanica quantistica, ma questo vale anche per la relatività) ha un problema: non se ne può derivare l’istante presente (cioè quello dell’osservazione). Cioè non esistono equazioni risolvendo le quali io possa conoscere le coordinate spaziotemporali del qui e ora.
Anche questa ipotesi, dunque, (non solo l’interpretazione di Copenhagen, segnatamente nella rilettura di Wigner) richiede un atto di osservazione (una “presa di coscienza”), senza di cui nessun ordine esplicato (spaziotemporale) sarebbe concepibile.
Va considerata anche un’altra cosa che spesso sfugge. Anche nell’interpretazione di Copenhagen vige il più assoluto determinismo, perché ciascuna e tutte le particelle dell’universo si comportano come è loro prescritto dall’equazione di Schroedinger, che è appunto un’equazione deterministica (non diversamente da un’hamiltoniana). L’indeterminazione viene introdotta appuntto dall’atto di osservazione che farebbe “collassare” tale funzione in modo imprevedibile. Gli universi virtuali, in sovrapposizione di stati, dunque, prima dell’osservazione, “viaggiano” in un’unica direzione, per così dire, pe quanto complessa.
Dunque per tutte le interpretazioni della meccanica quantistica l’atto di osservazione determina imprevedibilmente ciò che appare.
[Ci si può chiedere, infatti, che cosa resterebbe del “mondo” se non se ne fosse più coscienti.
Si potrebbe immaginare che “resti” lo spaziotempo come varietà a molte dimensioni, “immobile”, contenente tutto e contraddistinto da “qualità primarie”.
Ma, come sostiene anche Rovelli, in meccanica quantistica non esiste propriamente il tempo come asse sul quale si possa fissare un presente, distinto da passato e futuro (Bohm stesso ha francamente riconosciuto che la meccanica quantistica, anche nella sua interpretazione, non può “afferrare” presente).
Non esiste neppure lo spazio, come lo conosciamo, considerando la natura “non locale” delle interazioni microfisiche,]
In entrambe le interpretazioni, dunque, quella “classica” di Copenhagen e quella di David Bohm, il modo in cui le cose ci appaiono (fenomeno) dipende dal modo in cui si è coscienti di ciò che esiste.
- Nell’interpretazione di Copenhagen la coscienza assolverebbe un ruolo causale nella determinazione di una “realtà” altrimenti “sfocata” (in sovrapposizione di stati contraddittori).
- Nell’ipotesi dell’ordine implicato (Bohm) questo determinato fenomeno collocato nello spazio e nel tempo (che apparterrebbero all’ordine esplicato) esisterebbe solo nella misura in cui se ne fosse coscienti qui e ora.
La differenza tra le due interpretazioni della meccanica quantistica si riducono in ultima analisi alla seguente.
Nella classica interpretazione di Copenhagen l’indeterminazione (intesa come sovrapposizione di stati) riguarderebbe la realtà prima dell’osservazione e sarebbe l’osservazione (in un qualche “presente”) a determinarla.
Nell’interpretazione di Bohm la realtà sarebbe intrinsecamente determinata, ma non locale. L’indeterminazione (per così dire) riguarderebbe la sua localizzazione (non c’è modo di dimostrare perché qui e ora si localizzi piuttosto che là e altrove), che Bohm chiama “ordine esplicato”.
In ultima analisi in entrambi i modelli c’è qualcosa di indeterminabile che è strettamente connesso all’atto dell’osservazione sperimentale, al presente. Solo che in un caso questa “indeterminazione” è “proiettata” sulla realtà esterna, mentre nell’altro sarebbe riferibile alla stessa osservazione (che, viceversa, nel primo modello sarebbe determinante).
In generale a livello microfisico ciò che si osserva risulta vincolato alla legge della coerenza (nello spazio e nel tempo) di ciò che via via si esplica.
Le proprietà p.e. simmetriche di due particelle in entanglement (non importa se spaziale o temporale) dipendono dal loro essere sempre potenzialmente una cosa sola, anche se esse, qui e ora (un presente che altrimenti non sarebbe tale), appaiono separate, nel modo in cui lo sono, in virtù del fatto che se ne è coscienti.
In entrambe le prospettive ciò che attualmente appare verrebbe ritagliato da qualcosa di “possibile”: nell’ipotesi di Bohm il “possibile” sarebbe un universo inesteso (ordine implicato), ma saturo di informazioni; nella teoria di Copenhagen il “possibile” sarebbe un multiverso costituito da innumerevoli universi in sovrapposizione di stati. Si può mostrare che, di fatto, le due teorie coincidono se intendiamo il multiverso (in se stesso, come abbiamo osservato, deterministico) come alcunché di puramente virtuale: in ultima analisi l’ordine implicato è precisamente il sistema che potrebbe dare luogo a ciascuno di tutti questi universi se venisse osservato (se se ne fosse “coscienti”) da un corrispondente punto di vista.
Se “essere in atto”, “esserci”, “esistere” significa essere percepito, ciò che è immaginato, ma inosservabile, propriamente non esiste (esiste soltanto in forma virtuale o possibile, come le traiettorie, mutuamente cancellantesi, delle particelle subatomiche nella teoria dei campi quantistici secondo l’integrale dei cammini di Feynman).
Da tutti i punti di vista, dunque, tutto è uno:
- l’universo è uno, ma appare molteplice alla coscienza;
- oppure si dànno innumerevoli universi possibili, ma solo uno è reale, quello di cui si è coscienti.
Secondo l’ università della Sapienza di Roma la realta e’ preesistente e non c’entra l’osservatore cosciente, ovvero la luna sta gia li disposta per essere osservata nella sua realta’, come diceva Einstein. Le altre ipotesi sulla formazione della realta’ con la osservazione sono interpretazioni erronee forzate strampalate. A meno che non si ammetta un osservatore massimo, ma li poi si entra in un campo filosofico religioso.
“Secondo l’università La Sapienza di Roma”? Da quando le università hanno un proprio pensiero e da quando questo pensiero è considerato un’autorità indiscussa? Facendo il verso a Galileo Le chiederei di portare argomenti “vostri o di Aristotele” e non nude autorità.
Anche a me la teoria delle variabili nascoste sembra la più logica. In caso contrario si finisce in concezioni “new Age”
Tuttavia, anche ammettendo queste variabili, a quanto pare, si deve rinunciare al principio di località. Il limite della c.d. “New Age” è che non argomenta in modo abbastanza convincente le proprie tesi, titilla il desiderio umano di spiritualità e, soprattutto, si vende molto bene. Tuttavia, tutto questo non esclude che alcune intuizioni diffuse in questo mondo variegato possano essere corrette.