- Perché la coscienza è temporalizzata? Perché l’universo prende coscienza di sé nel tempo, in un tempo, in particolare, in cui si distinguono passato, presente e futuro? Non potrebbe essere tutto presente a se stesso qui e ora?
Come abbiamo già argomentato, l’universo non può essere cosciente di tutto ciò che è simultaneamente perché non può essere coscienza del proprio medesimo atto (o, come altrimenti si potrebbe intendere: dovendo l’universo scindersi in attività percipiente e in cosa percepita, restando tuttavia uno e dovendo percepire, dunque, contraddittoriamente, come oggetto anche il proprio stesso soggettivo percepirsi).
- D’accordo. Ma, se eccettuiamo l’attività percipiente dell’universo, tutto ciò che di esso potesse venire oggettivato dovrebbe poter pervenire a coscienza.
Possiamo congetturare che effettivamente ciò si verifichi in un “tempo eterno” o âion nel quale tutto ciò che è possibile si mostri, in modo più o meno distinto, con la sola eccezione dell’occhio a cui tutto si mostra.
Si tratta di ciò che i platonici denominano “cosmo intelligibile” o “mondo delle idee”: nella nostra metaforica si tratta del “programma” la cui esecuzione sarebbe il cosmo manifesto (“mondo sensibile”) o della “lastra olografica”, le cui “figure di interferenza” (corrispondenti alle “idee platoniche”) genererebbero tutte le “cose” percepibili (gli “ologrammi”).
Osserva che non a caso l’Uno, nella prospettiva (neo)platonica, non potendo essere oggetto di se stesso (sarebbe già duale), rimane inaccessibile, mentre contempliamo le molteplici idee.
- E perché noi, di fatto, non percepiamo affatto tutto ciò che è possibile (il “cosmo intelligibile”) nel modo che qui descrivi?
Si può congetturare che ciò ci sia precluso affinché l’universo debba restare coerente. A differenza che nell’ordine implicato (o “cosmo intelligibile”), nell’ordine esplicato o mondo sensibile (nel quale siamo forse “caduti” o nel quale ci siamo “incarnati”) vige il principio di non contraddizione (come forse altri vincoli, assenti nel mondo intelligibile, anche se, verosimilmente, determinati da questo).
In generale il tempo, inteso qui come chrònos e anche come kairòs, rende possibile percepire ciò che, altrimenti, simultaneamente, si presenterebbe come contraddittorio e incompossibile: un cerchio, p.e., non può essere quadrato, ma può, tuttavia, divenire tale.
Anche lo spazio assolve la stessa funzione: un cerchio può essere accanto a un quadrato (ma non può coincidere con esso).
[Non potendo, dunque, sviluppare l’immagine intera di se stesso (una propria rappresentazione esauriente), l’universo tende, nello spazio e nel tempo, a rappresentarsi immagini di se stesso il più possibile simili all’intero di cui sono immagini: vale a dire tendenti all’unità, ma ineluttabilmente molteplici; e, tuttavia, contraddistinte da una forma la più semplice e coerente possibile.
N. B. In generale la ricerca della conoscenza (in senso lato la filo-sofia), specialmente la ricerca della conoscenza di se stessi, esprime il proprio desiderio di essere e di conservarsi nell’essere: nel momento in cui esso non può essere direttamente soddisfatto da un “divenire ciò che si è”, perché ciò comporterebbe la caduta in antinomie, l’immagine di sé che la coscienza, di volta in volta, “diventa” (di cui si riempie) è un “sostituto” della “cosa” (il tutto) di cui l’immagine è immagine, così come anche la parola è un sostituto della cosa. Conoscere, infatti, non è che un “essere per similitudine” ciò che si conosce, proprio come, viceversa, solo se sono ciò che desidero conoscere posso conoscerlo interamente e a fondo.
Possiamo rappresentarci questa tendenza dell’universo a rappresentare se stesso, per conoscersi ed essere il più possibile in atto (esplicitamente) tutto ciò che esso è in potenza (implicitamente), come lo spostamento di un osservatore nello spazio davanti a una lastra olografica: mentre egli ricerca la forma perfetta (supponiamo: una sfera bianca) gli appaiono forme (tridimensionali) sempre diverse, più o meno sfocate, dai colori diversi ecc.]
Le “cose” che appaiono sono determinate dalla combinazione tra le informazioni (eternamente immobili, costituite da figure di interferenza) contenute nella “lastra olografica” e lo spostamento dell’osservatore. L’osservatore non è, dunque, libero di percepire tutto quello che vuole, perché ciò che percepisce dipende completamente dalla lastra olografica; tuttavia, l’osservatore possiede un certo numero di “gradi di libertà” nello “spazio delle fasi” attraverso il quale si muove, fermi restando i vincoli determinati dalle figure di interferenza impresse nella lastra olografica.
L’universo, insomma, non può essere cosciente di tutto se stesso insieme senza cadere in contraddizione: non della propria attività di autocomprensione mentre si svolge (e questo neppure nell’eternità) e non delle proprie parti mutuamente contraddittorie (nel tempo di cui facciamo esperienza).
Si può supporre che tutto ciò che è possibile tenda a realizzarsi, ma ciò non può avvenire nello stesso tempo e nello stesso spazio. Condizione perché il possibile si manifesti è che ciò che si manifesta sia coerente con se stesso sincronicamente e diacronicamente (cioè precisamente: in ciò che appare nel tempo e nello spazio, ricordando che spazio e tempo si generano con la coscienza medesima, non la precedono).
La coscienza, in quanto coscienza che l’universo ha di se stesso è dunque necessariamente limitata. Tutto ciò che è non può non essere, ma non tutto ciò che è possibile può essere qui e ora. Tutto è uno, ma l’uno (l’infinito dei possibili) non è tutto (qui): vi è sempre un resto [ineffabile che domanda di venire riconosciuto].
Per afferrare il resto che qui e ora ci sfugge il tempo deve scorrere, il tutto deve continuamente aggiornarsi (updating), se vogliamo restare nella metaforica informazionale.
In questo aggiornamento il tutto si complica: in tanto cresce la complessità di sé come oggetto (l’universo visibile), in quanto cresce la complessità della parte di sé attraverso la quale esso percepisce e concepisce se stesso (l’organismo nel quale, di volta in volta, l’universo prende coscienza di sé e l’organo attraverso il quale tale presa di coscienza più compiutamente avviene: il cervello).
Di tutto ciò che (potenzialmente) “è” emerge, di volta in volta, una “faccia”, mentre il resto rimane in ombra. Più precisamente: da ciò che può essere, è in potenza, è opinato come possibile, rimane inconscio emerge ciò che c’è, è in atto, ex-siste, appare, di cui si è coscienti (espressioni sinonime: in quest’accezione esse est percipi),
senza che si possa essere coscienti del confine, perpetuamente mobile, tra i due domini (ciò che appare può essere rappresentato da un segmento i cui estremi non sono compresi in esso).