Non possiamo fare a meno di “cause finali”

ragnatela

L’evoluzione, in particolare quella della vita, sembra implicare cause finali.

In un passo importante della Fisica di Aristotele possiamo leggere una confutazione ante litteram non tanto del darwinismo in quanto tale, ma della sua interpretazione meccanicistica (à la Monod, per intenderci).

La tesi fondamentale di Aristotele è che non possiamo sbarazzarci facilmente, nell’interpretare i processi naturali, della nozione di “causa finale“.

Il che significa, semplicemente, che siamo autorizzati a ricorrere alla nozione di fine per spiegare (rendere ragione dei) fenomeni naturali (in greco aitìa o àition, generalmente tradotto con “causa”, indica ciò che si “domanda” – “aitèin” significa “domandare” – evidentemente per rendere ragione di qualcosa).

Aristotele in Fisica, 198b e ss., comincia col porre un dubbio:

Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del meglio, bensì come piove Zeus, non per far crescere il frumento, ma per necessità (difatti ciò che ha evaporato, deve raffreddarsi e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù: e che il frumento cresca quando avviene, è un fatto accidentale)? E, parimenti, quando il grano, poniamo, si guasta nell'aia, non ha piovuto per questo fine, cioè affinché esso si guastasse, ma questo è accaduto per accidente. 
E, quindi, nulla vieta che questo stato di cose si verifichi anche nelle parti degli esseri viventi e che, per esempio, per necessità i denti incisivi nascano acuti e adatti a tagliare, quelli molari, invece, piatti e utili a masticare il cibo; ma che tutto questo avvenga non per tali fini, bensì per accidente. E così pure delle altre parti in cui sembra esserci un fine.

Come si legge, Aristotele prende molto sul serio la tesi dei “meccanicisti”, secondo i quali si potrebbe espungere la nozione di “causa finale” dall’interpretazione dei fenomeni naturali.

“Che cosa vieta”, si chiede “che la natura agisca senza alcun fine?”. Non potrebbe darsi, per esempio, che, come piove (con “effetti”, giovevoli o nocivi) “per caso” (per accidente), così anche gli incisivi e i molari siano come sono (adatti – Aristotele dice proprio così – a svolgere una determinata funzione – diremmo noi – ) “per caso”?

Si tratterebbe di una incredibile coincidenza. Ma ecco che Aristotele fa l’ipotesi, tratta da Empedocle, che siano “apparsi” “esseri, in cui tutto si è prodotto accidentalmente, ma allo stesso modo che se si fosse prodotto in vista di un fine”. Questi si sarebbero “conservati per il fatto che per caso sono risultati costituiti in modo opportuno; quanti altri, invece, non sono in tale situazione, si sono perduti”

E, pertanto, quegli esseri, in cui tutto si è prodotto accidentalmente, ma allo stesso modo che se si fosse prodotto in vista di un fine, si sono conservati per il fatto che per caso sono risultati costituiti in modo opportuno; quanti altri, invece, non sono in tale situazione, si sono perduti o si van perdendo, come quei buoi dalla faccia umana di cui parla Empedocle.

[Cfr. Empedocle, Sulla natura, fr. 61 DK: "Nascere con volti duplici e duplici busti esseri molti, di bovina stirpe con umane facce, altri all'incontro spuntare di natura umana con bovini capi, esseri misti qui con maschi, là di natura femminile, di ombrosi grembi corredata"]
Questo, o su per giù questo, è il ragionamento che potrebbe metterci in imbarazzo.

Sembra, dunque, che Aristotele colga qui il nucleo della moderna teoria della selezione naturale: quegli esseri che, per caso, hanno “evoluto” tratti che “sembrano” prodotti in vista di un fine (strutture “teleonomiche” in linguaggio moderno) potrebbero essersi conservati (noi aggiungeremmo: “e riprodotti”) per il fatto di essere casualmente costituiti “in modo opportuno”, cioè, come lo stesso Aristotele dice a proposito di incisivi e molari, “adatto“. Quelli, invece, che non hanno “per caso” tali tratti “vantaggiosi” si sarebbero “perduti” (non si sarebbero conservati, né – possiamo aggiungere -, a maggior ragione, riprodotti).

La cosa interessante è l’argomentazione che Aristotele mette in campo per “difendere” le “sue” cause finali, contro l’ipotesi che il caso abbia svolto un ruolo così importante:

Ma è impossibile che la cosa stia così. 

Infatti, le cose ora citate e tutte quelle che sono per natura, si generano in questo modo o sempre o per lo più, mentre ciò non si verifica per le cose fortuite e casuali. Difatti, pare che non fortuitamente né a caso piova spesso durante l'inverno; ma sotto la canicola, sì; né che ci sia calura sotto la canicola; ma in inverno, sì. Dal momento che, dunque, tali cose sembrano generarsi o per fortuita coincidenza o in virtù di una causa finale, se non è possibile che esse avvengano né per fortuita coincidenza né per caso, allora avverranno in vista di un fine. Ma tutte le cose di tal genere sono sempre conformi a natura, come ammettono anche i meccanicisti. Dunque, nelle cose che in natura sono generate ed esistono, c'è una causa finale.

Aristotele non invoca un “disegno divino”, né si appella ad eventuali  ostacoli nel processo di selezione (il poco tempo a disposizione per selezionare casualmente caratteri troppo complessi – come fanno oggi i creazionisti che si ispirano alle teorie degli “equilibri puntuati” di Gould -, l’implausibilità del fenomeno ecc.), ma ragiona all’incirca nel modo seguente.

Che cosa si sarebbe ottenuto con questo processo di selezione casuale (ammesso e non concesso che qualcosa del genere si sia verificato)? Si sarebbe ottenuto qualcosa di “abituale”, ossia di “stabilmente adatto” (alla sopravvivenza), non qualcosa di “accidentale”, ossia di “estemporaneo”. Gli stessi “meccanicisti” (per esempio gli atomisti) – nota Aristotele – considerano “secondo natura” ciò che ha (casualmente) acquisito queste caratteristiche adattive (come i molari e gli incisivi ecc.), mentre ciò che non ha acquisito queste caratteristiche non si potrebbe dire “secondo natura”.

In linguaggio moderno si potrebbe dire: ciò che nessuno può negare è la funzione “naturalmente” svolta da questo o quell’organo di questo o quel vivente. Proprio per spiegare come sia possibile “evolvere” tale funzione gli uni invocano la “selezione naturale” della struttura più adatta, gli altri un progetto divino ecc. Ciò che nessuno nega è che la “natura” organizzi se stessa “funzionalmente”.

 

La cosa è resa ancor più chiara dal paragone tra l’operare della natura e quello dell’uomo:

Inoltre, in tutte le cose che hanno un fine, in virtù di questo si fanno alcune cose prima, altre dopo. Quindi, come una cosa è fatta, così essa è disposta per natura e, per converso, come è disposta per natura, così è fatta, purché non vi sia qualche impaccio. Ma essa è fatta per un fine; dunque per natura è disposta a un tal fine. Ad esempio: se la casa facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse caratteristiche con le quali è ora prodotta dall'arte: e se le cose naturali fossero generate no solo per natura, ma anche per arte, esse sarebbero prodotte allo stesso modo di come lo sono per natura. Ché l'una cosa ha come fine l'altra. Insomma: alcune cose che la natura è incapace di effettuare, l'arte le compie; altre, invece, le imita. E se, dunque, le cose artificiali hanno una causa finale, è chiaro che è così anche per le cose naturali; infatti, il prima e il poi si trovano in rapporto reciproco alla stessa guisa tanto nelle cose artificiali, quanto in quelle naturali- Ma in particolar modo ciò è manifesto negli altri animali che non agiscono né per arte, né per ricerca, né per volontà: tanto che alcuni si chiedono se alcuni di essi, come i ragni e le formiche e altri di tal genere, lavorino con la mente o con qualche altro organo. E per chi procede così gradatamente, anche nelle piante appare che le cose utili sono prodotte per il fine, come le foglie per proteggere il frutto. Se, dunque, secondo natura e in vista di un fine la rondine crea il suo nido, e il ragno [crea] la tela, e le piante mettono le foglie per i frutti, e [mettono] le radici non su ma giù per il nutrimento, è evidente che tale causa è appunto nelle cose che sono generate ed esistono per natura. E poiché la natura è duplice, cioè come materia e come forma, e poiché quest'ultima è il fine e tutto il resto è in virtù del fine, questa anche la causa, anzi la causa finale.

Nessuno nega che una casa sia fatta in un certo modo per assolvere una certa funzione (per un certo fine). Ma l’arte (la tecnica) umana, in questo come negli altri casi, imita la natura (per esempio la “costruzione” del nido da parte delle rondini o della tana da parte del lupo ecc.). Come potrebbe l’uomo, che certamente agisce secondo fini, imitare la natura, se essa stessa non agisse secondo fini? Ciò che l’uomo imita, infatti, non è tanto la forma esteriore dell’opera della natura, ma precisamente la funzione che tale opera assolve (p.e. quella di proteggere, di catturare prede ecc.). Inversamente, talora sembra che la natura non riesca ad assolvere una determinata funzione se non è integrata dall’arte (per esempio da una protesi, nel caso di un organo inadeguato alla funzione che deve svolgere). Ma anche in questa prospettiva si dà continuità tra natura e arte, una continuità che non sarebbe possibile se non in una prospettiva globalmente finalistica (tale per cui natura e arte condividono gli stessi fini).

Infine, poiché il fine ultimo di un organismo è la propria conservazione e riproduzione, tale fine – nota Aristotele – coincide con la forma (specie o essenza) stessa dell’organismo.

In ultima analisi è la forma (che possiamo immaginariamente collocare nell’ordine implicito) ad attrarre a sé (fungendo così da attrattore, nel senso in cui René Thom intende questo termine, o, appunto, da causa formale o formativa) il vivente (e, più in generale, la “materia”, alcunché di apparentemente incongruo e disordinato), costituendo,  nella prospettiva di chi vive nel tempo, la causa finale di quello che appare come un movimento.

Come ribadisce il fisico teorico David Bohm:

[The] formative cause must evidently have an end or product which is at least implicit. Thus, it is not possible to refer to the inner movement from the acorn [la ghianda] giving rise to an oak tree [una quercia] without simultaneously referring to the oak tree that is going to result from this movement.
So formative cause always implies final cause.
[Wholeness and the Implicate Order, p. 16]

Ma la conservazione (tramite replicazione) della forma (p.e. della quercia) non è, in ultima analisi, lo stesso obiettivo della “selezione naturale” nella prospettiva di Darwin, riveduta e corretta dalle più recenti acquisizioni? La selezione agirebbe fondamentalmente per eliminare gli organismi “meno adatti” in modo da conservare la miglior forma possibile così nell’individuo come nella specie di appartenenza.

Se, dunque, traduciamo il discorso di Aristotele in termini funzionalistici (intendendo la nozione di “fine” sulla base quella di “funzione“) esso non sembra in alcun modo opporsi alle vedute della moderna biologia.  Il fine o tèlos, infatti, nell’accezione aristotelica, non è che la forma finale o “perfezione” della cosa, ciò che rende la “cosa” perfettamente efficiente e adattata, dotata di strutture il più possibile funzionali alla sopravvivenza e riproduzione della “cosa”.

La funzione assolta da questo o quell’organo di un vivente è tale, infatti, poiché essa sembra a tutti gli effetti guidata da una “causa finale”, intesa come “progetto” da realizzare, piuttosto che da cause meccaniche.

Tale funzione, tra l’altro, viene assolta anche nel caso che sopravvengono “disturbi” di varia origine. Come è  stato notato, infatti, sia che si tratti di “atti di consumazione” (come nutrirsi), sia che si tratti dello sviluppo dell’organismo dal genotipo al fenotipo:

1. Quando il fine è raggiunto, l'azione cessa: il fine, normalmente, è un termine dell'azione.
2. Se il fine non viene raggiunto, l'azione di solito continua.
3. Tale azione può essere modificata e, se non può essere raggiunto nel solito modo, il fine può essere raggiunto in un modo diverso.
4. Lo stesso fine può essere raggiunto da punti di partenza differenti.
[da E.S. Russell, The Directiveness of Organic Activities (1945), cit. in Sheldrake, p. 105]

Ma se mi spiego “perché” la rondine faccia il nido o un ragno tessa la sua tela (partendo anche da punti differenti o in modi differenti) invocando la funzione di tali strutture  (a prescindere dal processo storico che ha portato questi animali a comportarsi in questo modo, così come dalla domanda se essi agiscano “consapevolmente” o “istintivamente” ecc.) ragiono in termini di quella che Aristotele chiama “causa finale”. Punto.

N.B.  Il finalismo cosmico può riguardare altrettanto la chimica e la fisica che la biologia.

Per quanto riguarda la chimica basta pensare al processo di ripiegamento delle proteine secondo cammini di minima energia: il “fine” di minimizzare l’energia può essere raggiunto in molti modi, ma ci vorrebbero 1026 anni per perlustrarli tutti (si tratta del celebre paradosso di Levinthal). Si constata, invece, che vengono percorsi in tempo utile solo i cammini funzionali a raggiungere la conformazione di minima energia [cfr. Anfinsen e Scheraga].

Per quanto riguarda la fisica basta pensare all’azione esercitata dai diversi campi di forza su determinati oggetti (masse nel caso dei campi gravitazionali, cariche nel caso dei campi elettromagnetici ecc.). Si tratta di una forza orientata (i campi in questione, infatti, sono detti vettoriali: ogni loro punto è contraddistinto non solo da un modulo, che ne esprime l’intensità, ma anche da una direzione e un verso) che induce ciò su cui si esercita a muoversi nella direzione di un punto (o di un attrattore) come verso il tèlos del proprio moto.

Del resto, come è stato notato da più parti, anche i più radicali sostenitori di un’interpretazione meccanicistica della Natura, non possono rinunciare, sul più bello, a reintrodurre metafore “vitalistiche” o “(cripto)finalistiche”, come quella del gene egoista, del programma genetico, dell’Orologiaio cieco, o di Madre Natura [cfr. Piattelli, p. 164 e ss.; Sheldrake, p. 98 e ss.]. Per quanto questi autori si sforzino di avvertire che il loro è solo un linguaggio metaforico, sembra davvero impossibile pervenire a una qualsivoglia comprensione della vita (ed, eventualmente, della sua evoluzione) senza introdurre tale linguaggio, reintroducendo così, surrettiziamente, il riferimento a cause finali.

Altra questione riguarda come si sia “evoluta”, “creata”, “prodotta” la determinata cosa o questa o quella struttura della cosa (il determinato organismo o questo o quell’organo del determinato organismo, il determinato campo gravitazionale ecc.).

Nella prospettiva “fissista” di Aristotele la questione, in effetti, non si pone. Le cose (e gli organismi) sono come devono essere, altrimenti non sarebbero ciò che sono.

Il fatto che, come sappiamo da una “storia naturale” ricca di prove al riguardo (resti fossili ecc.), si registri un’evoluzione dei viventi richiede certo che tale evoluzione vada spiegata. Ora, non c’è difficoltà ad ammettere che la Natura “scelga” come evolvere, eliminando certi rami improduttivi dell’albero della vita e privilegiandone altri, più “funzionali”. Ma si noti che, anche in questo prospettiva, appare difficile rinunciare alla nozione di “fine”, sia pure in riferimento alla mera “capacità di sopravvivere e riprodursi” del determinato organismo.

La “selezione naturale”, se non fosse meramente conservativa, ma potesse spiegare anche i mutamenti (vedi sopra), potrebbe eventualmente essere il meccanismo attraverso il quale la Natura (o un’ipotetica “anima del mondo”) prende le sue de-cisioni, proprio come fa il pensiero umano, quando esamina varie ipotesi, ne scarta diverse e ne sceglie una. La differenza consisterebbe nel fatto che i “pensieri” della Natura (finalizzati alla massima fitness, ma cfr. la tesi che tale nozione sia tautologica, sostenuta con buoni argomenti da Palmarini e Fodor) sono “incarnati”, si “materializzano” in ramificazioni dell’albero della vita e, quando vengono scartati, si estinguono.

Cfr. anche le seducenti ipotesi di Amit Goswami, eco delle teorie evoluzionistiche di Bergson in chiave quantistica.

Tuttavia il “fissismo” aristotelico potrebbe avere oggi un significato non banale…

 

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di Giorgio Giacometti