Il teorema dei segni consiste in questo:
non si dà mai alcuna circostanza nella quale ciò che comunemente si intende come causa non possa essere altrettanto bene inteso come segno
Ad esempio: posso dire che il fuoco è causa del fumo non meno bene che il fuoco è segno (del fatto che seguirà) del fumo.
Ciò vale naturalmente per le presunte cause biologiche di emozioni o sentimenti, per le presunte cause, consistenti in vantaggi competitivi, dell’evoluzione dei viventi etc.
- A me pare abbastanza chiaro che se bevo due litri di birra ciò sia la causa di una serie ben determinata di effetti sul mio umore e sulla mia capacità di attenzione!
Secondo la corrente “vulgata” questo determinato livello di alcool nel sangue è responsabile di certi determinati effetti psichici, questo neurotrasmettitore, quando raggiunge un certo livello di concentrazione, è “responsabile” (causa) di uno stato depressivo, questo ormone è responsabile di uno stato di eccitazione, il testosterone determina questo, la caffeina quest’altro etc.
Ora, vi è certamente una profonda corrispondenza tra anima e corpo che si esprime anche con queste misurazioni. Ma il cortisolo così diffuso nel sangue è solo SEGNO che tu sei sotto stress. Perché ostinarsi a volergli riconoscere un ruolo causale, a maggior ragione se la nebbia più fitta circonda il mistero dei NCC (correlati neurali della coscienza) e della coscienza stessa?
Il diritto accortamente considera più grave, e non meno grave, il reato compiuto da chi abbia assunto dell’alcool per stordirsi al fine di commetterlo, magari per accampare poi la scusa (attenuante o, perfino, scriminante) di non essere stato in (perfette) condizioni di intendere e di volere… La profonda sensibilità stoico-romana della dottrina giuridica coglie che il vero “autore” della gesta dell’ubriaco non è l’alcool ma l’ubriaco stesso che si è deliberatamente messo in quelle determinate condizioni.
Ogni singolo sorso di birra che bevi è segno del tuo desiderio di stordirti o di dimenticare. Il tuo corpo non fa altro che esprimere, in ciò che assume e in ciò che compie, la tua anima.
N. B. Io non nego che molti processi spirituali si svolgano in modo inconscio. Sostengo, però, che abbiano carattere spirituale e che quello che noi osserviamo all’esterno, dai livelli di alcool nel sangue alle onde cerebrali registrate da elettrodi ficcati nel cervello, sia solo la manifestazione tridimensionale di processi invisibili (cfr. la teoria della relatività applicata alla coscienza).
Insomma: l’alternarsi tra stati euforici e depressivi, a cui corrispondono diverse sostanze nel sangue, sono come l’alternarsi del giorno e della notte; come nel secondo caso la vera “causa” non sta nell’intensità dell’irraggiamento o nell’inclinazione dei raggi solari, ma nella rotazione della Terra, così nel primo caso le vera “cause” dei comportamenti riposano nel segreto dell’anima (il cancro sembra essere l’effetto dell’eccesso di fumo, ma entrambi potrebbero dipendere da un certo atteggiamento dell’anima).
Insomma la mia tesi è questa: nel mondo come ci appare, se eccettuiamo l’azione dei viventi, non si registrano, a ben vedere, vere e proprie cause, ma solo sequenze ripetitive di eventi regolati da leggi o funzioni (osservazione, peraltro, che, risalente a Hume, è rilanciata da Cassirer e dagli empiristi moderni, come Wittgenstein, tutta gente che aborrisce la nozione di “causa” considerata “metafisica”).
N. B. La mia intenzione, come è chiaro, non è “positivistica” o “fisicalistica”, ma risponde all’esigenza di “dimostrare” che le sole “vere” cause (distinte dai “meri” segni) non possono che essere intese in senso aristotelico, devono cioè includere le cause finali e formali e presupporre un agente vivente (e magari anche potenzialmente cosciente).
In generale, ritengo che oggi la nozione di causa sia assunta
- o in senso debole (come sinonimo di quello che io chiamo “segno”),
- o in senso antropomorfico, per effetto dell’analogia con l’agire manipolativo del soggetto cosciente.
Il senso debole (1 ) può essere espresso come segue:
Se quando c’è A c’è sempre anche B, mentre resta del tutto possibile che B ci sia anche senza A, così come resta possibile che non ci siano né A né B, possiamo dire che A sia causa di B.
Tuttavia, come distinguere la causa in questo senso da un “segno premonitore” (più o meno certo)?
Consideriamo la celebre credenza popolare: “cielo a pecorelle, pioggia a catinelle”. Ammettiamo che ogni volta che il cielo è “a pecorelle” (contraddistinto da tante piccole nuvolette separate) poi segua pioggia e che quest’ultima possa verificarsi anche senza essere preannunciata da un tale cielo. Nessuna persona ragionevole sosterrebbe che sia “il cielo a pecorelle”, in quanto tale, a “causare” la pioggia (così come non è il giorno a “causare” la notte, anche se la precede sistematicamente; saremmo viceversa inclini a imputare alla rotazione della Terra intorno al proprio asse la causa dell’alternarsi del giorno e della notte).
In generale, non vedo come in una sequenza di eventi a cui assistiamo SENZA intervenirvi, fossero pure eventi economici (una crisi di sovrapproduzione e una successiva crisi finanziaria, come nel 1929), si possa distinguere la causa dal segno premonitore.
C’è qualcuno in grado di fare un esempio nel quale “segno premonitore” e “causa” si possano distinguere SENZA invocare genericamente come principio di autorità il fatto che in molti campi scientifici i ricercatori si servono correntemente della nozione di causa?
Il senso “antropomorfico” (2) si basa sull’ipotesi controfattuale. In quest’accezione:
A è causa di B se e solo se, se A non c’è, allora anche B non c’è, ma se c’è A c’è sempre anche B e viceversa
- Perché parli di “antropomorfismo”?
Perché l’analogia è con l’azione umana dalla quale scaturiscono effetti che l’agente immagina che non sarebbero scaturiti in assenza della sua azione.
- E non potrebbe essere giustificato considerare possibile anche in natura, e non solo nel campo delle azioni umane, questo tipo di relazione tra eventi?
Senz’altro, ma perché considerarla una relazione causale? Si tratterebbe ancora una correlazione tra eventi distinti per “tipo” (al fuoco seguirebbe tipicamente il fumo, che, a sua volta, in ipotesi, non potrebbe che dipendere dal fuoco): si rientra nel caso precedente (causa = segno premonitore) con la sola differenza che in questo caso non è ammesso che B si dia SENZA che sia dia anche A (vigerebbe un’implicazione reciproca).
- D’accordo, ma tu alludevi a un uso più proprio e corretto della nozione di “causa”, riferibile all’agire dei viventi….
Si. Segui il mio ragionamento.
Affinché la nozione di causa possa essere intesa nel senso più proprio, cioè non come mero correlato, ma come ciò che fa sì che qualcos’altro accada, altrimenti quest’altro non sarebbe accaduto, bisogna scendere dal generale al particolare:
a (piccolo) è causa di b, se e solo se, NON SOLO se a si verifica anche b si verifica, mentre se a non si verifica b non si verifica, MA ANCHE è assolutamente possibile che a non si verifichi
Ad es. se questo determinato fuoco non fosse stato acceso non ne sarebbe seguito questo determinato fumo (e, viceversa, questo determinato fumo non sarebbe stato possibile se prima non fosse stato acceso questo determinato fuoco). Ma bisogna anche che sia del tutto possibile che il determinato fuoco non sia stato acceso.
- Perché questa ulteriore condizione?
Perché se il fuoco fosse stato necessariamente acceso (essendo a sua volta determinato da altre cause antecedenti, a loro volta determinate da altre cause e così via all’infinito) – e il fumo ne fosse altrettanto necessariamente scaturito -, non sarebbe davvero possibile il controfattuale (cioè che il fuoco NON fosse stato acceso) e dunque la causalità sarebbe solo apparente (assisteremmo a una mera sequenza di eventi, tale per cui l’antecedente non avrebbe funzione diversa da quella di segno premonitore, come nei casi precedenti).
- E sia. Ma perché invochi l’agire di un vivente considerandolo la sola vera possibile causa di un evento?
Per la seguente ragione.
Quando assistiamo a eventi a cui non partecipiamo, non possiamo in alcun modo sapere se sarebbe stato possibile che non si verificassero.
Invece, se siamo noi stessi ad agire, “sentiamo” che avremmo anche potuto non farlo (a prescindere che tale nostra sensazione corrisponda a qualcosa di vero o di falso).
- Già, ma, appunto, nulla assicura che questo nostro “sentire” sia fondato!
Corretto. Tuttavia, la mia tesi è che
la sola condizione alla quale è possibile parlare di cause come qualcosa di distinto dai semplici segni premonitori è che esse consistano in azioni compiute da agenti (compreso eventualmente un Dio creatore dell’universo) che avrebbero sempre anche potuto agire diversamente, a prescindere dal fatto che questi agenti esistano veramente o che sia solo illusorio credere che essi esistano e che ciascuno di noi sia uno di essi.
È questa la ragione per la quale, se per cause meccaniche intendiamo cause “cieche”, non corrispondenti ad azioni di soggetti agenti liberi, sulla base di quanto precede non possiamo considerarle vere cause (se non nel senso debole di cause indistinguibili da “segni premonitori”).
Se, viceversa, consideriamo cause solo le azioni di agenti che avrebbero anche potuto non agire in quel modo, è possibile suggerire che esse siano intanto cause efficienti in quanto anche sono finali (si spiega perché l’agente abbia agito in quel determinato modo piuttosto che in un altro, nel quale avrebbe comunque potuto agire, verosimilmente sulla base di ciò che l’agente stesso intende perseguire, del suo fine).
Si tratta del significato originario (aristotelico) di causa, che nella modernità è stato “dimidiato” e ridotto, fino al punto da dissolversi (Hume et Cassirer auctoribus) perché giustamente considerato troppo “metafisico”.
Certo, possiamo convenire di chiamare cause qualunque cosa vogliamo, tuttavia queste convenzioni “lessicali” non sono innocenti, perché surrettiziamente cercano di suggerire qualcosa, p.e. “la chiusura causale del mondo fisico”, cara al fisicalismo, che è tutt’altro che dimostrata e si rivela, a sua volta, un assunto “metafisico”.