Per un monismo neutrale e una fenomenologia naturalizzata

 cerebrum

Non dobbiamo rimanere prigionieri di paradigmi obsoleti, come il fisicalismo e l’idealismo e la stessa fenomenologia “trascendentale”, di ascendenza in ultima analisi kantiana.

Quanto proposto in queste pagine potrebbe venire esposto a partire da un altro angolo visuale, quello di una fenomenologia naturalizzata (sull’onda del testo del 1982 di Francisco Varela et. al., Naturalizing Phenomenology. Issues in contemporary Phenomenology and cognitive science, su cui cfr. questa  sintesi di uno dei coautori del volume), consistente nell’abbinare certi stati di fatto a certi stati cerebrali posti sullo stesso piano degli stati di fatto osservati.

N. B. Abbinare l’osservato all’osservatore, considerando quest’ultimo parte dell’osservabile, di ciò che egli stesso può osservare, consente di demistificare la presunta centralità “trascendentale” dell’homo sapiens.

  • Spiegati meglio.

Partiamo da un esempio tratto dalla fisica: i corpi celesti oscuri possono venire illuminati da luce non propria, come la Luna dal Sole, cosicché, se c’è un corpo celeste che non brilla di luce propria, ma è tuttavia luminoso, ci deve essere necessariamente “in giro” qualche altro corpo celeste luminoso che lo illumina.

Analogamente, potremmo osservare quanto segue: un insieme di osservazioni di corpi celesti (ma lo stesso vale per i fenomeni microscopici), collocati all’interno di una griglia spaziotemporale, è sempre contestuale a una serie di eventi “neurali” in un homo sapiens, come il raggiungimento di una certa soglia nello scambio di informazioni (secondo il modello di Tononi), l’attivazione di certe aree della neocorteccia e l’emissione di onde alfa e beta etc. (con riferimento a chi compie queste osservazioni).

In generale: se c’è un universo osservabile, contraddistinto da certe leggi fisiche, ci deve essere “in giro” qualche cervello di sapiens in un certo stato.

  • E dov’è la novità rispetto a quello che tu proponi su questo sito?

In questo modo di vedere la coscienza non “esiste” come entità separata, di cui ci si chieda l’origine (sollevando il c.d. hard problem della coscienza) e che sarebbe propria di alcuni viventi privilegiati. Semplicemente, l’esserci di qualcosa (p.e. un’eclisse di Sole) con certe proprietà (quelle rilevanti per gli homo sapiens) è correlato all’esserci di almeno un esemplare di sapiens in stato di veglia.

Si può  anche rendere concreto questo approccio suggerendo che l’astronomo che osserva p.e. il transito di Mercurio davanti al Sole attraverso un telescopio possa anche osservare simultaneamente un monitor in cui appaiono colorarsi grazie a tecniche di neuro-imaging certe aree del suo stesso cervello, opportunamente collegato a elettrodi, magari diverse a seconda del momento del transito e dell’emozione provata. Si potrebbe argomentare che nessun transito di corpi celesti e, in generale, nessun evento di nessun tipo possa verificarsi senza che qualcuno si trovi in un certo stato cerebrale.

Si può poi perfezionare l’argomentazione osservando che, data una certa osservazione p.e. del cosmo, lo stato cerebrale correlato debba essere topograficamente molto vicino al punto di vista o prospettiva dalla quale l’osservazione è effettuata. Non basta, cioè, che ci siano “in giro” sapiens perché si abbia un’osservazione con certe caratteristiche (in termini di qualità c.d. soggettive e oggettive, colori e volumi), ma ogni particolare osservazione implica che il sapiens in un certo stato cerebrale si trovi in un certo determinato rapporto con l’osservazione medesima.

  • Questa tua visione mi pare ridursi alla seguente tautologia:
Un'osservazione dell'esistente (di una parte di esso, da un certo punto di vista, rispetto a certi aspetti , etc.) da parte di un senziente si verifica se e solo se si verifica una osservazione dell'esistente da parte di un senziente.

La tua traduzione mette in ombra il mio tentativo di suggerire che non vi sia propriamente nessun (organismo) “senziente”, ma soltanto un “sentito” (mentre possiamo lasciare per il momento sospesa la questione se vi sia qualche “esistente” separato dall’organismo vivente che, pur non essendo propriamente senziente,  permette, tuttavia, in virtù del proprio stato cerebrale, che qualcosa venga sentito).

La mia ipotesi è traducibile meglio in questa forma:

Qualcosa appare = è osservato/percepito/sentito = "si" osserva/percepisce/sente se e solo se IN ciò che appare (è osservato etc.) è "presente", anche nascondendovisi, e può essere sempre fatto apparire, perché vi è implicito, ciò che a sua volta appare come un organismo in un certo stato.

Da notare è quanto segue:

  1. l’organismo non è il “senziente”, ma solo un ingrediente necessario di una scena che, se proprio vogliamo assegnarle una soggetto  “senziente”, è percepita solo da Dio o dall’Uno o dal Tutto che “noi” stessi siamo (ma ciò va oltre il dato fenomenologico, meglio espresso da un verbo collocato nella forma passiva o impersonale)
  2. lo “stato” in cui si deve trovare l’organismo è appunto uno stato , cioè non un “punto” all’interno dell’organismo (i tentativi di identificare precisi NCC – correlati neurali della coscienza – sono falliti, nel senso che non c’è un “punto” del cervello, sorta di homunculus, in cui si manifesti la coscienza, a cui tutte le ramificazioni neurali che partono dai sensi conducano; il cervello assomiglia molto di più a un amplificatore o a una cassa di risonanza degli impulsi che già sorgono nel sistema nervoso periferico); questo stato potrebbe richiedere, per prodursi, il contributo del sistema nervoso centrale e periferico dell’organismo, dell’intero corpo dell’organismo e perfino dell’ambiente naturale in cui l’organismo è immerso (vedi punto seguente)
  3. in ultima analisi lo stato in questione non è che la punta dell’iceberg di uno stato complessivo che comprende l’organismo nel rapporto con il suo ambiente, un ambiente che potrebbe sconfinare con le galassie più remote (ad esempio potrebbero avere un ruolo i campi magnetico e gravitazionale, cfr. il principio di Mach); si tratta dunque di uno stato del sistema, uno stato dell’osservato che lo rende osservabile
  4. la richiesta che vi sia (anche nascosto) questo organismo in questo stato di veglia non è diversa dalla richiesta, affinché il Sole possa brillare, che esso sia sferico o abbia una certa massa gravitazionale (non è una richiesta “trascendentale”, che ci trasferisce dall’ambito degli oggetti del sapere scientifico a una ambito filosofico di “condizioni di possibilità” di questo sapere: è una richiesta “naturalistica” posta sullo stesso piano delle altre richieste naturalistiche, come, nell’esempio iniziale, che un corpo celeste che non brilla di luce propria sia illuminato da un altro corpo celeste se deve brillare)

Il mio tentativo, insomma, è quello di viaggiare su un terreno “neutro” (come neutro vuole essere il mio più complessivo monismo), tra la Scilla del fisicalismo e la Cariddi dell’idealismo.

  • Come eviteresti di cadere in questi due estremi?

Il fisicalismo presume che la “scena” sarebbe pressoché identica anche in assenza dell’organismo (se l’animale venisse ucciso o anche solo si addormentasse).

Ma – osservo – resterebbe ben poco della scena perché le qualità soggettive e oggettive osservate nella scena (il colore – supponiamo – del mare, ma anche la massa complessiva dell’acqua che contiene, il tempo che essa impiega per evaporare etc.) sono tali quando l’organismo è in quello stato di veglia (attenzione: non in quanto “prodotte” dall’organismo, come se esso generasse tali qualità dal suo interno, le “fantasticasse”). La scena non osservata (quella che rimarrebbe anche in assenza dell’organismo, p.e. dell’organismo dello scienziato che la contempla) sarebbe una paradossale scena “metafisica” che eccede l’ambito scientifico (che è ambito di “osservabili”), una scena scientificamente irrilevante (come chiedersi metafisicamente se “esista” qualcosa che non sia osservato).

L‘idealismo suggerisce che una fantomatica coscienza “creerebbe” i propri oggetti; peraltro in modo contraddittoriamente inconscio, come notò Friedrich Schelling separandosi criticamente dal suo maestro Gottlob Fichte, dal momento che non se ne accorgerebbe (per tacere che ci si figura spesso questa coscienza come propria di un “soggetto” creatore dai tratti “umani troppo umani”, una specie di divinizzazione di un individuo umano).

Ma ciò non fa i conti col fatto che ciò a cui si assiste non è dominato dal soggetto a cui si attribuisce idealisticamente la sua creazione/produzione: l’organismo “in scena” è spesso vittima di quanto accade sulla scena, scena che, evidentemente, obbedisce a leggi che egli/esso non controlla.

Sembra, dunque, più “laico” sostenere che appare qualcosa solo a certe determinate condizioni, tra le quali vi è che un certo organismo sia in stato di veglia.

  • Non vedo come tu possa scansare l’idealismo. Se affinché Mercurio possa transitare davanti al Sole si richiede che vi sia qualcuno che osservi questa scena sembra che la realtà scaturisca dal fatto di essere osservata.

La descrizione: “Ci sono Mercurio che transita davanti al Sole & il Tizio che osserva tale transito col telescopio mentre il suo cervello emette radiazioni beta” esprime un’osservazione che può essere di Tizio stesso, ma anche di Caio che “legge” su uno schermo (come potrebbe fare Tizio stesso) il dato relativo alle radiazioni emesse dal cervello di Tizio. Non si tratta, tuttavia, di una “realtà” che risulterebbe totalmente determinata dall’osservazione che ne viene fatta.

  • E perché no?

Diversi organismi. anche semplicemente umani, dunque dotati del medesimo apparato cognitivo-percettivo, potrebbero alternarsi sulla scena, spostandovisi, addormentandovisi, risvegliandovisi, percorrendola in vari stati in lungo e in largo. La scena risulterebbe osservata corrispondentemente in diverse prospettive. Quale sarebbe quella corretta? Quale determinerebbe la “vera” realtà?

Se gli organismi, poi, fossero anche appartenenti a specie viventi diverse, dotate di apparati percettivi-cognitivi diversi, la scena cambierebbe non solo per la prospettiva, ma anche per le qualità soggettive e oggettive che la contraddistinguono. Quale sarebbe la vera realtà?

Un canguro o un extraterrestre descriverebbe la stessa scena in modo molto diverso.

Da un punto di vista “alieno” potrebbe essere che ciò che ci appare esterno a noi sia interno e viceversa (il nostro cervello un enorme caverna all’interno della quale ruotano mondi…).

La mia ipotesi è che lo stesso evento possa apparire in molti modi diversi a seconda della prospettiva (può dare luogo a molti fenomeni diversi). Lo stesso evento può apparire come una stringa in un sistema a 11 dimensioni, come una particella etc.

N. B. Tutto questo non è scientificamente rilevante, perché inosservabile, ma lo è filosoficamente.

Ciò che appare, appare come appare in relazione all’apparato percettivo-cognitivo dell’organismo che rende possibile l’apparire, ma non ha nulla di oggettivo o di assoluto.

Nondimeno si ritiene con buone ragioni (filosofiche) che, nonostante tutte queste diverse “prospettive” in senso lato (comprendenti anche variazioni del contenuto percettivo), rimanga qualcosa di relativamente stabile nell’osservato (ad esempio le proprietà di un cubo a prescindere dalle infinite prospettive dalle quali può essere visto o l’intervallo spaziotemporale a prescindere dai diversi sistemi di riferimento adottati in relatività generale). Ecco perché l’idealismo va rigettato.

  • Ma ciò suggerisce che “là fuori” ci sia qualcosa di stabile e di indipendente dai diversi modi in cui esso appare a seconda degli organismi “presso cui” appare. Non è questo un assist al fisicalismo, dal quale volevi tenerti lontano?

La mia ipotesi è che l’esistenza di qualcosa di stabile sia senz’altro plausibile, ma che questo qualcosa di stabile sia, in se stesso o sub specie aeternitatis, più simile a una riga di codice (come suggerisce la teoria del fisico Stephen Wolfram) a-temporale e a-spaziale che a un corpo tridimensionale collocato in un certo spazio e in un certo tempo (come lo pensa il fisicalismo). Ciò consegue dall’ipotesi che spazio e tempo siano dipendenti dal rapporto tra gli organismi e il loro ambiente, cioè derivino dall’interazione tra il sistema percettivo-cognitivo degli organismi e ciò che sembra circondarli.

  • Perché dici “che sembra circondarli”?

Perché si tratta pur sempre di un’apparenza che dipende dall’illusione spaziale. L’organismo stesso appare in un certo modo (dotato p.e. un sistema nervoso centrale e periferico strutturato in un certo modo) solo come “fenomeno”, all’interno della scena che implica, come detto, l’organismo medesimo. Non sappiamo come sia veramente “scritto” (codificato, per essere riconosciuto da se stesso o da altro organismo) questo sistema nervoso, l’organismo che lo contiene e l’ambiente sconfinato che contiene entrambi (cfr. al riguardo l’approccio di Donald Hoffman).

Abbiamo, dunque, tratteggiato finora  una sorta di “istantanea”, una specie di “sezione” dell’evoluzione dell’universo che “vede” abbinati una certa immagine dell’universo stesso e un  organismo contenuto nell’immagine stessa con un certo stato cerebrale (organismo che deve sempre essere presente da qualche parte, anche in forma implicita, nelle immagini di universo di un certo tipo, quasi come la loro “firma” in calce).

Resta da chiedersi come le immagini si succedano l’una all’altra (come la fotografia diventi un film) o, se si vuole, come le “righe di codice” si succedano (sulla base di quale programma?).

Ora, secondo un’ipotesi la successione delle istantanee seguirebbe ferree leggi logico-matematiche (o informazionali) e non potrebbe essere diversa da quella che è. Questo è  ciò che suppone il determinista.

Se così fosse, tuttavia, il tempo non avrebbe ragione di “scorrere”. Passato, presente e futuro sarebbero la proiezione di un’equazione estremamente complessa collocata fuori del tempo. Che il tempo sia del tutto illusorio è del resto quanto emerge dalle considerazioni di Einstein e Rovelli tratte rispettivamente dalla “matematica” della relatività e della meccanica quantistica. Non ci sarebbe neppure una ragione per la quale dovremmo distinguere un presente dagli altri due tempi. E neppure una ragione per la quale in questa determinata istantanea dell’universo l’organismo che la firma saremmo tu o io piuttosto che Gengis Khan o altri ancora.

Saltando una serie di passaggi argomentativi in cui finora mi sono impegnato per arrivare alle medesime conclusioni credo che questo nuovo angolo visuale mi permetta di raggiungere prima e meglio il seguente obiettivo argomentativo: per spiegare il “perché” le cose stiano in un certo modo piuttosto che in un altro e perché la loro successione sia questa e non altra non può per costruzione giovare un approccio deterministico (che finirebbe per cancellare proprio quel divenire o quell’evoluzione che dovrebbe spiegare).

Se escludiamo il determinismo, il tempo appare legato alla possibilità della scelta, non tanto perché il tempo permette di scegliere, quanto, quasi all’inverso, perché, affinché si possa scegliere, si richiede che le cose si manifestino progressivamente nel tempo e non tutte insieme (non è dunque tanto l’esistenza del tempo a permettere la scelta, quanto è la possibilità di scegliere che genera il tempo, ossia il “luogo” che rende la scelta praticabile).

  • Hai scritto: “si possa scegliere”. Ma chi sceglie?

Congetturo: sempre il Tutto che in ogni istantanea si identifica con l’organismo che, quell’istantanea, la firma (senza davvero risolversi in tale organismo, che, appunto, è come un Suo pseudonimo, un Suo rappresentante o una Sua ricapitolazione). Il tutto sceglierebbe in ciascun organismo, in cui si identifica, non solo in quelli umani, e, verosimilmente, anche in organismi più vasti dei semplici viventi, come gli ecosistemi o la natura nel suo insieme. Infatti tutto è in movimento, un movimento prevedibile solo statisticamente, non deterministico.

Come argomento più estesamente altrove, sembra che  per rendere conto di ciò che David Bohm chiamava l’olomovimento si richiedano cause finali, forse perfino qualcosa come un intelligent design, forse addirittura l’ìpotesi che siamo i personaggi di un romanzo che noi stessi abbiamo scritto quando eravamo Uno e che potremo rileggere quando saremo tornati Uno.

Il cosmo in evoluzione può venire considerato, in questa prospettiva, come il palcoscenico nel quale recitano maschere (dell’unico regista-sceneggiatore) secondo gli stilemi della commedia dell’arte: ciascuna maschera segue un canovaccio, interagendo con le altre. Se qualcosa va storto, c’è sempre… tempo per recuperare (magari il regista manda sulla scena un deus ex machina per raddrizzare il dramma, a costo che Costui finisca crocifisso…).

Se la prospettiva platonico-aristotelica classica può costituire lo scenario in cui tutto si svolge, prescrivendo le regole di fondo del gioco (cause finali, campi morfogenetici, anime etc.), le religioni storiche e certe prospettive più laiche, simili tuttavia a religioni per la loro mancanza di giustificazione logica e per il loro tratto “storico troppo storico”, come ad esempio l’illuminismo, che ispira le contemporanee dichiarazioni sui diritti umani etc., o il marxismo etc., potrebbero essere quelle “narrazioni” (come va di moda chiamarle oggi) che danno un senso più determinato alle diverse partite che, in contemporanea, si giocano all’interno di questo scenario (o, se preferisci, alle parti che si recitano). Tali narrazioni storiche, infatti, delineano il contesto a partire dal quale ciascuno può leggere la propria storia e dare un senso e un fine determinati alla propria vita (al modo in cui Tutto o l’Uno è cosciente in lui).

Ma queste sono solo congetture, che tentano, tuttavia, di rispondere alla questione chiave del mio modello; che non è “Perché esiste la coscienza?” (lo hard problem come appare in una prospettiva fisicalistica), ma “Perché la coscienza si è incarnata (o è caduta o nata etc.)?”.

Assumere un angolo visuale fenomenologico naturalizzato potrebbe aiutare a rispondere, dando un senso e un orientamento (che può ricordare prospettive esistenzialistico-religiose) alla “mia” presenza contingente, una volta che si è dimostrato  che una qualche “presenza/coscienza” è necessaria, come ho argomentato sulla scia di Parmenide (senza l’esserci qui e ora di qualcosa non vi sarebbero neppure cose assenti, inconsce, possibili, passate e future; l’essere in potenza implica l’essere in atto e non potrebbe mai passare all’atto se già qualcosa non fosse in atto, qualcosa la cui essenza implica l’esistenza, “ón hou ousía enèrgheia“).

 

 

 

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di Giorgio Giacometti