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A mindful universe?

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Il volume di Henry P. Stapp, Mindful Universe: Quantum Mechanics and the Participating Observer, London, Springer 2014 convince e delude insieme.

Se vi si cerca una risposta alla questione degli NCC (i correlati neurali della coscienza), che è l’explanatory gap del mio “sistema”, non si va molto lontano.

 

Supponiamo che quella che chiamiamo “coscienza” non sia altro che la transizione dal possibile al reale (o meglio all’attuale) di un universo che, altrimenti, esiste in sovrapposizione di stati possibili, come ci insegna la meccanica quantistica (MQ) e ci suggerisce una certa versione del principio antropico.
Perché tale transizione richiede, a quanto sembra, un organismo cerebrato di un certo tipo (secondo alcuni non solo un sapiens ma anche un polpo, ma non ad es. un verme o un batterio) in stato di veglia o di sonno non profondo? Perché una “struttura dissipativa” (Prygogine) così complicata perché le “onde di probabilità” quantistiche si “coagulino” in un cosmo ordinato e coerente?

 

La mia intuizione è che la risposta vada ricercata nel fatto che i viventi abbattono l’entropia interna, come se risalissero la corrente del tempo verso l’origine e così, in qualche modo, si prestassero al passaggio da un “disordinato possibile” a un “ordinato reale”.
Ma al di là di queste immagini come concretamente dobbiamo concepire questo passaggio? E perché si richiede presumibilmente un sistema nervoso perché questo sia possibile? E perché uno stato di veglia, contraddistinto da onde beta o gamma? E una neo-corteccia?

 

Insomma cercavo qualcosa che spiegasse perché il collasso della funzione d’onda della MQ, almeno secondo l’interpretazione di Copenhagen (in von Neumann e Wigner ad es.), richiedesse una “coscienza” e perché mai questa a sua volta richiedesse quella complicata struttura cerebrale.

 

Bene, Stapp non risponde assolutamente alla mia domanda che rimane inevasa.

 

Però Stapp, nella sua “ingenuità”, mi ha aiutato a mettere un punto abbastanza definitivo su una questione.

 

In estrema sintesi dal suo libro, molto ripetitivo, molto “classico”, ben poco audace, emerge quanto segue.
  1. La chiusura causale del mondo fisico contraddistingue soltanto il determinismo proprio della fisica classica.
  2. La MQ è una teoria incompleta sotto questo punto di vista.
  3. Il cervello, nelle sue parti “fini” (come le sinapsi, gli assoni ecc.), obbedisce necessariamente alle leggi della MQ e non a quelle della fisica classica.
  4. Non ha dunque senso applicare un modello deterministico-meccanicistico al cervello.
  5. Il libero arbitrio (“free will” o “free choice“), inteso come il fatto che le nostre azioni, in quanto determinate del cervello, non possano essere spiegate deterministicamente sulla base di un certo numero di leggi e di condizioni di partenza, anche se le conoscessimo nel dettaglio, è assolutamente possibile.
  6. A noi sembra di possedere il libero arbitrio, inteso anche come la facoltà di decidere di noi stessi liberamente, p.e. di alzare un braccio senza che tale nostra scelta sia predeterminata e resa inevitabile da qualcosa prima che la decisione sia presa.
  7. Lo sforzo di spiegare questo “libero arbitrio” come puramente apparente e di ricondurlo a catene causali meccaniche è mal riposto: non c’è alcuna necessità di questa riduzione, anzi essa è in linea di principio impossibile.
  8. Tutto lascia credere che l’impressione che abbiamo di essere liberi corrisponda alla realtà: nello stesso modo in cui facciamo della nostra esperienza il criterio per valutare la veridicità di asserzioni che si riferiscono al mondo esterno, non c’è ragione di rifiutare questa esperienza quando si tratta del libero arbitrio.
A me sembra che questo ragionamento sia abbastanza convincente.

 

Purtroppo non ci dice molto della ragione per la quale noi esistiamo (Stapp allude qua e là al principio antropico, ma non sviluppa questo tema).

 

Non ci dice neanche come si forma, nel cervello, altrimenti condannato anch’esso, come ogni altra cosa, a esistere in sovrapposizione di stati possibili, quella “coscienza” che fa collassare la funzione d’onda, riducendo gli stati a uno solo, quello reale.

 

Stapp lega questo collasso al libero arbitrio.
Il processo decisionale è descritto da Stapp facendo riferimento al cosiddetto “effetto Zenone”. In sostanza quando alzo un braccio di fatto decido di far collassare la funzione d’onda “osservando” il mio braccio che inizia ad alzarsi piuttosto che il braccio in sovrapposizione di stati che resta ancora abbassato. Continuando poi a osservare il braccio continuo a far valere quella determinata “scelta”, impedendo al sistema di scivolare verso le altre possibilità. Questa “fissazione” dovuta all’osservazione è paragonata (secondo me in modo un po’ fuorviante) al paradosso della freccia di Zenone (che rimane ferma in ogni istante nello stesso luogo).

 

Questa “interpretazione” quantistica dell’atto deliberato è stata criticata e in effetti mi sembra un po’ forzata e difficile da dimostrare.
“Chi” sarebbe colui che “decide” di alzare il braccio?
E perché lo decide?
Inoltre, posso decidere se alzare o meno un braccio, così come se aprire o meno il box in cui si trova il “gatto di Schroedinger” (di far collassare o meno una certa funzione d’onda), ma non posso decidere se il gatto sia vivo o morto, quando lo osservo.
Chi o che cosa decide quale stato fisico “sopravvive” all’osservazione (e ne viene determinato) e perché?

 

Stapp non si fa scrupolo di rivalutare il dualismo anche se non lo intende proprio come cartesiano.
Ci sarebbe qualcosa (una res cogitans? uno spirito?) che “sceglie” quale stato della “materia” privilegiare approfittando dell’incompletezza della descrizione che la MQ offre del mondo fisico. Ma non ci dice come.

 

Nondimeno la serie di considerazioni che Stapp fa e che ho sopra ricordato sono difficilmente confutabili. Esse aprono uno spazio di manovra per una teoria più completa che “riempia i buchi” sia della MQ sia della stessa teoria di Stapp (egli evoca più volte la teoria filosofica di Whitehead, ma non è chiaro come questa teoria possa aiutarmi ad es. a superare il mio explanatory gap in dettaglio),

 

La teoria più comprensiva dovrebbe rispondere, tra gli altri, ai seguenti quesiti.
Che cosa decide della vita o della morte del gatto di Schroedinger (del modo in cui collassa una funzione d’onda)?
Perché scegliamo una cosa piuttosto che l’altra?
Chi sceglie attraverso il nostro corpo?
Perché, affinché questo processo si verifichi, si richiede un corpo cerebrato di un certo tipo e in un certo stato?

Being you

Beingyou

Il libro di Anil Seth, Being you. A New Science of Consciousness, Faber & Faber, Londra 2021, propone una ficcante teoria della coscienza che sembra piuttosto convincente, anche se, rifiutando esplicitamente di confrontarsi con lo hard problem della coscienza, come lo chiama David Chalmers, (perché essa esista) elude la questione decisiva.

 

In che cosa, dunque, consistono i motivi principali di interesse del volume?

 

Appare “filosoficamente” convincente l’interpretazione di fondo che Seth fornisce della coscienza: si tratterebbe di un sistema che, sulla base di un approccio predittivo “bayesiano”, “allucina” una realtà “funzionale” e non necessariamente simile alla “realtà vera” (lo stesso Seth nell’epilogo richiama la distinzione kantiana tra fenomeno noumeno e allude alla possibilità che lo stesso tessuto tridimensionale dello spazio – purtroppo non parla del tempo, che mi sta molto a cuore, – possa essere un “effetto percettivo”).

 

Entro certi limiti convince anche l’istanza “naturalistica”  (implicita nella rilevanza che Seth assegna a quello che chiama “real problem” della coscienza rispetto allo “hard problem“): bisogna che qualsiasi interpretazione del funzionamento della coscienza sia coerente con i dati empirici: anche se la coscienza, in quanto esperienza soggettiva, non è il cervello, nulla vieta, anzi tutto suggerisce che vi sia una stretta correlazione tra coscienza e cervello (o corpo), tra “interno” ed “esterno”. Quindi è giusto “naturalizzare” il problema e non limitarsi ad assumere una prospettiva esclusivamente “trascendentale”, pura, sul tema (questa non esclude quella: l’analisi fenomenologica, semplicemente, non può essere incongrua con il dato empirico: ad es. non può essere che io percepisca un gatto se il mio cervello manda le onde tipiche del sonno profondo).

 

Va detto che, nonostante Seth sia un neuroscienziato, la sua teoria appare, in ultima analisi, più speculativa che “scientifica”: Seth prende certamente spunto da osservazioni ed esperimenti suoi e di altri, ma ciò che dà senso al volume è una complessiva interpretazione che è certamente autorizzata dai dati empirici, ma non è l’unica possibile.

 

Il limite, come accennato, è che Seth, nonostante la sua “deriva” speculativa, pretende di eludere lo “hard problem“.

 

Afferma di distinguere quello che chiama real problem  (il problema di spiegare “scientificamente” la coscienza) dagli easy problems” , come li chiama ancora Chalmers, che riguarderebbero il “funzionamento” della coscienza.  Eppure, alla fine, anche Seth spiega la coscienza funzionalisticamente (con la sua teoria bayesiana) dando per scontata quella fenomenologia della coscienza, che è invece esattamente quello che contraddistingue la coscienza come coscienza in prima persona e che si trattava di spiegare (cosa che Seth non fa), se si prende sul serio lo hard problem.

 

Seth non riesce in ultima analisi a “giustificare” l’esistenza stessa della coscienza. Perché il suo efficace funzionamento bayesiano non potrebbe essere implementato da un sistema inconscio, come sono, secondo lo stesso Seth, diverse forme di intelligenza artificiale?

L’approccio riduzionistico, in generale, alla natura è utile ma non esclusivo (come lo presenta Seth con fallacia epistemologica). Consideriamo l’approccio riduzionistico alla vita proprio della biologia moderna, che Seth considera paradigmatico. Esso non fa che spostare lo “hard problem”  (che cosa sia e perché esista la vita), non lo dissolve in una nuvola di fumo metafisico, come pensa Seth. Lo stesso si verifica per il problema dell’esistenza della coscienza (lo hard problem di Chalmers, appunto). Se io sono un sistema che si autoregola per sopravvivere che bisogno ho di essere cosciente? Si possono costruire sistemi che si autoregolano in base agli input che ricevono senza che per questo questi siano vivi e coscienti.

 

La stessa giusta distinzione che Seth fa, nell’ultimo capitolo prima dell’epilogo, tra coscienza intelligenza dovrebbe aiutarlo a comprendere (cfr. le pagine in cui intuisce improbabile che una macchina capace di “predictive processing” sia cosciente) che questo “predictive processing“, che secondo lui caratterizza la coscienza, si adatta a rappresentare anche semplicemente un sistema intelligente capace di autoregolazione, ma inconscio.

 

Passiamo ora a rilievi più specifici.

 

La teoria dell’energia libera di Friston sembra molto intrigante: in ultima analisi vi si argomenta che un organismo sarebbe in grado di limitare drasticamente i suoi potenzialmente numerosi gradi di libertà (alta entropia), che lo porterebbe a una rapida decomposizione.
Non è un altro modo di dire che un vivente è governato da un campo morfogenetico o anche che si contraddistingue come sistema autopoietico (teoria di Maturana e Varela che mi sembra molto ficcante)?
La questione è come il vivente riesca in questa sorprendente riduzione che sembra violare il secondo principio della termodinamica.

 

Non deve avere necessariamente una fisica diversa da quella di un sasso, certo. Eppure una fisica, che, globalmente, arriva a tanto, è forse un po’ diversa da quella c.d. meccanicistica a cui si pensa comunemente. Può darsi che vi abbiamo un ruolo principi nuovi, forze sconosciute, cause finali o attrattori strani.

 

Insomma naturalismo e fisicalismo anche sì, ma “very very enlarged“.

 

Seth discute anche l’interessante paradosso del teletrasporto: se una certa Eva entrasse, qui sulla Terra, in una macchina per il teletrasporto che la disintegrasse per poi ricostruirla altrove, p.e. su Marte,  si potrebbe dire che Eva è sempre Eva, la sua coscienza sarebbe la stessa? E, se per un guasto della macchina, la Eva “terrestre” sopravvivesse e venisse comunque riprodotta una seconda Eva, identica alla prima, su Marte, quale delle due sarebbe Eva? (Seth evoca qua e là anche lo “split brain” e l’interessante caso reale dei gemelli siamesi uniti per il cervello).

 

In tutti questi casi, secondo me, si continua a sfuggire al problema. Non basta dire “entrambe le donne sono Eva”.

 

Tu che sei entrata nella macchina, ti ritroverai su Marte o sulla Terra? La mia risposta è: sulla Terra . Su Marte c’è un clone (con la tua memoria). Non può essere l’identità fisica che determina la continuità della coscienza, semmai il contrario. Tutti quelli che entrano in una macchina del teletrasporto muoiono all’istante anche se nessuno se ne accorge (neanche loro se ne accorgerebbero, se la morte fosse un passare nel nulla, ma non perché si ritroverebbero altrove col proprio corpo, ma appunto perché morirebbero: naturalmente nella mia ipotesi di fondo costoro si troverebbero sì altrove, ma senza il loro corpo).

 

Anche la rappresentazione di una coscienza “diffusa” nel polpo, che Seth presenta nell’ultima capitolo, non mi sembra giustificata. Seth può riconoscere che parti del polpo di muovono con grande autonomia e intelligenza (del resto anche il nostro cuore e il nostro sistema immunitario lo fanno). Ma una coscienza che non sia “una” è impensabile. Qualunque cosa fosse, non sarebbe quello che intendiamo per coscienza.

 

Attenzione: non si sostiene che “chiunque” sia cosciente (nessuno in particolare ovvero l’universo stesso) debba concepire se stesso necessariamente come uno e come un corpo. Questa è senz’altro un’allucinazione. Ci si identifica che questo o con quello, ma si è senz’altro altro da quello che si crede di essere e si percepisce di sé (vedi oltre). Tuttavia questo altro non può che avere UNA coscienza se ha coscienza. Non ha senso dire che ne può avere due. Se le ha simultaneamente (ad es. si percepisce sia a Udine sia in Lussemburgo) ha una sola coscienza con due o più percezioni (come ora io vedo più colori). Se ha queste “coscienze” in tempi diversi, ancora ne ha una sola che, semplicemente, si sposta e diviene riempiendosi nel tempo di contenuti diversi.
Seth radica la coscienza nella vita piuttosto che nell’intelligenza. Interessante e sensato. Ma come dimostrarlo?
È una sua congettura.
Molte attività viventi anche nostre e anche molto complesse si svolgono inconsciamente. Forse la funzione della coscienza è legata alla possibilità di provare piacere e dolore per orientarsi nel mondo tra opportunità e pericoli? Ma anche un meccanismo inconscio emulabile da un robot potrebbe farlo….

 

Arriviamo alla questione epistemologicamente cardine, a mio parere.

 

Se tutto è allucinazione controllata, compresi gli oggetti esterni, anche p.e. il sistema limbico o il cervelletto o la neurocorteccia sono allucinazioni, anche il corpo vivente è un’allucinazione che ai nostri occhi e alla nostra mente sembra occupare uno spazio tridimensionale, anche gli stessi spazio e tempo: Seth assegna a loro un ruolo solo perché ha bisogno di credere che esistano come oggetti esterni al fine di sopravvivere (come neuroscienziato piuttosto che come mistico?). È la “mise en abime” che contraddistingue ogni naturalismo radicale (portato alle estreme conseguenze) che finisce per farne un idealismo.

 

A p. 272 Seth sembra applicare la sua teoria della coscienza a se stessa: come la coscienza funziona in quanto predittiva, non “oggettiva”, così anche una teoria sulla coscienza funziona se obbedisce a un’epistemologia bayesiana. Ma è come dire che la sua teoria può tranquillamente essere anche falsa! Insomma non si cade nel paradosso del mentitore?

 

In questa prospettiva “idealistica” si può essere d’accordo con Seth che il sé sia un’allucinazione, non diversamente dagli altri “oggetti”: l’Uno si identifica erroneamente in me e in te.
Ma, se Seth pensa che “chi” sbaglia in queste identificazioni non sia l’Uno, bensì il mio o il tuo o il suo “corpo vivente”, è perché finisce per commettere lo stesso errore che ha smascherato, assegnando a un fantomatico corpo vivente una realtà fondamentale, mentre sulla base dei suoi stessi criteri e risultati bisogna considerarlo un’allucinazione, un costrutto funzionale alla vita di che se lo rappresenta (nella mia ipotesi l’Uno-tutto, chi altri se no?).

 

Come accennato all’inizio, infine, molte teorie di Seth (ad es. che la coscienza sia legata alla vita o sia predittiva) non sono immediatamente ricavate da esperimenti ma sembrano interpretazioni speculative di esperimenti (il che a me va benssimo, lo trovo inevitabile, ma a te?). Con un gioco di parole si potrebbe dire che la teoria della coscienza predittiva non è a sua volta… predittiva (controllabile mediante esperimenti che potrebbero falsificarla). Troppo bayesianesimo, del resto, può dare alla testa, come argomentava Popper!

La coscienza non può essere l’effetto di alcunché

A me sembra che la coscienza possa essere adeguatamente spiegata assumendo il paradigma meccanicistico (che, in “filosofia della mente”, come sai, assume il nome di…