L’universo in se stesso è non locale?

entanglement

Che spazio e tempo siano “illusori” è suggerito, come è noto, anche da talune interpretazioni della meccanica quantistica.

I risultati degli esperimenti (mentali e non) sull’entanglement quantistico, alla luce del teorema della diseguaglianza di Bell (o, se vogliamo, del teorema di Kochen-Specker), possono essere interpretati soltanto facendo “saltare” o il principio di località o il principio di oggettività: il fatto che due o più particelle, separate da spazio e/o da tempo, conservino tra loro un “intreccio” (entanglement), tale che le proprietà di ciascuna e di tutte rimangono interdipendenti e tra loro coerenti, esclusa una comunicazione a distanza con ruolo causale (perché ciò violerebbe il limite della velocità della luce), può essere spiegato

  1. o supponendo che, nell’atto dell’osservazione da parte nostra, di due o più universi in sovrapposizione di stati, “collassando la funzione d’onda”, ne rimanga uno solo (interpretazione di Copenhagen), caratterizzato da coerenza quantistica (tale che le particelle in questione in questo universo conservino proprietà coerenti tra loro e con quelle di uno “stato iniziale” che ci si può anche rappresentare come “retrocausato” dall’osservazione medesima);
  2. o ammettendo che esista un sistema di riferimento (un framework) relativo alle particelle in questione (o, più ampiamente, un “unfolded order”, un ordine implicato, in cui le particelle esistono), al di qua dello spazio e del tempo da noi percepiti (cioè dell’ordine esplicato), in cui esse sarebbero ancora unite o in contatto (teoria di Bohm).

Si può mostrare che le due interpretazioni coincidono, se si riconosce che tutto è (potenzialmente) uno, ma si manifesta come molteplice soltanto se e perché se ne prende coscienza.

  • In che modo?

Come sai, non posso conoscere sia la velocità (o la quantità di moto) sia la posizione di una particella per il principio di indeterminazione di Heisenberg. Se determino l’una mediante un’osservazione per l’altra posso solo avere una distribuzione di probabilità.

Si può tentare di interpretare questo tipo di indeterminazione come se si trattasse di una questione epistemica, cioè legata alla tecnica dell’osservazione: l’atto di osservazione, trattandosi di particelle subatomiche, influirebbe sul comportamento delle particelle, rendendo inevitabile un margine di errore, misurato dalla formula di Heisenberg.

Tuttavia, si può mostrare che tale interpretazione, che fu data originariamente dallo stesso Heisenberg, non regge. Si deve viceversa ammettere, se si vuole salvare il principio di località (cioè il postulato che gli eventi si verificano nello spazio e nel tempo e interagiscono attraverso segnali che non possono superare la velocità della luce) che la realtà microfisica, almeno in certi casi, esiste in sovrapposizione di stati contraddittori (p.e. una particella ha simultaneamente una polarizzazione orizzontale e verticale o uno spin di un tipo e del tipo opposto ecc.) finché non viene osservata. A questo punto assume una certa configurazione, come se l’osservatore stesso l’avesse determinata.  L’indeterminazione, insomma, sarebbe ontologica, non epistemica: riguarderebbe la stessa realtà che sussisterebbe, per così dire, in forma “sfocata”, in assenza di osservazioni.

  • Ho letto, però, che per spiegare il fenomeno dell’entanglement tra particelle separate nello spazio e nel tempo possiamo immaginare che esistano interi “universi” in stati simultanei contraddittori, indipendenti dalla nostra osservazione.

Tu alludi all’interpretazione “a molti mondi” di Hugh Everett III. Ma, se ci rifletti, questi innumerevoli (infiniti?) universi, in sovrapposizione di stati, distesi in uno spazio a più dimensioni e contenenti innumerevoli oggetti  (particelle, stringhe ecc.), sarebbero comunque virtuali in assenza di osservazione. La tua osservazione (chiunque tu sia e a qualunque universo tu appartenga) “costringerebbe”, per così dire, a esistere (a passare dal virtuale al reale) solo quello, tra altri potenziali universi, che fosse coerente con il “pezzo” osservato.

Anche in questa ipotesi, dunque, l’universo dipenderebbe interamente dal fatto di venire osservato. Come ha notato ad es. Erwin Schroedinger, la coscienza è sempre “una sola alla volta“: l’intero universo sarebbe così com’è in funzione di un solo osservatore, anzi di una sola osservazione.

Versioni più recenti dell’interpretazione di Copenhagen vanno nella stessa direzione: non è possibile separare la cosiddetta “realtà” dalla prospettiva di chi la guarda o, il che è lo stesso, il realismo locale è falso.

Secondo la teoria della complementarità degli orizzonti, ad esempio, le “cose” (non solo particelle elementari in sovrapposizione di stati, ma anche oggetti macroscopici) possono essere diverse a seconda dell’orizzonte degli eventi in cui siamo immersi (divergenza che riguarda non solo i dintorni di un buco nero, ma anche, in generale l’universo che appare necessariamente diverso a seconda il punto di vista dal quale lo osserviamo).

La teoria della complementarità degli osservatori  di Raphael Bousso va ancora più a fondo:

Gli esperimenti di ciascuno osservatore ammettono una descrizione coerente, ma una descrizione simultanea di entrambi gli osservatori diventa incoerente. Ne deriva una conclusione affascinante, che denomino complementarità degli osservatori. [...] La complementarità degli osservatori prevede che una descrizione fondamentale della natura debba descrivere solo gli esperimenti coerenti con la causalità. [...] La complementarità degli osservatori implica che debba esserci una teoria per ogni diamante causale [la porzione di spaziotempo che può interagire con ciascun osservatore], ma non necessariamente per le regioni dello spazio non contenute in alcun diamante causale.
[Observers Complementarity Upholds the Equivalence Principle, pp. 1-2]
  • D’accordo. Ma tu hai evocato la teoria di Bohm, che non sembra affatto richiedere questa moltiplicazione di universi virtuali e assegnare una funzione particolare alla coscienza, e questo semplicemente introducendo l’ipotesi della non località. Perché, dunque, se vigesse la non località nel caso di due o più particelle in entanglement non solo tutto sarebbe uno, ma si manifestarebbe come molteplice se se ne prende coscienza?

Come sai, nell’interpretazione di David Bohm il caso delle due particelle sarebbe indice di una verità più generale: tutto sarebbe unito, intrecciato con tutto, “tutto è in tutto“, “pànta en pasin“, come avrebbe detto Anassagora di Clazomene…

  • Per quel che so, nell’interpretazione di Bohm la realtà è già univocamente determinata (vige una forma di determinismo come per la relatività di Einstein e la fisica classica), ma non è locale (Bohm parla di “ordine implicato”). Bohm sarebbe riuscito a “raddrizzare” la meccanica quantistica introducendo le famigerate “variabili nascoste” per rendere conto dei fenomeni osservabili, ma a un prezzo: ammettere che in se stessi i fenomeni (o meglio le “cose” dietro quelli che ci appaiono come fenomeni) sarebbero “non locali”.

Esatto. Per la cosiddetta diseguaglianza di Bell posso raddrizzare in senso deterministico la meccanica quantistica solo facendo saltare il postulato della località.

Ad esempio, se quando osservo una particella nel famoso esperimento EPR (che una volta era solo immaginario, ma che è stato poi effettivamente realizzato da Aspect e altri), anche la particella “sorella” assume certe proprietà in funzione di quella assunte dalla particella osservata, questo misterioso “entanglement” si spiegherebbe non perché (come nell’interpretazione di Copenhagen) la “coscienza” o la “misurazione” o l'”osservazione” determinerebbero quale tra diversi universi possibili in sovrapposizione di stati è quello vero, ma semplicemente perché agendo su una particella simultaneamente agisco anche sull’altra come se le due particelle che mi appaiono molto distanti fossero ancora unite nell'”ordine implicato” (secondo Bohm).

  • D’accordo. Mi sembra, quindi, che, ripristinando il rigido determinismo proprio anche della relatività, Bohm non conceda alcuna funzione alla “coscienza”, come avviene in certe interpretazioni della meccanica quantistica…

Non è esattamente così. Bohm ammette che la sua teoria (e in generale le meccanica quantistica, ma questo vale anche per la relatività) ha un problema: non se ne può derivare l’istante presente (cioè quello dell’osservazione). Cioè non esistono equazioni risolvendo le quali io possa conoscere le coordinate spaziotemporali del qui e ora.

Anche questa ipotesi, dunque, (non solo l’interpretazione di Copenhagen, segnatamente nella rilettura di Wigner) richiede una “presa di coscienza”, senza di cui nessun ordine esplicato (spaziotemporale) sarebbe concepibile.

Ci si può chiedere, infatti, che cosa resterebbe del “mondo” se non se ne fosse più coscienti.

Si potrebbe immaginare che “resti” lo spaziotempo come varietà a molte dimensioni, “immobile”, contenente tutto e contraddistinto da “qualità primarie”.

Ma, come sostiene anche Rovelli, in meccanica quantistica non esiste propriamente il tempo come asse sul quale si possa fissare un presente, distinto da passato e futuro (Bohm stesso ha francamente riconosciuto che la meccanica quantistica, anche nella sua interpretazione, non può “afferrare” presente).

Non esiste neppure lo spazio, come lo conosciamo, considerando la natura “non locale” delle interazioni microfisiche,

In entrambe le interpretazioni, dunque, quella “classica” di Copenhagen e quella di David Bohm, il modo in cui le cose ci appaiono (fenomeno) dipende dal modo in cui si è coscienti di ciò che esiste.

  1. Nell’interpretazione di Copenhagen la coscienza assolverebbe un ruolo causale nella determinazione di una “realtà” altrimenti indeterminata.
  2. Nell’ipotesi dell’ordine implicato (Bohm) spazio e tempo (che apparterrebbero all’ordine esplicato) esisterebbero solo nella misura in cui se ne fosse coscienti qui e ora.

La differenza tra le due interpretazioni della meccanica quantistica si riducono in ultima analisi alla seguente.

Nella classica interpretazione di Copenhagen l’indeterminazione riguarderebbe la realtà prima dell’osservazione e sarebbe l’osservazione (in un qualche “presente”) a determinarla.

Nell’interpretazione di Bohm la realtà sarebbe intrinsecamente determinata, ma non locale. L’indeterminazione (per così dire) riguarderebbe la sua localizzazione (non c’è modo di dimostrare perché qui e ora si localizzi piuttosto che là e altrove), che Bohm chiama “ordine esplicato”.

In ultima analisi in entrambi i modelli c’è qualcosa di indeterminabile che è strettamente connesso all’atto dell’osservazione sperimentale, al presente. Solo che in un caso questa “indeterminazione” è “proiettata” sulla realtà esterna, mentre nell’altro sarebbe riferibile alla stessa osservazione (che, viceversa, nel primo modello sarebbe determinante).

In generale a livello microfisico ciò che si osserva risulta vincolato alla legge della coerenza (nello spazio e nel tempo) di ciò che via via si esplica.

Le proprietà p.e. simmetriche di due particelle in entanglement (non importa se spaziale o temporale) dipendono dal loro essere sempre potenzialmente una cosa sola, anche se esse, qui e ora (un presente che altrimenti non sarebbe tale), appaiono separate, nel modo in cui lo sono, in virtù del fatto che se ne è coscienti.

In entrambe le prospettive ciò che attualmente appare verrebbe ritagliato da qualcosa di “possibile”: nell’ipotesi di Bohm il “possibile” sarebbe un universo inesteso (ordine implicato), ma saturo di informazioni; nella teoria di Copenhagen il “possibile” sarebbe un multiverso costituito da innumerevoli universi in sovrapposizione di stati. Si può mostrare che, di fatto, le due teorie coincidono se intendiamo il multiverso come alcunché di puramente virtuale: in ultima analisi l’ordine implicato è precisamente il sistema che potrebbe dare luogo a ciascuno di tutti questi universi se venisse osservato (se se ne fosse “coscienti”) da un corrispondente punto di vista.

Se “essere in atto”, “esserci”, “esistere” significa essere percepito, ciò che è immaginato, ma inosservabile, propriamente non esiste (esiste soltanto in forma virtuale o possibile, come le traiettorie, mutuamente cancellantesi, delle particelle subatomiche nella teoria dei campi quantistici secondo l’integrale dei cammini di Feynman).

Da tutti i punti di vista, dunque, tutto è uno:

  1. l’universo è uno, ma appare molteplice alla coscienza;
  2. oppure si dànno innumerevoli universi possibili, ma solo uno è reale, quello di cui si è coscienti.

2 pensieri su “L’universo in se stesso è non locale?”

  1. Secondo l’ università della Sapienza di Roma la realta e’ preesistente e non c’entra l’osservatore cosciente, ovvero la luna sta gia li disposta per essere osservata nella sua realta’, come diceva Einstein. Le altre ipotesi sulla formazione della realta’ con la osservazione sono interpretazioni erronee forzate strampalate. A meno che non si ammetta un osservatore massimo, ma li poi si entra in un campo filosofico religioso.

    1. “Secondo l’università La Sapienza di Roma”? Da quando le università hanno un proprio pensiero e da quando questo pensiero è considerato un’autorità indiscussa? Facendo il verso a Galileo Le chiederei di portare argomenti “vostri o di Aristotele” e non nude autorità.

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