Non
si può insegnare la filosofia: (Kant, Riflessioni sull'antropologia) |
L'insegnamento della filosofia non è esente dalla caduta di motivazione che investe più generalmente le discipline scolastiche e dal bisogno di venire ripensato a partire dal vissuto degli allievi, al limite di ciascun singolo discente, e dalla loro effettiva domanda di apprendimento (e, nel caso della filosofia, di senso).
Per di più la filosofia, come disciplina scolastica, soffre forse più
di altre discipline di un certo ritardo nel campo della ricerca epistemologica
e didattica che la riguarda.
Nell'essenziale panoramica delle proposte più significative, in tema
di didattica della filosofia, che di seguito svolgiamo, seguiamo la guida fondamentale,
che ci pare a tutt'oggi insuperata per chiarezza ed esaustività, pubblicata
da Enzo Ruffaldi con la collaborazione di Gaspare Polizzi (Ruffaldi
1999). Segnaliamo anche i siti di approfondimento della didattica della
filosofia a cura dello SWIF
e di Mario Trombino.
Si possono richiamare alcuni risultati, generalmente condivisi, di tale ricerca, in particolare quei risultati che specialmente sembrano invocare un più ampio ricorso, in sede didattica, agli strumenti telematici.
Da tempo si è puntato il dito contro lo studio della filosofia come apprendimento mnemonico delle "opinioni" degli autori, riferite in rigida sequenza cronologica, spesso senza conferire particolare attenzione alle argomentazioni con cui vennero di volta in volta sostenute. Tale studio non solo appare sterile e demotivante, ma - quel che mette conto di rilevare - tradisce l'essenza stessa della filosofia dal punto di vista del suo "metodo" (come disciplina) o, forse ancora meglio, del suo "stile" (come forma di vita).
"Se la filosofia appare arida e astratta è molte volte perché non si è riusciti a trasmettere il senso del suo studio; e questo senso è una domanda che va di continuo rifatta, anzitutto a se stessi. Il che equivale a dire che non si può insegnare sensatamente la storia della filosofia se non si è compresa la filosofia" (Sini 1992, p. 161).
Dalla storia della filosofia come esposizione di dottrine in ordine cronologico (a volte contrapposte l'una all'altra in modo puramente estrinseco, spesso a solo scopo mnemonico) - iuxta la sentenza di Kant posta in epigrafe - si cerca sempre più di passare al filosofare come stile di apprendimento e di discussione dei problemi, come attività (Bianco 1990).
A questo scopo il rapporto con gli autori resta
centrale, ma di questi si recuperano allora i testi, piuttosto
che le sintesi, come modelli di ragionamento, di riflessione,
di discussione di problemi, senza peraltro rinunciare a conferire senso anche
alla loro dimensione storica.
Una prima forma di innovazione dell'insegnamento della filosofia consiste nel passare dalla tradizionale presentazione storica a un'esposizione per problemi.
Secondo il filosofo italiano Dario Antiseri, che ha dato un fondamentale contributo alla diffusione nel nostro Paese dell'epistemologia critica di Popper, "è nostro compito, se ci sta a cuore il nostro essere umani, mantenere viva la tradizione razionale occidentale, la tradizione critica intessuta di problemi rilevanti, di teorie ardite, di critiche severe, e regolata da standard quali la verità delle asserzioni e la validità delle argomentazioni" [Antiseri 1977, p. 9].
In questa direzione andava, per esempio, la proposta di estensione dell'insegnamento
della filosofia nei bienni
superiori e nelle scuole non liceali, elaborata dalla "Commissione
dei Saggi" istituita dal Ministro Berlinguer.
Essa metteva in luce l'opportunità di proporre
Anche se non sono definiti noti i nuclei fondanti dei nuovi curricula di filosofia nel quadro della cd. "riforma Moratti" della scuola superiore è probabile che, soprattutto nei nuovi licei e in quello scientifico (dove la filosofia sarebbe introdotta o conservata, ma per sole due ore settimanali, rispetto alle tre attuali, mantenute solo nel classico), la tradizionale presentazione storico-cronologica dovrà essere abbandonata o, comunque, fortemente corretta a favore di un approccio per problemi (peraltro più coerente con una programmazione di tipo modulare o per unità di apprendimento).
La principale fonte di ispirazione dell'approccio per problemi alla filosofia, come noto, è la filosofia analitica di matrice anglosassone.
Su analoga lunghezza d'onda appare collocarsi l'insegnamento della filosofia in Paesi come la Francia che, come è noto, propone la filosofia solo nella classe terminale dei licei, in forma essenzialmente problematica (non storica, come in Italia), in vista della dissertation conclusiva per il conseguimento del baccalauréat.
Qui, però, la rigidità del modello "anglosassone" è temperato dall'ampio ricorso ai testi degli autori e dall'obiettivo di "sviluppare le facoltà di riflessione dei giovani, far acquisire loro la capacità e soprattutto l'abitudine al giudizio personale, fuggendo l'indifferenza e allo stesso tempo il dogmatismo, dare sull'insieme dei problemi del pensiero e dell'azione un'apertura mentale che permetta loro di integrarsi pienamente nella società" [A. de Monzie, Istruzioni Ufficiali dell'Ispettore dell'Istruzione pubblica, trad. it. in M. Trombino, "Bollettino della Società Filosofica Italiana", 1996, 158, p. 115].
Sotto il profilo didattico, un'adozione rigorosa di questa strategia dovrebbe implicare i seguenti passaggi.
Si possono notare subito alcuni limiti di questo approccio, in tale versione "pura":
Per ovviare, in parte, alla rigidità dell'approccio "per problemi" puro, si può pensare di partire non da problemi già dati o proposti dal docente, ma di attingere al vissuto (ai "bisogni") dei discenti per esplicitarne le domande e gli interessi, senza seguire schemi precostituiti di "risoluzione".
Si tratta del metodo che, adottando una definizione di Franco Bianco , possiamo indicare come zetetico, cioè indagatorio (strettamente imparentato alla maieutica socratica, il metodo filosofico per eccellenza).
È chiaro il forte valore di questo approccio dal punto di vista della motivazione allo studio della filosofia, che è spesso proprio uno degli elementi più carenti.
Il rischio è che l'eccessiva condiscendenza al "vissuto" degli allievi faccia perdere di vista la dimensione del rigore filosofico, la necessità di formare competenze strettamente disciplinari attraverso l'indispensabile approfondimento dei contenuti culturali più importanti.
Valore e funzione dei testi e il recupero della dimensione storica
I rischi dell'"approccio problematico puro" alla filosofia, così come quelli legati all'adozione del "metodo zetetico puro", potrebbero essere evitati qualora i problemi, comunque emersi e sollecitati, siano approfonditi attraverso i testi degli autori, opportunamente selezionati.
Come ha osservato Domenico Massaro, uno dei componenti della Commissione che ha elaborato i cosiddetti "programmi Brocca" di filosofia, "la centralità dei testi dei filosofi, nel laboratorio della pratica didattica quotidiana" consente di evitare la "filastrocca d'opinioni" del tradizionale insegnamento (pseudo)storicistico e insieme i pericoli dell'approccio "puro" per problemi che ha "il grave svantaggio dell'astrazione del problema (l'etica, la logica, la metafisica ecc.) dal contesto storico" .
In che senso i testi sono importanti per un corretto recupero della dimensione storica?
Nel testo è l'autore stesso che, a partire dai propri presupposti, pone il problema filosofico e ne argomenta una possibile soluzione. L'insegnante e il manuale lasciano la parola, dunque, a un "soggetto" più (letteralmente) autorevole, anche se la responsabilità della scelta dell'autore (e del percorso in cui inserirlo) ricade sempre sull'insegnante, eventualmente coadiuvato e/o sollecitato dagli allievi.
Ciò consente di evitare il rischio del "dogmatismo occulto" prodotto dal docente che "ex cathedra" riassuma e presenti, sulla base soltanto dalla propria formazione culturale e metodologica, i problemi da discutere.
La "voce del passato", rappresentata dall'autore, pur generando il problema supplementare (e tutt'altro che irrilevante) che consiste nell'intenderla e nell'interpretarla (problema evidentemente preliminare alla discussione del problema filosofico in sé), costringe tutti i soggetti coinvolti a misurarsi con la dimensione della storicità della problematica filosofica, intesa come questione
La storia, quindi, interviene nella dimensione filosofica non tanto come sequenza cronologicamente ordinatrice di temi e problemi filosofici, quanto come "ambiente" che ne rende possibile l'intelligenza (la comprensione).
Il modello ermeneutico-laboratoriale
(i programmi "Brocca")
Combinando insieme tutti questi approcci si può sviluppare un modello di didattica della filosofia, che sembra quello a tutt'oggi più accreditato e che possiamo qualificare come ermeneutico-laboratoriale.
Non è cosa da poco il fatto che questo modello didattico intersechi una della correnti di filosofia che, almeno in ambito "continentale" (europeo), vanno per la maggiore: l'ermeneutica appunto; non senza una "strizzatina d'occhi" alla vecchia e non tramontata idea gentiliana (ben poco realizzata nella stessa scuola che dalla riforma di Gentile prese il nome) del "laboratorio filosofico".
Questa modalità, apparentemente ibrida, storico-problematica, di proporre oggi la filosofia, che scaturisce dalla combinazione delle varie proposte fin qui riassunte, è del resto suggerita dai cosiddetti "programmi Brocca", risalenti ai primi anni '90, che costituiscono la più cospicua innovazione "istituzionale" nell'insegnamento della filosofia dal dopoguerra a oggi.
Il modello ermeneutico, attivando il circolo interpretativo, che mette in relazione
appare la strategia più consona a restituire significatività allo studio della filosofia.
L'approccio ermeneutico - già sperimentato con successo, ad esempio, da Marchetto con i suoi esercizi di filosofia - , adottato "per centrare l'attenzione sull'attività interpretante come fondatrice della soggettività e dell'oggettività e come ottica della globailità e della complessità" [cfr. Cristina Bonelli, Marisa Cagliati, Ermanno Rosso, Per avviare l'analisi disciplinare: dai nuclei alle competenze, in Bonelli et. al. 2002, p. 61], pur se accanto ad altri, è pure quello adottato (di fatto come prevalente) da uno dei gruppi di ricerca più vivaci nel campo della didattica della filosofia, ossia il gruppo dei docenti che si dedicano alla Ricerca Metodologico Disciplinare, facente capo all'IRRE dell'Emilia Romagna, e che hanno adattato alle peculiarità dell'insegnamento della filosofia le indicazioni della Didattica Breve.
Si noti che la R.M.D., per quanto riguarda la filosofia, pur essendo nata nell'ambito della Didattica Breve (Ciampolini), ha acquisito progressivamente autonomia epistemologica proprio in forza dello specifico stile di ricerca proprio della filosofia, finendo per "riassorbire" gli spunti pił validi delle proposte di innovazione precedenti o coeve, specialmente della didattica testuale.
Tale modello non si limita, peraltro, alla sola didattica della filosofia, ma può essere praticato con successo, più in generale, nella didattica delle discipline storiche, artistiche e letterarie.
Infine, non va trascurato il fatto che, secondo quanto suggeriscono un numero sempre maggiore di autori, come Richard Rorty, l'approccio ermeneutico non è fondamentalmente diverso da quello scientifico, quando esso sia epistemologicamente avvertito, ossia dalla strategia per "congetture e confutazioni" messa in luce, ad esempio, da Raimund Popper [cfr. Rorty 1983, p. 266].
A ben vedere, infatti, lo stile di indagine epistemologico, per congetture e confutazioni, per dirla con Popper, e quello ermeneutico, che consiste nel negoziare a più riprese il senso di un "testo", che può anche essere un "progetto", un'attività ecc., non appaiono così lontani l'uno dall'altro, nonostante le diverse matrici culturali e il diverso lessico con cui tali atteggiamenti si esprimono.
Prendiamo il caso emblematico della traduzione, che costituisce il modello dello stile ermeneutico: chi interpreta un testo comincia formulando un'ipotesi circa il suo senso globale (ipotesi spesso derivante dai proprio pregiudizi,) e via via la corregge se non è congruente con i dati testuali (falsificazione) fino a conseguire una provvisoria "fusione di orizzonti" (Gadamer) tra il proprio orizzonte di senso e quello, presunto, dell'autore (nel caso che l'"altro" non sia un testo, ma un soggetto parlate, si parlerà di "negoziazione" del senso, di "conversazione", di "intesa comunicativa").
In entrambi i modelli si parte da un'ipotesi (che può derivare anche in questo caso da "pregiudizi": Popper, come è noto, parla dei miti o della metafisica come fonti della creatività scientifica) e la si saggia per prova ed errore sul materiale empirico (il "testo", "il libro dell'universo" nell'immagine di Galileo).
Del resto si sa ormai che anche in campo "scientifico" l'oggettività è sì connessa alla verifica, ma questa "non può essere intesa come verifica fattuale, ammesso e non concesso che si possa continuare a parlare di 'fatti' (e non si può). L'oggettività è un processo di riscontro con il 'reale' che passa sempre e comunque attraverso l'interpretazione, la spiegazione/comprensione, la rielaborazione mentale/culturale e che, quindi, reclama verifiche di tipo ormai più sofisticato e più complesso, anche più problematiche: interpretative, appunto, come ha sottolineato il neopragmatismo da Davidson a Rorty e oltre, fino a Nozick" [ Cambi 2004, p. 39].
"La stessa psicologia dello scienziato viene a mutare: non è più il fanatico del laboratorio, il ricercatore ossessionato dai 'fatti', colui che formula ipotesi dopo una procedura di osservazioni il più esaustiva possibile. È piuttosto un intellettuale che lavora con le categorie dell'interpretazione (pregiudizio + ricerca + ipotesi + verifica + nuovo pregiudizio) e che abita lo spazio inquieto della ricerca, appunto" [Cambi 2004, p. 79].
Electronic mentoring: una maieutica per il XXI secolo?
Nel quadro del modello ermeneutico, suggerito dai "Programmi Brocca" e adottato da anni dal responsabile del presente progetto nella propria "normale" attività didattica, ma anche andando al di là di esso, è possibile forse (questa la nostra sfida) tentare di recuperare il senso dell'attività filosofica come esercizio maieutico, realizzando davvero il passaggio, tanto caldeggiato in letteratura, dall'insegnamento della storia della filosofia all'insegnamento a "filosofare".
Il rischio di un'adozione sic et simpliciter di una modalità meramente ermeneutica nel "fare filosofia", esaltando la dimensione della testualità, è, infatti, quello di schiacciare troppo l'attività didattica sui modelli desunti dalle vere e proprie discipline umanistiche (quale non è o non è del tutto la filosofia, checché se ne dica), "scimmiottando", in particolare, lo studio della letteratura.
Non bisogna dimenticare, infatti, che in filosofia il testo non è un oggetto privilegiato di analisi, ma soltanto uno strumento per porre correttamente il problema da discutere (e in questo la filosofia si avvicina ai procedimenti della ricerca scientifica), sia pure a partire dal vissuto degli allievi.
Anche la contestualizzazione storica del dato testuale, come competenza-prerequisito, più che come competenza-obiettivo, assolve una funzione ancillare rispetto al vero scopo, che concerne la comprensione della questione in campo.
Lo stesso riferimento al "vissuto" degli allievi (suggerito da Bianco, che, come abbiamo visto, propone un metodo zetetico) va disambiguato.
Il fatto di muovere dal punto di vista degli allievi ha un fondamentale significato tecnico: si tratta dell'argomentazione ad hominem da cui scaturisce il dialogo socratico, cellula germinale di ogni indagine che si voglia autenticamente filosofica, anche quando essa è occultata da forme non dialogiche d'esposizione (il saggio, il trattato ecc., cfr. Vlastos 1998) .
In altri termini, il fatto di suscitare un problema filosofico a partire dal vissuto degli allievi e di sviscerare i presupposti, le implicazioni, le aporie delle tesi che essi formulano per risolverlo
Si tratta, in parte, della differenza che passa, in ambito accademico, tra la storia della filosofia e la filosofia teoretica.
Da questo punto di vista i fondamentali riferimenti ai contenuti culturali della disciplina assolvono una funzione che può essere descritta come "soccorso" all'elaborazione filosofica attuale del problema .
In questo orizzonte la funzione del docente non può che essere di ordine "maieutico", ancora una volta in senso strettamente socratico.
Non va sottaciuto, infine, il completo cambio di orizzonte che tale mutamento di prospettiva comporta in termini di competenze in uscita degli allievi, di connessioni inter- e multidisciplinari attivate e attivabili, di "obiettivi educativi" perseguibili, facendo svolgere alla filosofia anche la funzione di "meta-disciplina" nei confronti degli altri saperi . Solo a condizione che tale mutamento di prospettiva si verifichi l'insegnamento della filosofia può dirsi propriamente tale (e non limitarsi all'insegnamento della "storia della filosofia").
Si pensi solo alla funzione transdisciplinare o metadisciplinare della filosofia come "metacritica" della scienza, indicata da Franco Cambi:
"Da parte della scienza stessa - riletta epistemologicamente e strumentalmente, come va facendo il pensiero attuale, che ci ha consegnato una visione epistemologica assai complessa dell''impresa scientifica' e una sofisticazione metodologica - ci si è resi consapevoli che il 'fare scienza' implica processi cognitivi anche assai lontani dalla classica metodologia osservativo-sperimentale-matematizzante: processi teorici che attingono anche a forme extrascientifiche [...] Sono i saperi axiologici, esistenziali, antropologici che occupano questo spazio: essi danno vita alla letteratura, all'arte, alla religione, all'etica stessa. Sono saperi [come la filosofia] che 'custodiscono' il senso e l'interrogazione sul senso, che la scienza non sopprime affatto e che svolgono un loro specifico ruolo cognitivo [...] Senso che significa valore e orientamento. Sono saperi che vertono soprattutto sull'uomo (comunque poi lo si definisca) e che ne scandagliano l'avventura nel tempo, facendo affiorare i bisogni pił profondi e costanti, le pił proprie valenze axiologiche: saperi che non dimostrano, ma testimoniano. Saperi la cui logica è, forse, la retorica (che persuade, che coinvolge con ragionamenti ad hominem, che argomenta, come ci ricorda Perelman), ma che svolgono una precisa dialettica nella conoscenza: dialettica di stimolo e critica, di ri-orientamento e di complementarià, di tensione, di rinvio, di oltrepassamento reciproci" [Cambi 2004, pp. 43-44].
Telematica e metodo socratico: un punto di intersezione?
Ora, proprio il ricorso agli strumenti telematici appare la via più efficace, perché più efficiente, di realizzare compiutamente quel cambio di prospettiva nell'insegnamento della filosofia che la ricerca didattica suggerisce, ma che spesso è reso opaco o impedito dalla "forma" o meglio dalla "struttura" degli strumenti tradizionali (il manuale, la stessa antologia).
L'esigenza generale di individualizzazione dell'insegnamento è, se possibile, ancora più viva per la filosofia che per le altre discipline: in essa, infatti, secondo il modello della maieutica socratica, il "sapere" più che impartito dal docente o da fonti comunque esterne, dovrebbe "nascere" dallo stesso soggetto discente, opportunamente sollecitato da domande. È chiaro che per realizzare qualcosa di lontanamente paragonabile a questo modello classico si devono immaginare contesti di apprendimento "uno a uno", docente - allievo, o, in una fase più avanzata, allievo - allievo.
Le soluzioni didattiche generalmente adottate per avvicinarsi a questo modello si possono ricondurre a tecniche, più o meno informali, di cooperative learning o di peer tutoring. Il rischio, in questi casi, è di scambiare la normale discussione di gruppo, guidata o meno che sia, con l'azione "maieutica" come specifica modalità della ricerca filosofica. In realtà l'ambiente-classe, piuttosto dispersivo, rende difficili o troppo complesse (oltre che demotivanti) forme di "controllo del rigore" dell'argomentazione, quali sarebbero necessarie in un corretto "dialogo" di tipo filosofico.
Gli strumenti telematici, se ben scelti e impiegati, grazie alla loro stessa struttura e a certe forme di "controllo ricorsivo" che rendono possibili ed economiche, da un lato sembrano poter limitare il rischio che il "filosofare" si trasformi in un più generico "discutere" di temi o problemi, senza disporre né di un metodo appropriato, né di forti modelli di riferimento; dall'altro lato favoriscono la più ampia libertà di costruzione, da parte di ciascun allievo o di ciascun gruppo di allievi, di percorsi fortemente personalizzati.
Un nuovo tipo di intelligenza?
Un problema aperto resta quello di sapere se gli strumenti telematici, in quanto ambienti di apprendimento, oltre che rendere possibile una sorta di ritorno (parziale) all'originario stile di apprendimento che va sotto il nome di maieutica socratica, come nell'ipotesi che ci guida, introducano, come alcuni ritengono, un modo effettivamente nuovo di pensare e, quindi, di "filosofare", irriducibile alla stessa pratica filosofica classica e tipicamente (postmodernamente) caratterizzato dalla dimensione ipertestuale, reticolare, associativa, iconica ecc .
Si pensi alla nozione di "intelligenza collettiva" adoperata da Levy per indicare questo nuova forma di pensiero o altre analoghe, come "intelligenza connettiva" ecc.
"La rete globale si può interpretare in molti modi: intanto è una struttura materiale di linee telefoniche e di calcolatori [...]. Poi è uno sconfinato repertorio di dati e documenti e un enorme mercato. Almeno in embrione è un autore di tipo nuovo, collettivo o meglio connettivo [...]. La rete è anche un grande ipertesto [...]. Ma oltre tutto ciò la rete è anche una potente metafora della cultura odierna, la quale già da tempo, per effetto dei media di massa, ha assunto una struttura reticolare e frammentaria" [Longo 1998, pp. 5-6].
"Che cos'è un'intelligenza collettiva? È un'intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze" [Levy 1996, p. 34].
A noi sembra che si tratti di un problema più apparente che reale; dal momento che la dimensione "reticolare" e "ipertestuale" appartiene giàà a pieno titolo, si direbbe, alla filosofia di ogni tempo: si pensi solo alla forma letteraria a "scatole cinesi" del "dialogo" platonico o alla struttura concettuale del "sistema" hegeliano (più in generale: alla stessa nozione di sistema filosofico).
In altri termini, se è vero che, come gli stessi sostenitori del "nuovo paradigma" a volte, contraddittoriamente, affermano, la nuova, postmoderna, "forma reticolare" del pensiero, resa possibile dal ricorso alle nuove tecnologie, corrisponderebbe meglio alla struttura profonda della mente umana (in genere si allude, al riguardo, alle costellazioni sinaptiche e al loro derivato artificiale, le reti neurali: "L'intelligenza artificiale ci ha fornito nuove concezioni sulla mente...", Longo 1998, p. 7) , allora è probabile che "da che mondo è mondo", da Stonehenge a Platone, dall'alchimia rinascimentale a Hegel, il "vero" pensiero, in quanto pensiero umano, sia sempre stato "reticolare": i nuovi media non faranno che rendere più "user friendly" e meno esoterico l'uso di questo stile, sincronico e olistico, che, se ha mai avuto qualche "sede" propria, certamente l'ha avuta, appunto, in ogni tempo, nella filosofia.