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Metodologia della ricerca

 

Tra innovazione e ricerca

La ricerca sperimentale

La ricerca-azione

Il docente ricercatore

 

Il progetto e-philosophyha ha costituito la tesi conclusiva del Master Universitario in Innovazione Didattica e Orientamento, offerto negli aa.aa. 2002/2003 e 2003/2004 dall'Università degli Studi di Udine.

In quanto tale il progetto si è svolto in forma di ricerca-azione, diretta a mettere in luce se, quanto e come il ricorso, ampio ma oculato, alle nuove tecnologie telematiche modifichi significativamente la didattica della filosofia e il senso di questa modificazione.

Non si può insegnare la filosofia:
si può insegnare a filosofare

(Kant, Riflessioni sull'antropologia)

 

Più specificamente si è cercato di capire se il ricorso a una forma di blended e-learning¸ centrato sull'uso di tools telematici quali il web forum e il blog, possa favorire, in modo verosimilmente più efficace di altre strategie didattiche, la trasformazione, auspicata in letteratura, dall'insegnare la storia della filosofia all'insegnare a filosofare [cfr. Bianco 1990].

 

Se la modificazione prevista fosse dimostrata, come esito della ricerca, si sarebbe legittimati a dire che almeno un certo tipo di ricorso alle nuove tecnologie nell'insegnamento della filosofia costituisce innovazione didattica.

A tale quesito è stato possibile fornire una provvisoria risposta, solo parzialmente positiva.

 

Come si cercherà di argomentare non pare possibile che la nostra ricerca possa pervenire a risultati definitivi per un insieme di ragioni metodologiche:

 

Tali limiti intrinseci non impediscono, tuttavia, che i risultati della ricerca possano essere significativi all'interno di un paradigma interpretativo di tipo ermeneutico.

Se forme dirette di generalizzazione non paiono possibili, sono tuttavia possibili forme di trasferimento della ricerca, che, mutatis mutandis, hanno per obiettivo quello di corroborare o di non corroborare, di volta in volta, i risultati congetturati dopo la prima esperienza.

 

A questo scopo pare opportuno distinguere almeno tre livelli di progettazione:

 

 

 

 

Dal punto di vista pratico, tuttavia, il secondo livello di progettazione, consistente nell'elaborazione del "progetto tipo", da proporre in altri contesti scolastici, può venire perfezionato solo dopo avere realizzato il primo progetto situato, a titolo di ricerca esplorativa .

Qui rendiamo conto soltanto della metodologia di questo primo step; ossia del solo progetto situato, il quale ha tentato, per la prima volta, "esplorativamente", di verificare la nostra ipotesi di ricerca; rinviando ad altro momento e/o all'intelligenza del lettore l'eventuale delineazione del progetto tipo da trasferire in altri contesti.

 

 

Tra innovazione e ricerca

 

Innovazione e ricerca

 

Senza dubbio l'innovazione, in generale, differisce, per esempio, dalla mera invenzione di qualcosa per la sua capacità di sedimentare o di attecchire in un determinato contesto di attività modificandolo, in linea di principio, in via permanente.

All'interno della disciplina economica nella quale la nozione di "innovazione" è sorta (p.e. come innovazione tecnologica capace di abbattere i costi di produzione di un determinato bene), l'innovazione si distingue dalla mera invenzione proprio per essere quella "messa in opera" su larga scala di strategie e tecniche nuove oggettivamente e universalmente più convenienti dei procedimenti precedentemente adottati [Cfr. Lipsey 1973, pp. 387 ss.].

Nel campo didattico, quindi, trattandosi di un'azione i cui risultati devono essere il più possibile ampiamente condivisi nelle loro ricadute in termini di modificazione di stili di insegnamento inveterati, non sembra di poter immaginare l'innovazione fuori da un campo di ricerca, sia pure di una ricerca strettamente legata alla progettualità situata.

Nella misura in cui la ricerca può assumere veste sperimentale - ma, come vedremo, si tratta di questione controversa - si può dire con Gattullo che "l'innovazione costituisce la materia reale della sperimentazione, così come la sperimentazione è la forma autentica dell'innovazione. Parafrasando Kant, si può aggiungere che l'innovazione senza sperimentazione è cieca, così come la sperimentazione senza innovazione è vuota" [Gattullo 1986, pp. 66-7].

Come è noto, a partire dagli anni '70, il termine "sperimentale", riferito a corsi e percorsi didattici, è stato oggetto, anche da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, di un uso eccessivo e improprio, "eulogistico" (facendone sinonimo a volta a volta di "provvisorio", "improvvisato", "fuori ordinamento") che ha finito coll'"inflazionarlo" rendendolo quasi inutilizzabile (cfr. Becchi e Vertecchi 1986, pp. 16 ss). In senso stretto si dovrebbe riferire il termine "sperimentale" alle attività di ricerca didattica che presentano un disegno sperimentale, dunque, nella misura del possibile, dai risultati "oggettivi e replicabili"; in senso più lato (quello a cui ci concediamo di adoperarlo, a volte, in questa sede) ad attività di ricerca in generale, anche quelle che, come la ricerca-azione, ci appaiono più adatte al contesto didattico di quanto non sia ricerca sperimentale in senso stretto. In entrambi i casi, riferendosi ad attività di ricerca, si tratta, comunque, di un uso più proprio e ristretto del termine "sperimentale" di quello ormai invalso e corrente.

La ricerca didattica, infatti, sperimentale e non, per la sua capacità di generare risultati almeno tendenzialmente universali, appare la sede propria della "divulgazione" o, per meglio dire, diffusione, la più ampia possibile, degli autonomi processi innovativi del mondo della scuola.

 

Certamente, si può concepire l'innovazione in senso più debole.

"Innovare è modificare l'esistente, trascendere ciò che è decaduto, progettare qualcosa di diverso e di più avanzato. Il che è proprio della pratica e degli intenti di ognuno di noi che vive nella scuola in modo consapevole" [Becchi e Vertecchi 1986, p. 26].

L'innovazione, in quest'accezione debole, si distingue dal sapere sull'innovazione: "È anche plausibile, se non addirittura essenziale, che si sappia, una volta scelta la realtà da modificare e gli scopo a cui tendere e la via da seguire, l'incidenza dell'innovazione rispetto a ciò che non si modifica, i costi che tale innovazione comporta, i vantaggi che produce, se non si vuole arrestarsi a progettualità di sola fantasia. Tutto questo va fatto per vie di controlli comparativi, attraverso confronti tra situazioni compresenti e fra prima e dopo, mettendo a punto disegni di tali comparazioni che siano flessibili e pertinenti alla realtà su cui si opera" [Ivi, pp. 27-28].

Tuttavia, anche in questa prospettiva, nella quale la ricerca-sperimentazione, a ben vedere, sarebbe a rigore solo ciò che permette di verificare che di effettiva innovazione si sia trattato, e non già di un'invenzione velleitaria, tale "vera" innovazione, in ogni caso, sembra "emergere" solo se la si sottopone a procedure sperimentali di verifica, dunque solo nel quadro di una ricerca.

 

 

La ricerca

 

La ricerca dovrebbe fare parte della professionalità docente, nell'ambito di una scuola investita dai processi dell'autonomia.

La scuola, sulla base del DPR 275/99, possiede "autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo".

Si tratta di tenere assieme "ricerca, formazione, innovazione, integrabili con 'ambienti formativi' elettivi rappresentati dalle associazioni professionali, da porre in relazione con la ricerca accademica e specialistica" [Gian Carlo Sacchi in Bonelli et al. 2002, p. 51].

Lo stretto legame della ricerca svolta a scuola con quella universitaria è implicita se si pensa all'attenzione per la formazione universitaria degli insegnanti - cfr. la legge 19.11.1990, n. 341, istitutiva del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria e della SSIS - in un contesto in cui l'Università si sforza di assumere un ruolo diverso, rispetto al modello gentiliano: non più solo fucina del sapere, ma anche del saper fare.

 

Tuttavia, in vista della trasformazione della scuola in comunità anche di ricerca, esiste un ostacolo di fondo:

"A differenza di quanto accade per altre attività professionali, l'insegnamento è forse quello più lontano dalla ricerca di settore, quello in cui è più netta la divisione del lavoro con l'ambito della ricerca, in particolare per quanto concerne la generazione di nuove conoscenze.

La formazione e l'aggiornamento dei docenti vengono infatti concepiti esclusivamente in termini di 'competenze da acquisire'; ciò, molto spesso, significa mero apprendimento di espedienti, ricette, procedure tramandate dalla cultura scolastica oppure applicazione pedissequa di conoscenze ricavate, dopo un laborioso filtraggio, da quanto acquisito in sede di ricerca, ambito nel quale i docenti svolgono un ruolo quasi sempre marginale" [Bottani 1994, p. 20].

Reagire a questo stato di cose significa, quindi, non solo applicare nel proprio lavoro tecniche e strategie che permettano di farne l'applicazione di una ricerca progettata altrove, per esempio in ambito universitario, ma, da parte dei docenti, diventare protagonisti in prima persona di progetti di ricerca.

A questo scopo il docente non può che:

 

 

Paradigmi di ricerca

 

I paradigmi principali della ricerca didattica sono i seguenti.

Si è ripresa con qualche variazione la classificazione di Baldacci 2001, cfr. p. 18.

Un breve confronto tra i paradigmi estremi (ricerca sperimentale e ricerca-azione) può essere utile per mettere a fuoco quello più adatto a "validare" l'innovazione didattica, sia in generale, sia, in particolare, nel campo dell'insegnamento della filosofia.

 

 

 

La ricerca sperimentale

 

La ricerca sperimentale sembrerebbe, di primo acchito, quella che offre le maggiori garanzie di scientificità .

Oltre al testo di Baldacci, si vedano anche Gattullo 1986 e Calonghi 1986.

Come è noto, prendendo in considerazione, per comodità, il disegno sperimentale più semplice, quello a due gruppi, si tratta di confrontare i risultati del lavoro con due gruppi di allievi, idealmente selezionati secondo rigorosi criteri statistici (campionamento casuale) - il gruppo sperimentale vero e proprio, con cui si lavora col metodo innovativo che si vuole testare, e il gruppo di controllo, con cui si lavora con metodi tradizionali - procedendo all'analisi e alla comparazione dei dati del test iniziale e di quello finale, somministrati sia all'uno che all'altro gruppo.

Sotto il profilo epistemologico questa tecnica parrebbe la più convincente, in quanto dovrebbe permettere di verificare empiricamente l'ipotesi che il metodo didattico da "testare" possa costituire effettiva innovazione.

Se, infatti, si registra un consistente scarto, in positivo, tra i risultati del gruppo sperimentale e quelli del gruppo di controllo, a condizione che i gruppi siano formati secondo rigorosi criteri statistici e non si siano verificati eventi perturbatori, la valutazione dell'efficacia del metodo testato dovrebbe poter essere generalizzata.

 

A ciò si oppongono tuttavia una serie di considerazioni, di ordine sia empirico sia teorico.

 

Per quanto riguarda gli ostacoli empirici si possono fare in primo luogo le seguenti osservazioni.

 

A quest'ordine di problemi è possibile tentare di ovviare rinunciando a un disegno sperimentale puro

 

Appare evidente, tuttavia, che in tal modo la ricerca non potrà più pretendere un'immediata generalizzazione dei propri risultati, ma dovrà accettare di pervenire a conclusioni provvisorie, soggette a discussione e interpretazione; avvicinandosi, quindi, implicitamente, al paradigma di ricerca di tipo ermeneutico-conversazionale di cui fa parte, come vedremo, la ricerca-azione.

Nel disegno a gruppo unico a due fasi, ad esempio, "i fattori ordinario e sperimentale agiscono in due periodi diversi dell'anno scolastico e della vita degli alunni e certe variabili (quali la stagione, i tempi di studio, il tono psichico degli allievi, i rapporti validi o negativi tra insegnante e alunni e degli alunni tra loro) non sono costanti". Inoltre "il fattore sperimentale interviene dopo un certo periodo di scolarità, durante il quale, anche se un programma è stato assimilato parzialmente, ha pur sempre prodotto un aumento rispetto allo stato iniziale ecc." [Gattullo 1986, p. 80].

In casi simili, piuttosto frequenti, è necessario considerare e discutere tutti i possibili fattori di "perturbazione" della sperimentazione per poterne "leggere" i risultati in modo convincente.

In generale è del tutto evidente, anche senza evocare il falsificazionismo metodologico di Popper, che, nel caso che manchi un gruppo di controllo o che, comunque, i risultati dei due gruppi non siano commensurabili, il fatto che gli esiti del gruppo sperimentale siano compatibili con l'ipotesi non dimostra affatto che l'ipotesi (per esempio che il ricorso a una certa tecnologia favorisca gli apprendimenti) sia valida: infatti un'altra ipotesi (per esempio che la motivazione indotta dal partecipare a un'esperienza di sperimentazione, quale che sia, stimoli certi risultati) potrebbe altrettanto bene spiegare gli effetti registrati.

 

Per quanto riguarda gli ostacoli teorici un particolare problema nasce dall'adozione di criteri di misurazione dei risultati di tipo quantitativo.

Infatti, per un verso è necessario che il confronto tra i risultati dei due gruppi sia condotto con tecniche di tipo quantitativo, per garantire l'oggettività della valutazione e una misura statisticamente significativa dell'eventuale scarto tra gli esiti del gruppo sperimentale e quelli del gruppo di controllo.

Tuttavia, quasi sempre le misure di tipo quantitativo nascondono o coprono procedimenti qualitativi, essenzialmente di tipo interpretativo, sia nella definizione delle variabili o categorie (i termini che figurano, per esempio, in una scala nominale non sono numeri e la loro scelta, operata secondo un certo criterio piuttosto un altro, potrebbe implicare una distorsione nella valutazione finale dei risultati), sia, soprattutto, nell'attribuzione di un valore alle variabili.

 

Altri problemi, apparentemente empirici, ma che costituiscono la spia di un limite di tipo teorico, si riferiscono al controllo delle variabili in gioco.

Dal momento che un trattamento innovativo differisce sotto diversi aspetti da un trattamento "tradizionale", anche nel caso di "successo" è difficile isolare il fattore effettivamente innovativo nel trattamento per una serie di ragioni:

Risolvere quest'ordine di problemi, legati al controllo delle variabili in gioco, appare assai delicato dal punto di vista epistemologico.

A questo scopo si possono introdurre raffinate strategie di controllo delle ipotesi e di inferenza statistica, quali i test diretti a verificare la significatività dei risultati e quelli relativi alla rilevanza dell'effetto [su questi aspetti cfr. Baldacci 2001, pp. 113-137]. Tuttavia ci si imbatte in un problema di fondo: "in ambito indeterministico", quale quello in cui si opera quando si ha a che fare con fenomeni imprevedibili, legati alla soggettività degli attori coinvolti e alla mutevolezza e irriducibilità dei contesti, "non esiste alcuna soglia di confutazione o di suffragio necessaria, che porti a conclusioni logicamente certe. Perciò, sembra che, a rigore, si possa parlare soltanto di grado di corroborazione di un'ipotesi pedagogica " [Baldacci 2001, p. 78].

"Nella ricerca educativa sul campo, nelle situazioni formative, la complessità delle variabili in gioco è tale da rendere la clausola ceteris paribus [che garantisce la confrontabilità delle esperienze] assai più simile a un assunto convenzionale, a una condizione ideale, che a una condizione effettivamente rispettata" [Baldacci 2001, p. 172].

Ciò implica che "in presenza di esiti discrepanti rispetto a quelli attesi, non si può considerare 'automaticamente' confutata la validità dell'ipotesi" [Baldacci 2001, p. 173] (e viceversa).

 

Ma se tutto questo è vero, allora ne consegue che nella valutazione dei risultati di una ricerca didattica, comunque condotta, il momento dell'interpretazione e della discussione (il momento ermeneutico-conversazionale), chiamato a mettere a fuoco l'"intorno" imponderabile e irriducibile dell'azione educativa e il significato da attribuire agli stessi risultati "oggettivamente" emersi, risulta comunque determinante rispetto a quello "tecnico" della verifica dell'ipotesi, per quanto raffinate siano le misurazioni di tipo quantitativo che si siano volute mettere in campo.

Da questo punto di vista può essere considerato sintomatico il fatto che un autore come Baldacci, che, assumendo come paradigma filosofico di riferimento il problematicismo, appare senz'altro interessato alla validazione razionale e scientifica delle ipotesi pedagogiche, quando introduce strategie ispirate al "falsificazionismo sofisiticato" di Lakatos per ovviare a tutti i gravi problemi di ordine epistemologico che sorgono per quanto riguarda tale validazione, lo faccia non tanto in riferimento alla ricerca sperimentale, quanto proprio alla ricerca-azione; mostrando, quindi, implicitamente, di privilegiare, come modello di ricerca, quest'ultima e le sue modalità tipicamente ermeneutiche [Cfr. Baldacci 2001, pp. 162-184].

Altrettanto significativa può essere considerata la franca ammissione dei curatori di un celebre volume sulla sperimentazione educativa, non sospettabili di simpatie irrazionalistiche: "Appare anche messo sempre più in discussione il primato dalla categoria della quantità: momenti di esplorazione e di rilevazione dei dati sono eseguiti al di fuori di impianti metrologici e forme di 'contro-validazione' qualitativa dei procedimenti quantitativi sono viste come necessarie" [Becchi e Vertecchi 1986, p. 32].

 

Per una rapida ricognizione delle principali critiche alla ricerca cosiddetta "quantitativa" può essere interessante leggere anche Silverman 2002, pp. 44-47:

"1. La ricerca quantitativa equivale a un 'mordi e fuggi', che implica un contatto scarso o nullo con le persone e con il campo.

2. Le correlazioni statistiche si basano su variabili che, rispetto al contesto delle interazioni situate, sono definite arbitrariamente.

3. La riflessione a fatto compiuto sul significato delle correlazioni può comportare l'uso proprio di quei processi di ragionamento di senso comune che la scienza vorrebbe evitare.

4. La ricerca di fenomeni misurabili può comportare che valori non rilevati si insinuino nella ricerca semplicemente sotto concetti altamente problematici e inaffidabili come 'delinquenza' o 'intelligenza'.

5. Se da una parte è importante verificare le ipotesi, dall'altra una logica puramente statistica può rendere la costruzione delle ipotesi una questione banale, incapace di generare ipotesi a partire dai dati".

 

 

 

La ricerca-azione

 

La metodologia di ricerca che, a questo punto, sembra meglio attagliarsi al campo formativo è quella della ricerca-azione che implica un'azione didattica caratterizzata da un forte tasso di riflessività.

Per ricerca-azione si intende un'attività di ricerca che vede "l'impegno attivo del ricercatore, in vista di valori e obiettivi definiti, con implicazioni filosofiche, sociali, pedagogiche, politiche chiaramente orientate ed esplicitate sul terreno della pratica. Al 'ricercatore attivo' si attribuisce un ruolo essenziale sul piano dell'organizzazione e della messa in atto della valutazione dei risultati della ricerca stessa, perché egli partecipa ad ogni fase dell'evoluzione del progetto, allo stesso titolo che i soggetti della ricerca, cioè gli attori. In altre parole, la ricerca-azione costituisce un progetto sociale, rivestito da un progetto scientifico" [Pourtois 1986, p.134].

Tratti propri della ricerca-azione, nella versione di Pourtois, sono i seguenti:

Il coinvolgimento di tutti gli attori della ricerca-azione si inquadra all'interno di una concezione ermeneutica, piuttosto che neopositivistica, della ricerca didattica.

"Secondo Pourtois, è attraverso una pratica interagita che si configura come una interrogazione sistematica all'interno del gruppo circa la validità, nelle sue diverse dimensioni, delle interpretazioni avanzate che si attua il passaggio dai semplici dati di esperienza ai dati scientifici proprio della ricerca azione. Nella ricerca azione lo statuto di 'dato scientifico' viene attribuito agli enunciati le cui pretese di validità siano state supportate da argomentazioni che hanno soddisfatto adeguatamente i criteri di validità. In altri termini: nella ricerca azione vengono considerati scientifici gli enunciati che il gruppo è arrivato consensualmente a riconoscere come comprensibili, veritieri, giustificati e sinceri" [Baldacci 2001, p. 148].

Il concetto di "ermeneutica riflessiva" [Cfr. F. Batini in Fabbri e Rossi 2001, p. 150] applicato all'ambito della valutazione delle ricerche di questo tipo, richiama la nozione di conversazione riflessiva con la situazione elaborato da Schön:

"L'attività di verifica delle ipotesi non è né una profezia che si autorealizza , che assicura contro il timore di dati confutativi, né la verifica neutrale delle ipotesi propria del metodo della sperimentazione controllata, che richiede che chi conduce l'indagine eviti di influenzare l'oggetto di studio e di comprendere dati confutativi. La situazione tipica della pratica non è né argilla da modellare a piacere né un oggetto di studio indipendente, autosufficiente, dal quale il ricercatore prenda le distanze. Il rapporto fra chi conduce l'indagine e questa situazione è transazionale. Questi modella la situazione, ma in conversazione con essa, cosicché i propri modelli e apprezzamenti sono anch'essi foggiati dalla situazione. I fenomeni che egli cerca di capire sono in parte sue elaborazioni; egli è nella situazione che cerca di comprendere" [Schön 1991, p. 169].

 

Non dovrebbe sfuggire il portato etico di questo approccio.

Il ricercatore si pone come soggetto sullo stesso piano di coloro di cui indaga le azioni, senza nascondere loro i propri scopi, ricercandone non il semplice consenso, ma la compartecipazione, negoziando, quindi, con loro anche i valori a cui ispirare l'intera attività.

In una parola, l'attività si svolge su un piano di trasparenza.

Tale nozione, tuttavia, deve essere rettamente intesa. Fa parte del gioco il fatto, ad esempio, che possano essere provvisoriamente nascosti quei criteri di valutazione dell'esperienza che, noti, potrebbero sensibilmente modificare l'atteggiamento degli altri soggetti.

Ma anche su questo aspetto può essere raggiunto il consenso da parte di questi altri soggetti, giustificato dalla promessa che ciò che in un primo tempo deve restare nascosto, alla fine sarà reso esplicito, per l'arricchimento di tutti.

 

Essendo fondata su enunciati riconosciuti consensualmente come comprensibili la ricerca-azione privilegia, nell'analisi dei "dati", metodi qualitativi piuttosto che quantitativi, anche se non disdegna forme di triangolazione tra diversi metodi di indagine per corroborare le ipotesi da cui prende le mosse.

Su rischi e limiti dell'adozione di tecniche multiple, quali la triangolazione, cfr. , tuttavia, Silverman 2002, p. 91: "Il desiderio di utilizzare le tecniche multiple sorge spesso in seguito alla volontà di cogliere i diversi aspetti di un fenomeno [...] Rappresentare un insieme di dati e compararlo con un altro insieme [raccolto mediante un'altra tecnica] è un compito più o meno difficile a seconda del vostro schema teorico. In particolare, se pensate che la realtà sociale sia costruita in modi diversi a seconda dei diversi contesti, non potete riferirvi a un unico fenomeno chiaramente rappresentato da tutti i vostri dati".
Questa avvertenza, tuttavia, non fa che confermare - ci pare - la necessità di adottare un paradigma ermeneutico, in base al quale sia i dati raccolti sia le tecniche di raccolta siano fatti sempre di nuovo oggetto di discussione e negoziazione riguardo al loro significato.

In particolare per la ricerca-azione vale quanto si può dire, in generale, della differenza che oppone metodi quantitativi a metodi qualitativi: se i primi misurano, per lo più, comportamenti, in quanto essi sembrano oggettivamente osservabili (occultando spesso, in questo modo, si potrebbe rilevare, la questione della loro "interpretazione"), i secondi hanno esplicitamente di mira i significati che gli attori in campo conferiscono, esplicitamente o implicitamente, alla loro azione, al fine di "documentare il mondo dal punto di vista delle persone studiate" [Hammersley 1992, p. 165].

Bisogna sottolineare che nella ricerca-azione l'analisi qualitativa dei dati non costituisce né un'alternativa secca al ricorso ad elementi di tipo quantitativo, né una semplice fase introduttiva (esplorativa) di definizione delle categorie. Data la circolarità tra teoria e pratica, l'analisi "qualitativa", come continua riflessione e, quindi, ridefinizione delle categorie e della variabili, non può che accompagnare dall'inizio alla fine la ricerca stessa .

Anche tra coloro che generosamente si dimostrano disposti a rivalutare il momento qualitativo nella ricerca empirica vi è chi si limita a sottolinearne l'importanza come "tutto ciò che può precedere e preparare la fase vera e propria della ricerca condotta con metodologia scientificamente controllata" (Lumbelli 1986, p. 114). In questo senso la ricerca "qualitativa" esaurirebbe la sua funzione nella fase cosiddetta "esplorativa", svolgendo la funzione di definire (o "negoziare") il significato della "categorie" di analisi che si intendono adottare.
Nel paradigma della ricerca-azione, invece, la circolarità teoria-pratica è "interminabile": in un certo senso la ricerca conserva sempre un carattere "esplorativo" perché la stessa teoria che la illumina è sempre di nuovo messa in questione dai "dati" che via via emergono (in quello che Pourtois chiama "dispositivo di raffinamento"): il momento qualitativo, pertanto, non può che essere inestricabilmente connesso con quello cosiddetto quantitativo.

 

Non bisogna, in ogni caso, sottacere i rischi di questo paradigma ermeneutico-riflessivo.

 

Si potrebbe pensare che questo coinvolgimento del ricercatore con gli altri soggetti possa dare luogo a un inquinamento dei risultati, condizionandoli.

Cfr. le osservazioni in Michelini e Schiavi 2000, pp. 108 ss.
Se si prende in esame, dal punto di vista dei criteri "classici" di validazione di una ricerca, "lo stile personale e tradizionale del docente" come fattore di "modifica di una strategia didattica", sulla base della letteratura in materia (cfr. AA.VV., Accomodation of a scientific conception: toward a theory of conceptual change, in "Science Education", n.66, 1982, p. 211), si può legittimamente concludere: "Quest'ultimo effetto di inquinamento differenziato e incontrollato di una proposta didattica da parte dei diversi docenti ha portato talvolta alla perdita di identificazione (e quindi di possibile confronto) tra sperimentazioni didattiche di uno stesso progetto educativo".

A tale osservazione si può replicare, tuttavia, se ammettiamo che lo stile personale del docente, come quelli degli allievi, nonché le variabili di contesto, adeguatamente documentate, facciano parte integrante di una ricerca "ermeneuticamente orientata", In quest'ottica quello che, in una certa prospettiva, appare del tutto legittimamente come "inquinamento", può configurarsi come "risorsa".

 

Una critica affine a questa concerne l'atteggiamento militante del ricercatore, previsto dalla ricerca-azione, che appare violare il classico criterio weberiano dell'avalutatività nelle scienze sociali.

A tale critica si può rispondere come segue.

In ogni ricerca fatta da soggetti su altri soggetti, in quanto tali, il condizionamento reciproco è inevitabile e, quando non è riconosciuto, è spesso semplicemente occultato, con effetti di distorsione ancora più gravi.
Anche un ricercatore che si muova in modo apparentemente invisibile, assumendo un comportamento "asettico", nascondendo i suoi obiettivi ecc., non può che incidere sul comportamento dei soggetti studiati, che si sentiranno comunque osservati e condizionati.

Per quanto riguarda la questione complessa dell'avalutatività occorre ricordare che lo stesso Weber ammetteva che i valori del ricercatore potessero orientare la ricerca (ad esempio la scelta dell'argomento e la formulazione dell'ipotesi), anche se non condizionarne i risultati.

 

Per evitare il cosiddetto "effetto Pigmalione" o della "profezia autoavverantesi", ossia quello di "innamorarsi" eccessivamente delle proprie ipotesi e di vederle confermate anche quando non lo sono, e, più in generale, il rischio dell'inquinamento della ricerca, non c'è che l'esercizio continuo ed esplicito della messa in discussione dei propri assunti, condotto con e non contro gli altri soggetti coinvolti nella ricerca, che hanno tutto l'interesse affinché i risultati siano veri.

Pourtois, a questo riguardo, osserva che "la ricerca-azione è fomite di contraddizioni, ed è questo uno dei criteri che la differenziano dalla ricerca operativa e de quella nomotetica. In altri termini, lo studio degli effetti non voluti e delle contraddizioni costituisce una caratteristica peculiare della ricerca-azione" [Pourtois 1986, p. 136-7].

 

Un rischio più tecnico è legato all'attendibilità dei risultati, intesa come il "grado di coerenza con cui i casi sono assegnati alla stessa categoria da osservatori diversi e dallo stesso osservatore in occasioni diverse" [Hammersley 1992, p. 67. Similmente Domenici 1993, p. 49: "Una rilevazione è attendibile quando è talmente accurata sul piano metrologico da risultare costante, la stessa, chiunque sia il soggetto che la rileva e quando l'esito di successive misurazioni compiute da una stessa persona risulti fedelmente riprodotto". Si noti la particolare insistenza di Domenici sull'aspetto quantitativo ("misurazioni") della rilevazione che si vuole attendibile].

Forme inadeguate di trascrizione e di codificazione dei "testi" prodotti dagli attori coinvolti nella ricerca possono ovviamente mettere a rischio l'attendibilità dell'analisi di tali prodotti.

A questo problema si può, però, facilmente ovviare attraverso tecniche accurate di registrazione.

 

Ma, in generale, appare chiaro che in una ricerca di ordine qualitativo sussisterà sempre un margine irriducibile di discrezionalità interpretativa, dovuta alle diverse soggettività in campo.

D'altra parte anche in una ricerca quantitativa, come già detto, potrebbe non sussistere un'interpretazione univoca della categorie adottate.

Come è stato osservato "a seconda che si adotti uno o l'altro indirizzo psicologico o sociologico saranno diverse le categorie con cui ci si appresta a segmentare gli eventi da studiare o gli aspetti che ci si appresta ad astrarre in un determinato brano di realtà [...] Se ci troviamo, ad esempio, di fronte al problema di stimolare a partecipare al lavoro scolastico un ragazzo che dimostri una sostanziale apatia nei suoi riguardi e decidiamo di affrontarlo sul piano dell'intervento verbale dell'insegnante nei suoi confronti, avremo già operato una scelta determinante qualora avremo deciso di chiamare tale intervento con i termini di rafforzatore sociale, di rispecchiamento, di conferma o di feedback" [Lumbelli 1992, p. 116].
Di fronte al proliferare dei "modelli" psico-sociologici e anche pedagogici per categorizzare l'esperienza (tutti discutibili, per la natura stessa delle discipline in gioco) una soluzione può ben essere rappresentata da un ritorno consapevole al "sapere di non sapere" filosofico: una forma di ingenuità "colta" che ci permetta di leggere l'esperienza riducendo al minimo le sovrastrutture categoriali per cercare di restituire all'esperienza stessa la parola.

In tutti casi il metodo della caparbia negoziazione dei significati delle categorie impiegate, tra i soggetti coinvolti, esperti e non, appare la sola via per ammortizzare, attraverso l'intesa intersoggettiva, i rischi di arbitrarietà nella valutazione dei risultati della ricerca.

 

Altri rischi attengono alla validità della ricerca, intesa come la "verità, interpretata come il grado di accuratezza con cui un resoconto rappresenta i fenomeni sociali cui si riferisce" [Hammersley 1992, p. 57. Analogamente, Domenici 1993, p. 49: "La validità esprime il grado di corrispondenza tra una rilevazione, una misura, un giudizio, e l'oggetto specifico cui questi si riferiscono"].

Un rischio di questo tipo può essere quello dell'aneddotismo.

Il fatto di citare pochi esempi emblematici di un certo atteggiamento, opportunamente "selezionati", dal ricercatore stesso, pur se questi sono letti correttamente, "mette in questione la validità di molta ricerca qualitativa" [Silverman 2002, p. 51].

 

Una delle strategie migliori per ovviare a tutti questi problemi sembra essere quella che consiste nell'allargare il campo di osservazione attraverso la tecnica della comparazione continua che può implicare un trattamente globale dei dati, con particolare riguardo ai casi devianti [Cfr. Silverman 2002, p. 253 ss.].

In sintesi: i dati via via raccolti vanno non tanto correlati a gruppi sulla base di ipotesi precostituite, quanto messi in continuo rapporto "tutti con tutti", incrociandoli in più modi allo scopo di "farli parlare", discutendo i casi devianti sulla base dei possibili fattori, emergenti dall'indagine medesima, esplicativi della loro devianza.

"L'uso accorto di correlazioni, di analisi multivariate, la ricerca di differenza significative, il tentativo di isolare fonti di variazione nei risultati, ecc., possono aiutare a metter in relazione i tre quadri (partenza, ipotesi, risultati) e le loro parti, anche se complessi, ricchi di particolari di varia natura" [Gattullo 1986, p. 83].

 

Tutte queste strategie, tuttavia, non escludono il rischio dell'errore e dell'arbitrarietà, soprattutto se il ricercatore, come avviene spesso, è costretto a lavorare da solo, almeno in una prima fase.

Per ovviare a questo rischio di fondo, quali che siano le strategie adottate per ridurlo al minimo, appare fondamentale documentare analiticamente il proprio lavoro, rendendo fruibili a tutti i materiali su cui la ricerca si è esercitata; consentendo, quindi, a terzi la discussione ogni diversa possibile interpretazione di tali materiali.

 

Il generale il rischio dell'autoreferenzialità di ciascuna esperienza di ricerca-azione può essere evitato promuovendo la

consentita da

 

 

 

La trasferibilità dei risultati nella ricerca-azione

 

Per quanto riguarda la trasferibilità dei risultati di una ricerca-azione si possono fare le seguenti considerazioni.

"In linea di massima, si può asserire che il genere di inferenza appropriato per questo tipo di ricerca non è la generalizzazione, ma il trasferimento.

Una volta che esse siano state individuate, l'analisi del nuovo caso risulta più focalizzata, mirando a cercare di capire fino a che punto i due casi siano simili e quali elementi differenzino il secondo dal precedente.

Pertanto, di principio, anche in sede idiografica [cioè, di ricerca-azione, in quanto indirizzata a casi particolari e non a leggi generali] si cerca di estendere il valore dei risultati al di là del contesto specifico in cui sono ottenuti, non nel senso della loro generalizzabilità, ma in quello della loro trasferibilità.

In linea con ciò, la ricerca idiografica [di cui un esempio è la ricerca-azione] non mira a formulare leggi generali, ma, per rendere praticabile la trasferibilità dei risultati, a costruire una casistica: deve cioè presentare una raccolta esemplificativa, in qualche modo 'ragionata', di casi particolari, aperta a un arricchimento cumulativo.

Tale repertorio di casi ha essenzialmente una funzione euristica, orienta la ricerca di somiglianze in un nuovo caso rispetto ad altri precedenti e potenzialmente suggerisce analogie nelle linee di intervento. In altri termini: una casistica idiografica non fornisce regole, ma una base d'appoggio per il giudizio del ricercatore" [Baldacci 2001, p. 60].

 

Tuttavia, come emergerà esaminando i fondamenti epistemologici della "valutazione" in una ricerca-azione, oltre a questa "trasferibilità", in senso debole, dei risultati della ricerca, come trasferimento di caso in caso, si può anche concepire una trasferibilità nel senso forte di una quasi-generalizzazione: nella misura in cui una ricerca-azione è comunque impegnata a verificare una determinata ipotesi pedagogica o didattica i suoi risultati possono comunque valere a suffragio, pur provvisorio e problematico, non mai definitivo, dell'ipotesi medesima.

Da questo punto di vista ciascuna esperienza può costituire anche un ricerca esplorativa, come "prima ricognizione empirica sulla problematica oggetto di ricerca" [Baldacci 2001, p. 61. Sulla ricerca esplorativa cfr. L. Lumbelli, Pedagogia sperimentale e ricerca esplorativa, in Telmon e Balduzzi 1990].

 

 

 

La documentazione dell'esperienza

 

La documentazione delle esperienze di ricerca-azione, ai fini della "generalizzabilità" (provvisoria) dei suoi risultati, appare particolarmente importante proprio perché, mancando programmaticamente la possibilità di pervenire a una valutazione definitiva, oggettiva e universale, sulla base del prodotto finale della ricerca, si richiede un continuo confronto dialettico e interpretativo con quanto emerso dal processo della ricerca medesima, ai fini della sua

L'importanza, a questi fini, della documentazione riposa sul fatto che la provvisorietà della valutazione della prima esperienza non riguarda solo il risultato, ma anche l'interpretazione della relazione tra il risultato, positivo o negativo che sia, e tutti i dati e i fattori coinvolti nel processo formativo.

Se, per esempio, dopo una o più altre esperienze dello stesso tipo o di tipo affine, sorgesse il sospetto che certi esiti positivi (per esempio un miglioramento degli apprendimenti) fossero dovuti non tanto a un certo fattore (per esempio all'introduzione di nuove tecnologie), come si credeva prima, ma ad un altro fattore (per esempio alla motivazione dei docenti coinvolti nella sperimentazione), sarebbe necessario ritornare ricorsivamente su tutti i materiali prodotti dalla prima esperienza o, almeno, su quelli giudicati pertinenti (quindi, per esempio, non solo sulle valutazioni date dai docenti, ma anche sugli elaborati degli allievi a cui esse si riferiscono), per mettere alla prova la nuova ipotesi (cioè la nuova ricostruzione).

 

 

 

La valutazione

 

Dal punto di vista dell'approccio alla valutazione la ricerca-azione, a partire dalla sua ispirazione, come action research, nelle proposte di K. Lewin, può essere avvicinata ai modelli centrati sullo "sviluppo organizzativo" [Cfr. Tessaro 1997, pp. 97-98].

Tuttavia, nelle sua forma più pura, per la sua natura, pare difficilmente smarcabile dalle strategie ermeneutiche-conversazionali proprie dei modelli transazionali o relazionali .

Tessaro distingue idealtipicamente "ricerca" e "valutazione", considerando la prima orientata alla conoscenza e la seconda alle decisioni (di fatto, quindi, la "valutazione" tende a sovrapporsi, nel suo modello alla "ricerca operativa", in genere di tipo situato), anche se poi si sofferma sulla via intermedia dell'Evaluation Research. Quindi classifica cinque principali approcci alla valutazione, a seconda della maggiore o minore congruenza metodologica con le procedure sperimentali e quantitative della ricerca di ambito scientifico: approccio centrato sulla comparazione tra obiettivi e risultati, approccio orientato alle decisioni, approccio centrato sul "consumo" di formazione, approccio centrato sulle transazioni, approccio centrato sullo sviluppo organizzativo. Pur proponendo un modello di sintesi tra tutte queste strategie, di tipo sistemico o ecologico, Tessaro riconosce che "il ricercatore può adottare uno specifico modello e filtrare la porzione di realtà che esso permette di indagare". Questa soluzione, tuttavia, a suo parere, "data la natura del modello, comporta parzialità di vedute, preferenze di funzioni, uniformità di tecniche e di strumenti e quindi conduce a risultati di valutazione coerenti con il modello, piuttosto che con la realtà" (p. 119). A noi sembra che qualunque modello si adotti, complesso a piacere, esso presenti questo rischio. Piuttosto si tratterà di adottare un modello congruo con la domanda che ci si pone e con il tipo di risposta che l'azione formativa può dare (altro è un'attività di formazione di competenze di tipo culturale, altro è un'attività di formazione di competenze di tipo professionale) e di giustificarlo a propria volta "meta-valutativamente" nella presentazione dei risultati del proprio lavoro.

All'interno del modello costituito dalle strategie ermeneutiche-conversazionali appare necessario soddisfare la duplice, contrastante esigenza

Si tratta di due punti di vista complementari, quello interno e quello esterno al "sistema"; che si possono fecondamente integrare in un processo ermeneutico "allargato" dai soggetti coinvolti nella ricerca situata via via, in linea di principio, alla intera "comunità scientifica" dei ricercatori in campo didattico. [Sulla necessità di tenere insieme i due estremi di questa "antinomia" didattica cfr. ancora Baldacci 2001, p. 144]

 

È pur vero che si possono distinguere un approccio più "epistemologico" e un approccio più marcatamente "ermeneutico" alla ricerca-azione. Tuttavia, come cercheremo di mostrare, il primo, non potendo contare su dati realmente oggettivi, finisce per confluire nel secondo.

Per quanto riguarda l'approccio epistemologico, nella prospettiva del problematicismo pedagogico di Baldacci, se due o più esperienze di ricerca-azione muovono dallo stesso modello educativo o ipotesi didattica e, sia pure attraverso procedure negoziali, "decidono" liberamente di adottare criteri di valutazione delle ipotesi di ricerca tra loro commensurabili i loro risultati possono essere direttamente confrontati, nel senso della corroborazione o meno dell'ipotesi di partenza.

Si può così riassumere la strategia di validazione di una stessa ipotesi didattica attraverso più progetti situati di ricerca-azione; strategia ispirata a Baldacci dal "falsificazionismo sofisticato" di Lakatos. Il modello è la scoperta del pianeta Urano a partire dalla perturbazione dell'orbita di Saturno: se una teoria (in questo caso quella di Newton) sembra smentita in un caso particolare, prima di respingerla (come nel "falsificazionismo ingenuo" di Popper), è legittimo mantenerla qualora

Sulla base di questo modello Baldacci suggerisce in sostanza quanto segue.

Se una successiva applicazione di una ricerca-azione, ossia un nuovo "progetto situato", costruito a partire da un "progetto-tipo" già sperimentato in situazione una prima volta, sembra smentire in tutto o in parte l'ipotesi didattica sulla base della quale è stato costruito il "progetto-tipo" (per esempio, la nostra ipotesi che il ricorso alle nuove tecnologie telematiche migliori la didattica della filosofia), prima di considerare confutata l'ipotesi di base, si deve cercare di capire, dimostrando ciascuna delle seguenti "ipotesi ausilarie" sulla base di dati empirici, se l'apparente insuccesso non sia dovuto:

Solo come extrema ratio, metodologicamente, avrebbe senso mettere in discussione l'ipotesi stessa, in quanto si suppone che essa sia espressione di qualche modello pedagogico o teoria didattica consolidata .

Per tutta questa complessa problematica, qui opportunamente semplificata, cfr. Baldacci 2001, pp. 162-184. Sul rapporto tra teorie, modelli, ipotesi nella ricerca sociale cfr. anche Silverman 2002, pp. 121 ss. Silvermann adotta una prospettiva simile a quella di Baldacci, precisando che l'ipotesi da confermare o smentire sulla base del feedback fornito dalla ricerca empirica ha sempre un carattere circoscritto: mentre la teoria e il modello di riferimento teorico come tali, in ambito sociale, non si prestano, in genere, a validazione empirica.

 

Il principio di confutazione, operante in questa apparentemente complessa metodologia di controllo dei risultati di una ricerca qualitativa, può costituire, come è già stato osservato, un valido rimedio ai rischi di aneddotismo a cui essa può andare incontro per la scarsità di dati su cui generalmente pretende di fondare le proprie generalizzazioni [cfr. Silverman 2002, pp. 252-3].

Si è già visto come lo stesso Pourtois suggerisca la ricerca della contraddizione come qualificante la ricerca-azione.

 

Nel caso invece che si tratti di confrontare esperienze indipendenti di ricerca-azione, condotte sulla base di ipotesi differenti o di diversi modelli educativi, Baldacci si rimette francamente a un approccio alla valutazione francamente ermeneutico.

"Un atteggiamento ermeneutico ci sembra invece preferibile nel confronto tra gruppi di ricerca che hanno affrontato lo stesso problema a partire da paradigmi diversi, vale a dire quando vengono a confronto programmi di ricerca differenti circa la medesima questione educativa; allora, poiché i criteri di validità sono in larga misura codificati nelle regole interne dei programmi, sembra difficile poterli commisurare. Resta però la possibilità di discutere, di cercare la comprensione dei diversi punti di vista e di esplorare la possibilità di raggiungere accordi anche parziali, oppure di tentare di persuadere la controparte" [Baldacci 2001, p. 154. Cfr. anche Giorello 1992, pp. 154-56].

 

A ben vedere, tuttavia, lo stile di indagine epistemologico, "per congetture e confutazioni", per dirla con Popper, e quello ermeneutico, che consiste nel negoziare a più riprese il senso di un "testo", che può anche essere un "progetto", un'attività ecc., non appaiono così lontani l'uno dall'altro, nonostante le diverse matrici culturali e il diverso lessico con cui tali atteggiamenti si esprimono.

Stile epistemologico e stile ermeneutico convergono, in altri termini, in quello di una corretta ermeneutica scientifica.

Prendiamo il caso emblematico della traduzione, che costituisce il modello dello stile ermeneutico: chi interpreta un testo comincia formulando un'ipotesi circa il suo senso globale (ipotesi spesso derivante dai proprio pregiudizi,) e via via la corregge se non è congruente con i dati testuali (falsificazione) fino a conseguire una provvisoria "fusione di orizzonti" [Gadamer 1983, pp. 356-7] tra il proprio orizzonte di senso e quello, presunto, dell'autore (nel caso che l'"altro" non sia un testo, ma un soggetto parlate, si parlerà di "negoziazione" del senso, di "conversazione", di "intesa comunicativa").

Questo procedimento, come ha notato Richard Rorty [Rorty 1983, p. 266], appare del tutto simile a quello della ricerca "scientifica": si parte da un'ipotesi (che può derivare anche in questo caso da "pregiudizi": Popper, come è noto, parla dei miti o della metafisica come fonti della creatività scientifica) e la si saggia per prova ed errore sul materiale empirico (il "testo", "il libro dell'universo" nell'immagine di Galileo).

Del resto anche in campo "scientifico" l'oggettività è sì connessa alla verifica, ma questa "non può essere intesa come verifica fattuale, ammesso e non concesso che si possa continuare a parlare di 'fatti' (e non si può). L'oggettività è un processo di riscontro con il 'reale' che passa sempre e comunque attraverso l'interpretazione, la spiegazione/comprensione, la rielaborazione mentale/culturale e che, quindi, reclama verifiche di tipo ormai più sofisticato e più complesso, anche più problematiche: interpretative, appunto, come ha sottolineato il neopragmatismo da Davidson a Rorty e oltre, fino a Nozick" [Cambi 2004, p. 39].

"La stessa psicologia dello scienziato viene a mutare: non è più il fanatico del laboratorio, il ricercatore ossessionato dai 'fatti', colui che formula ipotesi dopo una procedura di osservazioni il più esaustiva possibile. È piuttosto un intellettuale che lavora con le categorie dell'interpretazione (pregiudizio + ricerca + ipotesi + verifica + nuovo pregiudizio) e che abita lo spazio inquieto della ricerca, appunto" [Cambi 2004, p. 79].

 

In ultima analisi, una volta che vengano meno le pretese di oggettività della ricerca sperimentale e che si ammetta, nella ricerca didattica, di pervenire sempre solo a conclusioni provvisorie, discutibili e soggette a ulteriore corroborazione, appare sostanzialmente indifferente

In entrambe le modalità abbiamo sempre più o meno esplicitamente a che fare

Per generalizzare, sia pure in forma provvisoria e problematica, i risultati di una ricerca fondamentalmente qualitativa, si possono poi adottare diverse strategie [cfr. Silverman 2002, pp. 156 ss.].

Questa prospettiva radicale pare abbastanza pertinente al campo didattico e a quello dell'apprendimento, almeno per una certa tipologia di "oggetti".

Se una determinata strategia didattica produce, anche in pochissimi casi, sviluppi cognitivi "straordinari" e non comuni, che non si possono attribuire ad altre cause, perché strettamente dipendenti dalla strategia stessa (per esempio, se esercizi di un certo tipo permettono ad alcuni allievi di fare calcoli complessi a piacere senza ricorso alla macchina calcolatrice) appare lecito inferire che tale strategia possa sempre e comunque produrre questi determinati risultati (anche se non possiamo calcolare sulla base dei pochi casi esaminati la probabilità con cui questo potrebbe avvenire in altri contesti).

 

Dal punto di vista epistemologico si può dire che il criterio ultimo di valutazione della ricerca-azione, in quanto attività essenzialmente ermeneutica, è la coerenza tra tutti gli elementi in gioco (laddove all'interno di un paradigma di tipo neopositivistico ciò che consente di parlare di validazione di un risultato è la sua verità o, più spesso, la sua verisimilitudine secondo qualche criterio esterno o assegnato).

A tale coerenza si può pervenire attraverso la discussione continua dell'azione didattica con tutti i soggetti coinvolti allo scopo di pervenire a soluzioni negoziate e condivise (ma non per questo necessariamente valide, dal punto di vista "oggettivo").

In questo contesto può essere richiamata la strategia detta della convalida del rispondente, consistente nel restituire ai soggetti coinvolti nell'indagine i risultati della medesima, per discuterli con loro.

Se è vero che "non c'è ragione per supporre che gli attori sociali abbiano uno status privilegiato in quanto commentatori delle loro azioni", è anche vero che nessuno ha, in senso assoluto, questo status, neppure il ricercatore: appare quindi lecito considerare "i processi di cosiddetta 'convalida' [o meglio restituzione]" se non altro "come un'ulteriore fonte di dati e di approfondimenti" [Fielding et. al. 1986, p. 47].

 

Per quanto riguarda gli "elementi in gioco" è fondamentale notare come il criterio della coerenza permetta di rompere la polarizzazione dicotomica programmatoria obiettivi-risultati per introdurre come terzo elemento (ecologico) la nozione degli effetti imprevisti o collaterali [cfr. Baldacci 2001, p. 157].

È caratteristico dell'esperienza didattica il fatto che in corso d'opera si producano effetti non previsti o collaterali che possono essere favorevoli, indifferenti o contrari agli obiettivi che si prevede di conseguire (nell'ultimo caso si parla di effetti perversi).

Questi effetti, nel loro insieme, possono anche suggerire di modificare, in itinere, in tutto in parte gli obiettivi, in funzione delle più generali finalità educative, qualora si colga l'opportunità insperata di conseguire mete educative più elevate o quando, comunque, gli obiettivi previsti si rivelino irraggiungibili.

Nell'ambito della ricerca-azione questi effetti inaspettati non solo sono ammessi, ma vanno addirittura "provocati" [cfr. Pourtois 1992, p. 136].

In effetti, a ben vedere, sono proprio questi comportamenti imprevisti che fanno riscoprire negli attori soggetti (inquietantemente liberi) e non solo oggetti di ricerca, permettendo di riattivare l'attività d'interpretazione di quanto si va facendo.

 

Una corretta valutazione in itinere della coerenza del processo (il "dispositivo di raffinamento" di cui parla Pourtois, p. 137) mira a tenere il timone rivolto verso la meta educativa più elevata che, via via , sia possibile conseguire, rileggendo ricorsivamente tutti i dati a disposizione, senza farsi irretire dall'iniziale determinazione degli obiettivi.

È chiaro che una valutazione di coerenza di questo tipo, pur potendosi valere anche di dati quantitativi, si risolve essenzialmente in un'azione di tipo interpretativo, la cui soggettività può essere compensata dal fatto che la valutazione venga discussa e condivisa, quando occorre, con tutti i soggetti coinvolti nell'esperienza (ed eventualmente da altri, esterni, a cui via via la si documenti).

Si vede bene che in questa prospettiva non sia possibile tenere ferma neppure la stessa "ipotesi" di ricerca che può essere modificata in corso d'opera.

Tale eventualità non mina la capacità che la ricerca pervenga a risultati utili. Infatti, a posteriori si potrà sempre riconoscere, in sede di ricostruzione autobiografica e narrativa dell'esperienza, quale ipotesi, alla fine, si è di fatto verificata o confutata, dunque un'ipotesi non necessariamente prevista all'inizio.

Questo stile di ricerca, caratterizzato da un forte tasso di serendipity, se può indurre a mancare il traguardo della conferma di qualche determinata ipotesi preconfezionata, appare molto più fecondo dal punto di vista della logica della scoperta [Sull'importanza, nella ricerca sociale, di questo momento cfr. Cavalli 2001, cap. VI, § 4 (La serendipiy)., pp. 75-6].

 

 

 

Il docente ricercatore

 

Quale professionalità docente? Il paradigma della riflessività

 

Se ora ci volgiamo al problema di definire il senso di una professionalità docente adeguata - è noto che quella del docente viene spesso rappresentata, da parte degli stessi docenti, come una semi-professione tra i diversi modelli di docente ricercatore - , alla luce di quanto emerso circa la fecondità della ricerca-azione, come strategia riflessiva ed ermeneutica di ricerca didattica, va privilegiato senz'altro quello - peraltro centrale nella letteratura sulla professionalità docente - del docente come professionista riflessivo.

Tale figura di professionista è, del resto, il profilo che hanno di mira le più significative iniziative di formazione rivolte ai docenti. "La formazione [dei docenti] può essere intesa come un processo di attribuzione di senso alle proprie pratiche: senso che, dalla condizione di oggetto prevalentemente 'agito', chiede di acquisire anche lo status di oggetto 'narrato', messo in parola, riconosciuto e, in ultima analisi, 'teorizzato'. In questo modo la pratica acquisisce la consapevolezza di essere, nel bene e nel male, anche una teoria [...] Questo paradigma formativo ha consentito di riscoprire a posteriori le nostre competenze, i saperi professionali operanti nella nostra realtà; ricostruendo le azioni quotidiane, abbiamo potuto far emergere la conoscenza nascosta prodotta dalle azioni, abbiamo potuto validarla e organizzarla in micro teorie, capaci di interpretare il nostro agire e di metterci, quindi, nella condizione di riprogettarlo" [Fabbri e Rossi 2001, p. 23].

"L'alto livello di complessità e variabilità che connota ogni situazione e pratica formativa chiede la valutazione critica di logiche programmatorie di tipo lineare-sequenziale mirate a elaborare una pianificazione a priori delle azioni carattterizzata da una 'spirale' debole e la considerazione attenta di un approccio metodologico di tipo costruttivista connotato da una 'spirale' forte in grado di consentire, sulla base di una riflessione sull'azione effettuata nel corso del processo, una razionalizzazione a posteriori e una ristrutturazione non soltanto dell'impianto attuativo del progetto ma anche dell'idea generale che lo ha disegnato e che lo governa. È appena necessario avvertire l'impossibilità per una teoria della formazione di appiattirsi su paradigmi e modelli desunti dalle scienze fisico-naturali" [Fabbri e Rossi 2001, p. 46].

In quest'ottica, come precisa Loretta Fabbri, "la costruzione del significato dell'agire si sposta verso il soggetto professionale e ogni progetto rimanda a una costruzione interpersonale e sociale piuttosto che a una processo tecnico. Non possiamo più identificare progetti in modo univoco perché essi appartengono a un campo simbolico percorso da tensioni la cui riuscita rimanda al senso profondo di un confronto tra le teorie implicite degli insegnanti e le teorie esplicite dei teorici di professione [...] L'esigenza di fondo è che il professionista che lavora nella scuola sia messo nella condizione di interpretare ogni esperienza o proposta come tale, sua o di altri, attraverso un ritorno alle fonti da cui ha avuto origine. In questo modo il modello, il progetto riacquistano la loro dimensione di problema, quindi di ricerca" [Fabbri e Rossi 2001, p. 79].

 

Per quanto riguarda la concreta modalità d'azione del docente, come professionista riflessivo e come ricercatore "in situ", si può richiamare la pedagogia del progetto.

"Se la conoscenza diventa la chiave di volta del sapere e della preparazione culturale e personale di un soggetto utente scolastico, se i modelli organizzativi fin qui adoperati dai sistemi scolastici sono sempre stati basati sulla standardizzazione e la gerarchizzazione dei propri assunti ontologici ed epistemologici, se le modalità di ricerca di leggi generalistiche e macrostatistiche si fanno difficili, quale modello organizzativo [di un progetto, di un'attività] emerge e con quali processi può essere condotto?" [A. Fontana, in Fabbri e Rossi 2001, p. 116].

La risposta più spontanea va nel senso dei paradigmi "autobiografici e narratologici" fondati sull'idea di un'"ermeneutica condivisa" dei processi di ricerca, formazione, apprendimento [cfr. ibidem].

Come osserva Bruno Rossi "contro la staticità e l'uniformità del programma centrale, il progetto locale esalta la tipicità e l'irripetibilità di ciascuna situazione educativa e si disegna lo strumento basilare per il funzionamento di una scuola che ambisce a rendere ogni soggetto educativo protagonista di sicuri quanto solidi processi di apprendimento e ciascun insegnante un esperto della didattica" [B. Rossi in Fabbri e Rossi 2001, p. 39]

Nella logica del progetto "nel momento in cui si verificano nuove condizioni di esperienza educativa ogni ipotesi deve essere ripensata e ristrutturata. Le scelte ragionate non possono avere carattere di definitività bensì di propositività e necessitano di essere validate dai processi formativi attuati dalla scuola" [!] [B. Rossi in Fabbri e Rossi 2001, p. 45].

 

Tra le diverse nozioni di innovazione, una in particolare appare particolarmente pertinente al campo della professionalità docente che è qui in gioco: la nozione di innovazione incrementale o kaizen.

"Il concetto di innovazione incrementale prende forma a partire dalla diffusione, nella letteratura organizzativa e sulle professioni, sul finire degli anni '80, del modello giapponese. Alcuni attenti osservatori dei processi di apprendimento organizzativo, come Senge, March, Simon, Argyris e Schön avevano avevano insistito sulla capacità di 'tornare sulle routine' o, detto in altri termini, di avere un atteggiamento riflessivo rispetto alle proprie consuetudini di lavoro, in modo da apportare significativi mutamenti. Tuttavia è nel momento in cui viene diffuso il modello di produzione denominato just in time che tali prime intuizioni vengono inserite all'interno di un modello sistemico e organico, Il just in time trovava la propria forza nell'essere orientato alla riduzione delle risorse in eccedenza: materiali, scorte, sprechi... Il fondamento organizzativo veniva situato nella logica del kaizen, che nella lingua giapponese significa miglioramento continuo. Il kaizen quando viene adottato correttamente non lascia esente nessuna area dell'organizzazione, nessuna 'famiglia professionale' dall'impegno al miglioramento e all'abbandono delle pratiche decisionali e operative che non sono finalizzate al miglioramento qualitativo del lavoro e del 'prodotto-servizio'" [Fabbri e Rossi 2001, p. 141]

 

 

 

L'interdipendenza tra osservatore e osservato e le sue implicazioni

 

La ragione filosofica di fondo per assumere nel campo formativo criteri di conduzione delle pratiche e modalità di verifica e valutazione affatto difformi da quelli propri del campo delle scienze naturali (in ultima analisi, una forte dose di riflessività e ricorsività) viene dalla considerazione, che può essere fatta propria da tutte le scienze cosiddette "umane" - ovvia ma non sempre tenuta nel debito conto - che gli "oggetti", con cui interagisce il soggetto che educa o fa ricerca, sono a loro volta "soggetti".

Non si intende cadere nella retorica circa l'irripetibilità della "persona" e l'irriducibilità del suo agire a schemi predeterminati.

Maragliano ha puntato a più riprese il dito contro quello che chiama "ideologia pedagogica", venata di religiosità e occultamente "totalitaria", che avrebbe ostacolato e deformato le buone intenzioni dello sperimentalismo critico [cfr. Maragliano 1986, p. 89; su questa contrapposizione tra ricerca e pedagogia cfr. anche F. De Bartolomeis, La ricerca come antipedagogia, Feltrinelli, Milano 1969].
Ammesso e non concesso di doversi per forza difendere da questa "ideologia", ci si dovrebbe comunque chiedere quanta "ideologia" si nasconda dietro le stesse pretese di rendere "positivo" ed "oggettivo" un sapere sull'"umano". Tra la Scilla della retorica pedagogica e la Cariddi dei ritorni di crasso positivismo didatticista si muove la filosofia dell'educazione, come ricerca che, sapendo di non sapere, mentre si interroga sui propri "oggetti", in cui riconosce altrettanti "soggetti", non cessa di interrogarsi, per retroazione, anche su se stessa.

Resta l'evidenza dell'inestricabile interdipendenza, nel campo educativo, fosse pure solo comunicativa, tra "osservatore" e "osservato", con tutto ciò che questo implica, in termini di feedback e di effetti inconsci.

"Il rigore viene dal metodo, ma da un metodo che nasca dall'oggetto, che si calibri sull'oggetto e che non sia trasferito a priori da altre aree di saperi, con altri oggetti come referenti. [...] Il modello del metodo galileiano ha svolto questo ruolo e continua a svolgerlo. Anche se esso, pensato per la fisica, deve subire ampie 'torsioni' per applicarsi, ed essere produttivo, nelle scienze umane, dove cade la fissità dell'oggetto e l'osservatore è coinvolto interiormente (con la sua identità, con la sua coscienza etico-sociale) in ciò che osserva" [Cambi 2004, p. 39].

La ricerca-azione, in particolare, almeno nella versione di Pourtois, si propone come esplicitamente guidata da un modello "qualificabile come interazionista".

"Gli atti degli attori sono spiegati tramite finalità perseguite da questi (contratto, progetto, ruolo ecc.) [...] Sono considerati come intenzionali e alcuni dei loro elementi sono determinati da elementi anteriori ai comportamenti stessi (Weber). Pertanto la dimensione storica ci sembra fondamentale, può essere assunta come spiegazione al momento opportuno" [Pourtois 1986, p. 138].

 

In un orizzonte che interroga le pratiche didattiche da un punto di vista psicanalitico Tosquelles, che coerentemente "non si esprime in formule, ma in figure, racconti, massime per l'azione, indicazioni che riguardano forme di attenzione" suggerisce che "non è la tipografica che anima la motivazione degli allievi né la rotazione degli incarichi che costituisce la mediazione nel rapporto insegnante-classe: motivazioni e mediazioni sono concetti-strumento nel rapporto educativo e, per quanto abbiano bisogno di materializzarsi, la loro forza non sta nell'oggetto o nella regola ma all'intenzione simbolica di chi li attiva e li pratica" [Cocevar 1993, p. 17].

Il riferimento alla psicoanalisi non deve indurre a pensare che si voglia confondere il setting analitico con il teatro didattico. Dallo stesso punto di vista psicanalitico la differenza tra funzione educativa e terapeutica è chiara. "L'educazione ha per scopo un (ri) modellaggio dell'ideale dell'Io per integrare tratti di personalità, mutuati soprattutto dall'educatore. L'analisi non ha per scopo un modellaggio, ha per oggetto il transfert stesso, la soppressione delle resistenza interna, la modificazione interna. Mentre l'educazione si fa sostenere dal narcisismo per dominare le pulsioni, facendole sottostare alla rimozione e controbilanciando il dispiacere legato alla rinuncia con la soddisfazione all'ideale dell'Io, l'analisi si allea alle istanze pulsionali, alla forze dei desideri rimossi contro il dispiacere del narcisismo messo in crisi" [Cocevar 1993, p. 49].

Si comprende quanto sia difficile, in generale, presumere di generalizzare i risultati, anche positivi, di un'azione didattica se essa appare così fortemente dipendente dalle particolari modalità simboliche della specifica relazione intersoggettiva che l'ha animata.

Per Tosquelles "l'educatore ha una funzione di accoglienza sulla scacchiera [predisporre la quale è il suo compito], presenta e ricorda l'utilità del soggiorno nel servizio [p.e. scolastico]. Evita, per quanto possibile, l'impegno affettivo e passionale nel sistema di fantasmi che gli utenti mettono in circolazione. Orienta la socializzazione di questi fantasmi attraverso passaggi successivi fra diversi gruppi, momenti di attività, amplia, per quanto è possibile, i passaggi e gli scambi. I progressi che si realizzano attraverso l'accanirsi - per quanto lento e perseverante - in sforzi personali di un particolare educatore nei confronti di un [soggetto] particolare, ottengono il più delle volte dei risultati che sono destinati a sciogliersi come neve al sole" [Tosquelles 1979, p. 12-13].

Non bisogna intendere queste cautele epistemologiche e queste proposte operative come un rifiuto aprioristico delle tecniche, ma piuttosto come una loro più corretta collocazione funzionale.

"Di fronte al disagio del non sapere cosa fare nel concreto, vi è la tendenza a eliminarlo semplificando tecniche ben programmate e diverse. Ma se non si accoglie il [soggetto] nel suo desiderio, nelle sue possibilità esistenziali, nella sua ricerca di uno spazio di vita, qualsiasi tecnica servirà solo a negare questi aspetti. Ho già sostenuto, facendo addirittura un elogio di Skinner, l'utilità delle tecniche, quindi la necessità di conoscerle, ma è necessario che esse non si attengano a una programmazione rigida. Bisogna, prima, saper accogliere questa cosa, che potrebbe sembrare mistica, che è il desiderio inconscio, ovvero il materiale pulsionale e immaginario che spesso non arriva neanche alla parola, e che per questo motivo, occorre incanalare e interpretare in immagini, metafore, produzioni artistiche. Non si tratta di interpretarlo in presenza del [soggetto] o della famiglia, ma ogni educatore lo fa nella propria testa e nel discorso con i compagni di lavoro. Solo dopo aver fatto questo tipo di lavoro si possono giustamente collocare anche interventi di tipo skinneriano" [Tosquelles 1979, p. 13].

 

 

 

La ricerca metodologico-disciplinare

 

Nell'ambito della ricerca didattica la cosiddetta ricerca metodologico-disciplinare (RMD), pur concepita entro i quadri apparentemente rigidi della Didattica Breve, è un esempio di attività, ermeneuticamente orientata, che vede il docente, in veste di ricercatore, come professionista riflessivo.

Il Progetto Nazionale La qualità nel recupero e nella ricerca metodologico-disciplinare per la qualità del'autonomia, finanziato dall'allora IRRSAE dell'Emilia Romagna a partire dall'a.s. 1999/2000, ha costituito un progetto emblematico, in questo senso, che ha investito anche (o soprattutto) la didattica della filosofia e la ricerca su di essa.

Si è trattato di una forma di "ricerca nella didattica disciplinare per sostenere lo sviluppo dell'autonomia scolastica, con riferimento alle indicazioni della Didattica Breve e all'insegnamento disciplinare per moduli [... ] Gruppi di docenti, costituitisi nel corso del primo anno scolastico 1999-2000 si attivarono allora come gruppi di ricerca metodologico-disciplinare e nel caso dei gruppi di filosofia si verificò un'interazione significativa tra i gruppi stessi e una sistematica e proficua attività di scambio e confronto che portò alla costituzione di un unico gruppo regionale, il quale tuttora si sforza si svolgere la propria attività di ricerca in una prospettiva condivisa e unitaria" [C. Bonelli ed E. Rosso, Presentazione delle attività svolte dai gruppi RMD di filosofia dell'Emilia-Romagna, in Bonelli et al. 2002, p. 54].

L'ipotesi che ha guidato l'intera attività è che "la raccolta e l'analisi delle esperienze, che si interfaccia con un istituto di ricerca costituisca l'ambiente ideale per una professionalità riflessiva, un riferimento per una progettualità autonoma, proiettata alla qualità del servizio" [Gian Carlo Sacchi, Il profilo del docente ricercatore, in Bonelli et al. 2002, p. 48].

Sembra, quindi, fin d'ora, particolarmente promettente il confronto con i risultati e le proposte di questo gruppo di docenti-ricercatori per quanto riguarda l'innovazione nella didattica della filosofia.

 

 

 

Filosofia, ricerca, didattica: una triangolazione ermeneutica

 

Nell'ansia di conferire alla propria attività didattica una veste "scientifica" non va dimenticato il rischio di abbracciare acriticamente paradigmi esplicativi mutuati da altri saperi (soprattutto la psicologia e la sociologia) e tutt'altro che "oggettivi" o neutri come ingenuamente si potrebbe credere.

"[La pedagogia, ma il discorso, ci pare, vale anche per la ricerca didattica,] per la propria identità deve fare appello a criteri diversi da quelli su cui si basa l'articolazione delle scienze, che appare esaurire l'ambito oggettuale. L''utilizzazione' si caratterizza come consumo piuttosto che produzione di conoscenze. Il pedagogista non può entrare nel merito; deve limitarsi a stabilire di volta in volta che cosa gli serve e andarlo a chiedere alle discipline competenti [...] [Ma] quando in sede pedagogica si ritiene di 'utilizzare' dati contributi si è in realtà dominati da una prospettiva che assume un ruolo egemonico: vengono tacitamente accettati non solo un certo modello di scienza, ma anche una percezione e teorizzazione di problemi e un insieme di atteggiamenti" [cfr. Tornatore 1986, pp. 42 ss.].

La soluzione, secondo la compianta "filosofa" Lydia Tornatore, lungi dall'affidarsi allo spontaneismo, non può se non essere quella di "costituire e consolidare un sapere scientifico che assuma a proprio oggetto processi intenzionali di trasmissione culturale" e una "riflessione su se stesso, sulla propria natura e sul proprio ruolo che [...] sottolinei la relazione tra teoria e pratica [piuttosto che la loro opposizione]" [Ivi, p. 46].

 

Un ricerca pedagogica o didattica deve vedere protagonista, lo si è visto, il docente come professionista riflessivo.

A maggior ragione questo deve valere se la ricerca investe la didattica della filosofia, che non può non porsi sempre di nuovo criticamente il problema dei fondamenti epistemologici della ricerca stessa: in ultima analisi, con un gioco di parole solo apparente,

 

una ricerca sulla didattica della filosofia non può che accompagnarsi anche (e non solo in astratto, ma proprio a partire dalla riflessione sui "dati" della ricerca medesima) a una filosofia della ricerca didattica, cioè all'esplicitazione dei presupposti filosofici sottesi a ogni ricerca che si voglia scientifica.

 

Più in generale, come ha osservato un classico della pedagogia, in ogni genere di ricerca empirica, "le idee germogliate all'estremità del campo filosofico (generale, e spesso vago e speculativo, se volete) hanno rappresentato fattori indispensabili nella genesi della scienza [...] I risultati specifici periodicamente divengono troppo statici e rigidi [...] Le idee e i punti di vista generali inducono allora fermenti fecondi. I risultati specifici ne risultano scossi, allentati e collocati in nuovi contesti" [Dewey 1951, pp. 37-8].

Perfino uno dei principali teorici riconosciuti della ricerca sperimentale in ambito pedagogico riconosce l'importanza, sia pure soltanto preliminare, della prospettiva teorica che illumina una ricerca empirica e del valore dell'ipotesi:

"La semplice raccolta dei dati o la tabulazione degli stessi sotto forma di numeri, se non è orientata da un'ipotesi e non conduce a una precisa conclusione non può essere considerata un esempio valido e completo di ricerca a livello scientifico; in linea di principio, bisogna dire che qualsiasi ricerca dovrebbe sempre fare riferimento a una teoria generale. Anche se discutibile, essa attribuisce all'indagine un preciso indirizzo da seguire, senza di cui si rischia di rimanere nell'ambito ristretto dell'empirismo [...] In genere l'ipotesi risolutiva viene prescelta tra le altre, durante una fase preliminare di messa a punto" [De Landsheere 1973, pp. 11-12].

Se tutto questo è vero quale paradigma teorico dovrebbe presiedere a una ricerca relativa alla didattica della filosofia?

 

Se facciamo "cortocircuitare" il modello della ricerca-azione con quello che dovrebbe presiedere alla didattica della filosofia troviamo, senza troppa sorpresa, che sono entrambi guidati, più o meno esplicitamente, da un paradigma di tipo ermeneutico.

 

Questo ci permette di rilevare una promettente circolarità, per la filosofia, ma non solo, tra le metodologie "scientifiche" della ricerca pedagogico-didattica e le strategie "didattiche" della formazione: il successo di una determinata esperienza di insegnamento, nella misura in cui essa sia adeguatamente documentata e valutata, può rappresentare in pari tempo il primo tassello di una ricerca sull'innovazione didattica, nel senso della ricerca-azione.

A questo scopo, tuttavia, iuxta la circolarità del paradigma ermeneutico invocato, è indispensabile che ad ogni nuovo "step" della ricerca non ci si limiti a verificare o falsificare le ipotesi di partenza formulate in occasione della prima esperienza (che assume la funzione di ricerca esplorativa), ma è necessario che le si metta sempre di nuovo in discussione, formulandone di alternative e rileggendo sempre di nuovo l'insieme dei dati prodotti dalla serie di esperienze alla luce di tali nuove ipotesi.

Solo in questa attività il docente può effettivamente "guadagnarsi" quella "qualifica" di professionista riflessivo che dovrebbe contraddistinguerlo.

 

Ciò deve valere tanto più per il docente di filosofia, a conferma delle penetranti intuizioni di Mario Trombino:

"La radicale novità cui assistiamo da alcuni anni è la nascita di una didattica teorica della filosofia in senso proprio. è nata in ambito non universitario, come esigenza propria della scuola. In numero crescente, gli insegnanti hanno cominciato a porre domande sul senso del loro lavoro e soprattutto sugli obiettivi che erano chiamati a raggiungere. Hanno cioè cominciato a porre, innanzitutto a se stessi, la domanda sulla natura della filosofia rispetto al compito loro affidato della educazione dei giovani. E lo hanno fatto in termini non retorici, ma operativi. Si sono chiesti: quel è la forza educativa dei concetti filosofici? e che tipo di persona essi possono realisticamente formare? [...] La didattica teorica è il tentativo di comprendere a fondo la natura della filosofia - con ricerche a tutto campo - sotto il profilo della operatività, del lavoro filosofico da compiere con le persone (giovani e adulti). È ricerca didattica, perché studia quali strumenti per quali obiettivi, quali strumenti su quale fondamento".

Nel campo della filosofia forse più che in ogni altro, le esperienze didattiche non possono costituire mere "applicazioni" di quanto elaborato in sede "teorica" (all'università o altrove), ma sono esse stesse "pratiche" dalla piena rilevanza teorica, non solo ai fini della valutazione della loro "efficacia" formativa, ma anche addirittura nel senso della (ri)definizione del proprio statuto disciplinare.

 

A questo riguardo si può fare riferimento alla discussione, iniziata da uno dei massimi filosofi contemporanei, recentemente scomparso, Jacques Derrida, sull'ambiguo statuto disciplinare della filosofia (cfr. Derrida 1990).

le distinzioni tra filosofia come disciplina della scuola secondaria, filosofia come disciplina universitaria, filosofia come attività di ricerca, filosofia come attività in generale, filosofia come funzione interna di altre discipline (per es. la filosofia del diritto o l'epistemologia della fisica), infine filosofia come stile di vita personale debbono essere sfumate, anche se non completamente cancellate, per la natura stessa dell'attività filosofica.

 

Il successo crescente che registrano attività di pratica filosofica come i "seminari di filosofia pratica" e la "consulenza filosofica" sono un'ulteriore testimonianza dell'irriducibilità della filosofia a quello che, in modo, certo, esageratamente polemico, i sostenitori di queste pratiche chiamano il "ghetto accademico" [cfr. Pollastri 2004, Achenbach 2004]